CASO Clausole campione

CASO. Il Fallimento S.p.a. aveva convenuto in giudizio, dinanzi al Tribunale di Santa Xxxxx Xxxxx Vetere, la società Francese Sas, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni, quantificati in lire 580.000.000, conseguenti all’inadempimento delle obbligazioni derivanti da un contratto di fornitura di un impianto industriale, destinato al proprio stabilimento di Marcianise, per il riempimento di bombole metalliche con panna. L’impianto, sin dall’istallazione e nelle prime fasi di utilizzo, aveva manifestato avarie, difetti e disfunzioni tali da rendere necessari innumerevoli interventi tecnici con interruzione della produzione e perdita dei prodotti. La società convenuta si costituiva in giudizio ed eccepiva il difetto di giurisdizione del giudice italiano, dovendo la causa essere decisa dal giudice francese, e contestava poi nel merito la pretesa risarcitoria. Il Tribunale con sentenza non definitiva rigettava l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice adito, affermando la giurisdizione del giudice italiano. Avverso tale decisione la società Francese proponeva riserva di appello. Con sentenza definitiva il Tribunale accoglieva la domanda risarcitoria della società attrice e condannava la convenuta al pagamento della somma di € 314.454,21. La società Francese proponeva appello avverso la sentenza non definitiva riguardante la giurisdizione ed avverso la sentenza definitiva riguardante il merito della controversia. La Corte d’Appello di Napoli rigettava entrambe le impugnazioni. La Corte d’Appello evidenziava che per definire la questione che verteva sulla giurisdizione occorreva stabilire il luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio era stata o doveva essere eseguita e, ancor prima, era necessario stabilire la natura giuridica di tale obbligazione. Secondo la tesi della società appellante, l’obbligazione rientrava nello schema del contratto di compravendita e, dunque, il giudice competente doveva essere quello del luogo della consegna del bene, luogo che doveva essere individuato sul suolo francese, ivi essendo avvenuta la suddetta consegna. Tale assunto non veniva condiviso dalla Corte d’Appello che ha affermato che il contratto in essere tra le parti doveva qualificarsi come contratto di appalto, la cui esecuzione era avvenuta in Italia. Infatti, il negozio non si limitava a stabilire una semplice fornitura di un bene, ma prevedeva la posa in opera di un’apparecchiatura industriale particolarmente complessa e poneva, come risultava anche let...
CASO. Una creditrice interveniva in una procedura esecutiva immobiliare in forza di una sentenza provvisoriamente esecutiva del Tribunale di Roma e si rendeva, altresì, cessionaria del credito vantato dal procedente nei confronti dell’esecutato, nonché di un ulteriore credito avente titolo nella medesima sentenza in forza della quale aveva svolto l’intervento, venendo, così, a cumulare tre distinte ragioni creditorie. Poiché, nel frattempo, l’efficacia esecutiva della sentenza del Tribunale di Roma era stata sospesa, l’intervenuta, in occasione dell’udienza fissata per l’approvazione del progetto di distribuzione, formulava richiesta di accantonamento delle somme a lei spettanti, ma il giudice la respingeva. Fissata una nuova udienza per l’approvazione di un secondo progetto di riparto, la medesima creditrice chiedeva l’assegnazione delle somme spettantile sia in virtù della sentenza del Tribunale di Roma (che aveva, frattanto, riacquistato efficacia esecutiva), sia quale cessionaria del credito del procedente, che non era stato soddisfatto in precedenza perché la sentenza azionata era di condanna generica e non valeva, quindi, come titolo esecutivo; motivo per cui, con riguardo allo stesso identico credito, il procedente si era procurato, nelle more, un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, svolgendo intervento e cedendo pure esso alla creditrice che aveva acquistato in precedenza quello che trovava titolo nella sentenza di condanna generica. Poiché il giudice dell’esecuzione, nondimeno, escludeva dal riparto tutti i crediti dell’istante, quest’ultima proponeva opposizione ai sensi degli artt. 512 e 617 c.p.c., che veniva respinta con sentenza impugnata con ricorso per cassazione.
