Common use of Motivi della decisione Clause in Contracts

Motivi della decisione. Preliminarmente, i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c.. Ricorso principale. (OMISSIS) Con il secondo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle clausole generali della buona fede, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c.). Con il terzo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorietà della motivazione sul punto (art. 360 c.p.c., n. 5). Con il quarto motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (art. 360 c.p.c., n. 3). Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, nei limiti di cui in motivazione, per le ragioni che seguono. Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:

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Motivi della decisione. PreliminarmenteTanto premesso, preliminarmente rileva il giudicante l'assenza del requisito della attualità della dedotta condotta antisindacale per gli anni scolastici 1998- 2002, considerato il lungo tempo trascorso tra la condotta denunciata e il deposito del ricorso. Tale considerazione induce a ritenere assorbite le ulteriori eccezioni di inammissibilità sollevate dalla resistente ed innanzi riportate. Quanto, invece, alla condotta denunciata con riferimento all'anno scolastico in corso, si rileva che il ricorso è fondato e deve essere accolto. L'art.3 del CCNL del Comparto scuola 2002/2005 prevede che il sistema di relazioni industriali si articola, tra l'altro, nel modello relazionale della contrattazione collettiva che si svolge a livello integrativo nazionale, regionale e a livello di istituzione scolastica, con le modalità, i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c.. Ricorso principale. (OMISSIS) Con il secondo motivo denunciano la violazione tempi e falsa applicazione delle clausole generali della buona fede, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione le materie articolate agli artt. 1175 4 e 1375 c.c.)6 . Con (Omissis) Per valutare il terzo motivo denunciano merito della controversia, pertanto, occorre verificare, alla luce delle vicende di fatto illustrate dalle parti, se ed in che misura il resistente ha rispettato gli obblighi previsti dalla contrattazione collettiva in tema di relazioni sindacali. Xxxxxx, l'esame delle dichiarazioni rese dalle parti e della documentazione acquisita consente di affermare che nella specie il dirigente scolastico della scuola ….. non ha osservato le disposizioni contrattuali in tema di contrattazione integrativa d'istituto. Ed invero, a fronte delle reiterate richieste, inoltrate anche a mezzo del difensore del ricorrente e documentate in atti, detto dirigente non ha mai convocato al tavolo delle trattative il rappresentante territoriale dell'O.S. ricorrente, né ha formulato la proposta contrattuale che, ex art. 6 citato, avrebbe dovuto essere fatta entro termini congrui con l'inizio dell'anno scolastico. (Omissis) Alla luce degli elementi di fatto testè evidenziati emerge dunque che il dirigente, anziché avviare le trattative con l'O.S. ricorrente e, conseguentemente, negoziare su tutte le materie indicate dal 2° comma dell'art 6 del CCNL, onde poi formulare la proposta contrattuale da sottoporre all'approvazione del sindacato, ha ritenuto di "saltare" la fase delle trattative o, meglio, di trattare le materie di cui all'art. 6 esclusivamente con gli RSU -in violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.7 del CCNL, che individua le delegazioni trattanti a livello di istituzione scolastica, nelle RSU e nei rappresentanti territoriali delle XX.XX. firmatarie del CCNL-, formulando all'esito la proposta contrattuale. Detto comportamento ha indotto quindi l'estromissione del ricorrente dalle trattative, posto che la successiva sottoposizione ad esso della proposta contrattuale, per l'approvazione, certamente ha escluso, per il ricorrente, la possibilità di essere parte attiva del processo formativo dell'accordo sindacale; contraddittorietà della motivazione sul punto (art. 360 c.p.c.ha escluso, n. 5). Con il quarto motivo denunciano praticamente, la violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (art. 360 c.p.c.possibilità del sindacato di negoziare preventivamente le forme di tutela dei diritti del personale scolastico, n. 3). Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, nei limiti nonché dei diritti sindacali di cui al punto f) dell'art. 6 del CCNL, venendo informato preventivamente sulle modalità ed i tempi di gestione della scuola e della ripartizione delle risorse economiche del dirigente, nonché di negoziare le forme di prevenzione della conflittualità delle relazioni sindacali. La condotta della resistente assume, a parere del giudicante, il carattere della antisindacalità in motivazionequanto in aperta violazione dei diritti all'informazione e di contrattazione che il CCNL della scuola riconosce alle XX.XX. Ed invero, la finalità dell'incontro tra le parti sociali è quella di contemperare una serie di interessi giuridicamente rilevanti, al fine di migliorare le condizioni di lavoro e la professionalità dei dipendenti e nel contempo mantenere elevata l'efficacia e l'efficienza dei servizi per le ragioni la collettività. L'art. 6 del CCNL, come visto innanzi, garantisce