CASO. La sentenza in commento ha ad oggetto una locazione turistica di breve periodo all’interno di un condominio, fattispecie che continua ad essere causa di frequenti liti tra comproprietari. Questa è la vicenda: due condòmini concedevano in locazione, per brevi o brevissimi periodi, l’immobile di proprietà, per finalità turistiche. Il condominio censurava, avanti al Tribunale, la suddetta attività, sulla scorta della clausola di regolamento condominiale contrattuale, approvato all’unanimità nel 1961, a cui tenore era vietato l’esercizio all’interno dell’appartamento dell’attività di “pensione” o l’uso dello stesso “a camere ammobiliate affittate a terzi”; peraltro, a detta dell’attore, tale attività avrebbe arrecato disturbo alla quiete e danno al decoro del condominio (senza contare l’omissione della previa comunicazione all’amministratore). I condòmini convenuti eccepivano la non opponibilità, nei loro confronti, del predetto regolamento, atteso l’acquisto dell’appartamento in epoca successiva e atteso il fatto che le limitazioni in questione costituivano servitù atipiche, come tali opponibili ai terzi acquirenti solo ove trascritte o specificamente indicate, conosciute e approvate nell’atto di acquisto. Contestavano inoltre quanto asserito dal condominio anche sotto il profilo della turbativa e della lesione del decoro. Il Tribunale, pur qualificando (erroneamente) le locazioni in questione come “attività di Bad&Breakfast”, rigettava la domanda del condominio sull’assunto che la clausola regolamentare avrebbe dovuto essere trascritta nei registri immobiliari ex artt. 2659 e 2665 c.c. o specificamente conosciuta al momento dell’acquisto dell’immobile, non essendo sufficiente il mero richiamo del regolamento contenuto nell’atto di compravendita. Il condominio impugnava la sentenza di primo grado. Resistevano gli appellati, rappresentando che la locazione breve non violava il regolamento, non essendo attività assimilabile all’affitto di camere ammobiliate ma trattandosi di affitto dell’intera unità immobiliare, per uso abitativo, senza servizi accessori di carattere alberghiero; eccepivano inoltre l’assenza di turbativa della tranquillità e di lesione dell’igiene e del decoro dell’edificio.
CASO. Il provvedimento in esame è stato pronunciato all’interno di un contenzioso tributario che ha visto l’Agenzia delle Entrate soccombente sia avanti alla Commissione Tributaria Provinciale che Regionale. Tale controversia è stata introdotta mediante ricorso avverso avvisi di accertamento IVA ed IRES proposto da un soggetto responsabile in solido con la società Alfa per il pagamento di dette imposte. In particolare, nel proporre ricorso, il contribuente ha sostenuto che nulla era da lui dovuto, avendo egli beneficiato degli effetti esdebitatori derivanti dal concordato fallimentare concluso, ex artt. 124 s. L.fall., dalla Società Alfa con i suoi creditori e omologato dal Giudice. Il ricorso è stato accolto dalla Commissione Tributaria Provinciale. L’Agenzia delle Entrate ha successivamente deciso di appellare la pronuncia di primo grado avanti alla Commissione Tributaria Regionale. Anche quest’ultima, però, con pronuncia favorevole al ricorrente, ha rigettato l’appello promosso dall’Agenzia delle Entrate sostenendo che: i) l’appellante avesse fondato la sua impugnazione sull’art. 184 L.fall., norma operante in materia di concordato preventivo. La sentenza di primo grado della Commissione Tributaria Provinciale era invece incentrata sul fatto che tra la società fallita ed i suoi creditori era intercorso un concordato fallimentare ex artt. 124 s. L.fall., ipotesi distinta, pertanto, dal contesto di applicabilità dell’invocato art. 184 L.fall.; inoltre ii) il concordato fallimentare, stipulato tra le parti ed omologato dal Giudice, avrebbe determinato una remissione parziale dei debiti d’imposta per gli importi oggetto di falcidia concordataria, liberando così non solo la società debitrice, ma anche i relativi coobbligati. A fronte della pronuncia di secondo grado, l’Agenzia delle Entrate si è vista costretta a proporre ricorso avanti alla Corte di Cassazione sulla base di due diversi motivi di impugnazione. Con il primo motivo l’Agenzia delle Entrate ha sostenuto di aver invocato solo erroneamente in sede d’appello la norma di cui all’art. 184 L.fall., essendo evidente dal tenore dell’atto di gravame il reale riferimento all’art. 135 L.fall., norma che pone in ambito di concordato fallimentare una disciplina analoga e sovrapponibile a quella dettata dall’art. 184 L.fall. in materia di concordato preventivo. Inoltre, con il secondo motivo di impugnazione, l’Agenzia delle Entrate ha affermato che, proprio in ragione della disciplina dettata dall’art. 135 L.fall.,...
CASO. Il caso in oggetto ha origine da un’intimazione di sfratto per morosità nei confronti del conduttore di immobile adibito ad uso abitativo derivante dal mancato pagamento di una mensilità (agosto 2012) il quale inizialmente si oppone all’intimazione, deducendo difetto di legittimazione passiva, nullità e inefficacia del contratto per il periodo anteriore alla sua registrazione, in particolare la morosità indicata; tuttavia in seguito al rinvio dell’udienza per pendenza di trattative e con salvezza di ogni diritto, rinuncia all’opposizione, invoca termine di grazia, che poi non rispetta e quindi rimane soggetto alla convalida. Il conduttore interpone appello alla convalida di sfratto ed anche il giudice del secondo grado, conferma l’ordinanza-intervenuta risoluzione del contratto e rigetta l’impugnazione.
CASO. A seguito della morte del de cuius, la moglie pagava le rate di un finanziamento (del quale erano condebitori entrambi i coniugi) mediante la provvista ricavata dal denaro presente su un conto corrente bancario cointestato tra loro, fino ad azzerarne la giacenza. I creditori del de cuius, riscontrando l’insufficienza del patrimonio del debitore defunto per soddisfare le loro ragioni, aggrediscono i beni della moglie, procedendo ad una esecuzione forzata immobiliare. In particolare una società creditrice ha chiesto al tribunale di prime cure di far dichiarare l’intervenuta accettazione tacita dell’eredità, al fine di poter tutelare i propri diritti in sede di esecuzione immobiliare; la moglie, chiamata all’eredità, ha chiesto il rigetto della domanda. Il tribunale di Varese, aderendo alla prospettazione difensiva, ha rigettato la domanda, e in tal senso si è pronunciata, in seconde cure, anche la Corte d’Appello di Milano. Avverso tale ultima decisione la società attrice ha proposto ricorso in Cassazione. Il ricorso era fondato sul presunto “omesso esame di un fatto decisivo del giudizio” e cioè la mancata considerazione del fatto che i prelievi della moglie avevano di fatto azzerato il conto corrente, così attingendo anche alla quota del 50% del denaro che si doveva presumere di spettanza del de cuius.
CASO. Il ricorrente, già dipendente di Alfa s.r.l., otteneva dal Tribunale del Lavoro di Oristano decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo ex art. 642 c.p.c. per il pagamento delle competenze vantate nei confronti della società. Il decreto ingiuntivo era stato opposto dalla società, ma la causa di opposizione era stata cancellata dal ruolo per inattività delle parti. Il ricorrente pertanto chiedeva, con il predetto titolo monitorio, al Tribunale di Oristano l’ammissione in via privilegiata al fallimento di Alfa s.r.l., proponendo opposizione allo stato passivo avverso il decreto di rigetto emesso dal giudice delegato del fallimento. Il Tribunale aveva infatti ritenuto che la mancanza di un’espressa dichiarazione di estinzione del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo sarebbe stata impeditiva del giudicato, con conseguente difetto di un valido titolo per l’insinuazione al passivo fallimentare, in mancanza di altre prove del credito vantato verso la società fallita. Infatti e nel merito il Tribunale aveva ritenuto mancante la prova del credito vantato dal ricorrente, che aveva allegato unicamente le scritture contabili della società fallita, esplicanti i loro effetti, ai sensi dell’art. 2709 c.c., solo inter partes, ma non anche nei confronti dei terzi, tra cui rientrava il curatore fallimentare, quale rappresentante della massa dei creditori, pur subentrato nella gestione del patrimonio della fallita. Il creditore impugnava il decreto di rigetto dell’opposizione allo stato passivo.
CASO. Nell’ambito dell’espropriazione forzata della quota indivisa di un immobile, il processo esecutivo veniva sospeso per dare corso al giudizio di divisione, conclusosi con sentenza che, accertata la non comoda divisibilità del bene, ne disponeva la vendita, cui seguivano l’aggiudicazione e l’emissione dei decreti di trasferimento. A quel punto, il giudice dell’esecuzione veniva investito della richiesta di declaratoria di estinzione del processo esecutivo, in quanto, dopo la pronuncia della sentenza di secondo grado nell’ambito del giudizio di divisione, era stato riassunto quest’ultimo, anziché quello di esecuzione. L’istanza veniva rigettata, così come il successivo reclamo; la Corte d’appello di Ancona, tuttavia, riformava il provvedimento, dichiarando l’estinzione del processo esecutivo. Xxxxxx, quindi, chiesta l’adozione dei provvedimenti conseguenti a tale pronuncia, ma poiché quest’ultima era stata – nel frattempo – fatta oggetto di ricorso per cassazione, il giudice sospendeva il processo di divisione fino al suo passaggio in giudicato ai sensi dell’art. 337, comma 2, c.p.c. L’ordinanza così emessa veniva impugnata con ricorso per regolamento di competenza, lamentandosi che la norma richiamata consente di sospendere il processo quando è invocata l’autorità di una sentenza resa in altro giudizio, mentre quella emessa nel procedimento di divisione endoesecutiva – proprio in quanto tale – appartiene pur sempre al processo esecutivo.
CASO. [1, 2] Una società per azioni proponeva al Tribunale di Xxxxxx domanda di concordato in bianco ai sensi dell’art. 161, comma 4, l. fall. cui faceva seguito il decreto di accoglimento. Prima della scadenza del termine fissato dal giudice per la presentazione della proposta, del piano e della documentazione prescritta dai commi secondo e terzo dell’art. 161 l. fall., la società ammessa alla procedura concorsuale formulava istanza di sospensione di alcuni contratti pendenti. A sostegno della istanza la ricorrente deduceva l’antieconomicità e l’assenza di funzionalità dei contratti rispetto al piano concordatario e, sotto il profilo del periculum in mora, prospettava la maturazione di cospicui debiti in prededuzione nell’ipotesi di mancata sospensione durante la pendenza del termine di cui all’art. 161, comma 4, l.fall. Poiché il pericolo si prospettava anche in relazione ai tempi di celebrazione dell’udienza di comparizione delle parti, l’istante chiedeva che la sospensione fosse autorizzata con provvedimento inaudita altera parte .
CASO. Una persona conclude un contratto di cessione del quinto della stipendio con una finanziaria. Computando anche il costo dei premi assicurativi, il costo complessivo del contratto supera il tasso soglia usura vigente nel trimestre di conclusione del contratto per quel tipo di operazioni (appunto, cessioni del quinto). Per questa ragione il debitore agisce in giudizio nei confronti della banca, per ottenere l’azzeramento degli oneri previsti dal contratto.