l'attivazione dell'informazione, della consultazione e della contrattazione in una serie di materie. Pertanto, posto che seguonol'attività del sindacato non si esaurisce solo sul posto di lavoro, ma si estende a tutti quei casi nei quali la contrattazione riconosce al sindacato posizioni partecipative dei processi decisionali, ne deriva che ogniqualvolta il datore di lavoro elude tale prerogativa, rendendo di fatto nullo il ruolo del sindacato nella fase di informativa e di consultazione, sussiste la condotta antisindacale (nello stesso senso, Trib. Costituiscono principii generali Avellino, decreto del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.28.6.2003). In tema giurisprudenza, comunque, è pacifico l'orientamento che afferma la antisindacalità della condotta datoriale in caso di contrattiviolazione di disposizioni, di legge o contrattuali, che riconoscono al sindacato il principio della buona fede oggettivadiritto di informazione e di consultazione (cfr., cioè della reciproca lealtà X. Xxxx, 00-00-0000, Xxx. Xxxxxx, 13-03-2001, Trib. Il mancato rispetto del ruolo del sindacato concordato in sede di condottacontrattazione costituisce certamente condotta antisindacale in quanto mette in discussione la credibilità e l'immagine del sindacato, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione edvanificandone l'azione e sminuendo il ruolo di agente contrattuale soprattutto agli occhi dei lavoratori che, in definitivatal caso, accompagnarlo ben possono ritenere di non essere validamente rappresentati. L'esclusione del ricorrente dalla trattativa e dalla consultazione, considerata anche l'importanza degli argomenti da trattare, appare anche in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che la clausola generale contrasto con i principi di buona fede e correttezza è operantein quanto altera le regole del confronto sindacale stabilite in sede di contrattazione, tanto sul piano dei comportamenti dando luogo ad atteggiamenti di negazione del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civruolo svolto dalle XX.XX.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poiNon v'è dubbio che tale atteggiamento toglie credibilità al ricorrente, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, quale si è pervenuti ad affermare che il criterio visto spogliato della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche sua effettiva rappresentatività in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia seguito al disconoscimento del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza ruolo dialettico e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere contrattuale. Quanto alla intenzionalità della condotta, basta osservare che una clausola generalela più recente giurisprudenza, come quella dell'abuso del dirittocui questo Xxxxxxx ritiene di aderire, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte esclude la necessità della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento dimostrazione della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella intenzionalità della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie condotta datoriale ai fini della sua esclusione dalla società qualificazione della antisindacalità; sul punto si è pronunciata la Suprema Corte a Sezione Unite (sent.n. 5295 del 12.6.1997) affermando che " ai fini della valutazione della antisindacalità della condotta datoriale è sufficiente che il giudice accerti che il comportamento del datore di lavoro abbia oggettivamente leso la libertà sindacale o il diritto di sciopero, non essendo necessario (ma nemmeno sufficiente) uno specifico intento lesivo da parte dell'imprenditore" (conf. Cass. 19.12.2008 00.0.0000 x.0000; id. n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 112581600 del 16 .2.1998). In tal casoSussiste nella specie anche l'attualità della condotta. Ed invero, proprio richiamando l'abusol'attualità della condotta antisindacale, ne sarà possibile, che costituisce presupposto necessario per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio l'esperibilità dell'azione ex art. 2744 c.c28 l. 20 maggio 1970 n. 300, in quanto diretta ad una pronunzia costitutiva e non di mero accertamento, non è esclusa dall'esaurirsi della singola azione sindacale del datore di lavoro, ove il comportamento illegittimo di questi risulti tuttora persistente ed idoneo a produrre effetti durevoli nel tempo, sia per la sua portata intimidatoria, sia per la situazione di incertezza che ne consegue, tale da determinare una restrizione o un ostacolo al libero svolgimento dell'attività sindacale (in tal senso, Cass., (Casssez. 16.10.1995 lav., 02-06-1998, n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 52735422). Del principio dell'abuso del diritto è stato(Omissis) Conseguentemente, da ultimova ordinata alla resistente la immediata cessazione della condotta antisindacale di cui sopra, fatto frequente uso in materia tributariacon il conseguente ordine, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindirimuoverne gli effetti, di ritenere ormai acclarato convocare formalmente il ricorrente per le trattative inerenti le materie di cui all'art. 6 del CCNL per il corrente anno scolastico entro e non oltre il termine di gg. 10 dalla comunicazione della presente ordinanza e di formulare la conseguente proposta contrattuale entro i successivi 10 giorni decorrenti dalla riunione fissata entro il termine che anche precede. Le spese seguono la soccombenza P. Q. M. Accoglie in parte il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ricorso ex art. 42 Cost28 L. n. 300/70 proposto dalla ……O.S., in persona del segretario provinciale sig. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda….., costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata nei confronti del Dirigente e, prospettando l'abusoper l'effetto, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logicicosì provvede:

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Motivi della decisione. Preliminarmente, i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi Nel primo motivo viene dedotta la violazione dell'art. 335 c.p.c1283 c.c., in combinato disposto con il D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 161, nonchè il vizio di motivazione per avere la Corte d'Appello ritenuto che l'applicabilità degli interessi anatocistici fosse consentita per legge nel contratto di muto fondiario senza considerare che il contratto in questione è assoggettato alla disciplina normativa introdotta dal D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 161, con il quale è stato abrogato il precedente T.U. n. 646 del 1905. Alla luce del nuovo regime giuridico i contratti di mutuo fondiario sono interamente assoggettati al T.U.B.. Ricorso principale. (OMISSIS) Con il Nel secondo motivo denunciano viene dedotta la violazione degli artt. 101 e falsa applicazione delle clausole generali della buona fede, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (art. 360 102 c.p.c., n. 3in ordine al confermato difetto di legittimazione passiva dei creditori intervenuti, in relazione agli trascurando di considerare che requisito sufficiente è l'essere muniti di titolo esecutivo. Nel terzo motivo è stata dedotta la violazione degli artt. 1175 61 e 1375 c.c.). Con il terzo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorietà della motivazione sul punto (art. 360 116 c.p.c., n. 5)e art. Con 2697 c.c., nonchè il vizio di motivazione nel non aver ritenuto, il giudice d'appello, la sussistenza del patto commissorio e dell'impossibilità sopravvenuta, anche in ordine all'omesso accoglimento dell'istanza di consulenza tecnica d'ufficio, sull'effettiva finalità del mutuo. Nel quarto motivo denunciano viene dedotta la violazione del d.lgs. n. 385 del 1993 nonchè della normativa antiusura ed infine il vizio di motivazione per non essere stato considerato che le perizie svolte in sede esecutiva avevano assegnato ai beni valori di Euro 70.000 e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca 84.000 a fronte di crediti per Lire 176.145.390 e Lire 62.480.95 quando sui beni era stata trascritta ipoteca per Lire 540.000.000 e Lire 349.000.000. Sotto altro profilo la sentenza è illegittima anche perchè non ha accolto il motivo relativo alla riduzione proporzionale dell'ipoteca, ritenendo plausibile che il valore dei beni immobili in materia (art15 anni si sia dimezzato invece di aumentare, al fine di applicare l'art. 360 39 T.U.B. e ritenere erroneamente che il valore residuale non fosse neanche sufficiente a coprire il debito. Nel quinto motivo viene dedotta la violazione dell'art. 111 c.p.c., n. 3)nonchè il vizio di motivazione per essere stata erroneamente riconosciuta la legittimazione attiva del Banco di Sicilia nonostante non avesse più la titolarità del diritto di credito azionato fina dal 31/12/2001. Il secondoDeve essere preliminarmente affrontata l'eccezione d'inammissibilità del controricorso notificato dalla Unicredit Managment Bank S.P.A. in data 4/5/2011 in luogo del diverso titolare del credito nelle precedenti fasi del giudizio Banco di Sicilia, dovendosi applicare il principio secondo il quale il successore a titolo particolare può impugnare la sentenza di merito ma non intervenire nel giudizio di legittimità, in mancanza di un'espressa previsione normativa che consenta al terzo e quarto motivola partecipazione al giudizio con facoltà di esplicare difese, investendo profili assumendo una veste atipica rispetto alle parti necessarie. L'eccezione può essere disattesa. Gli orientamenti segnalati dalla parte ricorrente ed i successivi che ad essi si presentano connessi ispirano (tra i più recenti 11375 del 2010; 12179 del 2014) hanno ad oggetto successori a titolo particolare effettivamente intervenuti nel procedimento di legittimità ove risultava costituito il resistente dante causa. Anche il contrasto determinatosi all'interno di questa sezione in ordine alle questioni prospettatealla partecipazione dell'assuntore del concordato oltre al curatore (Cass. 18697 del 2013, vanno esaminati congiuntamenteche ritiene ammissibile l'intervento dell'assuntore perchè successore a titolo particolare e 3336 del 2015, di avviso diverso) ha ad oggetto una fattispecie nella quale è costituito il dante causa. Essi sono fondatiIn tali ipotesi è astrattamente giustificabile l'incompatibilità con il procedimento di legittimità dell'intervento del terzo ancorchè successore a titolo particolare, nei limiti dal momento che la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio trova comunque un riconoscimento ed una tutela processuale mediante la partecipazione del xxxxx causa. Nella fattispecie dedotta nel presente giudizio, invece, il dante causa Banco di cui in motivazioneSicilia non si è costituito nel procedimento davanti la Corte di Cassazione. La situazione è del tutto equiparabile, di conseguenza, a quella del successore a titolo particolare che propone ricorso per le ragioni esercitare il diritto di azione che seguono. Costituiscono principii generali gli deriva dall'acquistata titolarità del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui controverso. Escludere la parti sua partecipazione al presente giudizio, solo perchè non ricorrente determinerebbe una lesione del diritto di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.)difesa non giustificata dalla natura del procedimento di legittimità, mancando la partecipazione in giudizio del dante causa. In tema ordine ai motivi del ricorso principale deve rilevarsi la fondatezza del primo, applicandosi, ratione temporis, alla fattispecie dedotta in giudizio il T.U.B. anche ai contratti di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contrattomutuo fondiario, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (affermato da Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass11400 del 2014 così massimata: "Con l'entrata in vigore del D.Lgs. 11.6.2008 1 settembre 1993, n. 15476385, (cosiddetto t.u.b.), secondo il quale qualsiasi ente bancario può esercitare operazioni di credito fondiario la cui provvista non è più fornita attraverso il sistema delle cartelle fondiarie, la struttura di tale forma di finanziamento ha perso quelle peculiarità nelle quali risiedevano le ragioni della sottrazione al divieto di anatocismo di cui all'art. 1283 c.c., rinvenibili nel carattere pubblicistico dell'attività svolta dai soggetti finanziatori (essenzialmente istituti di diritto pubblico) e nella stretta connessione tra operazioni di impiego e operazioni di provvista, atteso che gli interessi corrisposti dai terzi mutuatari non costituivano il godimento di un capitale fornito dalla banca, ma il mezzo per consentire alla stessa di far fronte all'eguale importo di interessi passivi dovuto ai portatori delle cartelle fondiarie (i quali, acquistandole, andavano a costituire la provvista per l'erogazione dei mutui). Ne consegue che la clausola generale l'avvenuta trasformazione del credito fondiario in un contratto di buona fede finanziamento a medio e correttezza è operantelungo termine garantito da ipoteca di primo grado su immobili, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (comporta l'applicazione delle limitazioni di cui al citato art. 1175 cod1283 c.c., e che il mancato pagamento di una rata di mutuo non determina più l'obbligo (prima normativamente previsto) di corrispondere gli interessi di mora sull'intera rata, inclusa la parte rappresentata dagli interessi corrispettivi, dovendosi altresì escludere la vigenza di un uso normativo contrario". civ.)Ha precisato al riguardo la Corte in motivazione: "Nel sistema legislativo previgente la capitalizzazione del credito per interessi corrispettivi era espressamente prevista dalla normativa di settore che ha, quanto sul piano nel tempo, disciplinato i contratti di mutuo fondiario stipulati in data anteriore all'entrata in vigore del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione t.u.b. (R.D. n. 646 del contratto (2005, art. 1375 cod38, D.P.R. n. 7 del 1976, art. civ.14, L. n. 175 del 1991, art. 16). I principii Non si è mai dubitato, pertanto, che, il mancato pagamento di buona fede e correttezzauna rata di mutuo fondiario comportasse l'obbligo di corrispondere gli interessi di mora sull'intero suo ammontare, inclusa la parte che rappresentava gli interessi di ammortamento (cfr., da ultimo, fra molte, Xxxx. nn. 21885/013, 3656/013, 9695/011). Le leggi speciali sono state tuttavia abrogate dall'art. 161, comma 1, del restot.u.b, sono entratie continuano a regolare, ai sensi del comma 6, del medesimo articolo, i soli contratti già conclusi nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridicoloro vigore. L'obbligo Il t.u.b. fornisce ora, all'art. 38 (incluso nella sezione I del capo 6^ della legge, rubricata Norme relative a particolari operazioni di buona fede oggettiva o correttezza costituiscecredito) la nozione di credito fondiario, ma non detta alcuna disposizione che preveda, come per il passato, che le somme dovute a titolo di rimborso delle rate di ammortamento dei mutui fondiari, comprensive di capitali e interessi, producono, di pieno di diritto, interessi dal giorno della scadenza. Il regime privilegiato di cui in origine godeva il credito fondiario rinveniva infatti la sua giustificazione nel carattere pubblicistico dell'attività svolta dai soggetti finanziatori, previamente individuati dalla legge fra istituti di diritto pubblico, nella stretta connessione tra operazioni di impiego ed operazioni di provvista e nella necessità di assicurare ai risparmiatori, che fornivano quest'ultima acquistando le cartelle fondiarie, sicurezza e tempestività nei rimborsi attraverso la sicurezza e la tempestività della restituzione delle somme mutuate. Deve dunque concludersi che, con l'entrata in vigore del t.u.b., la struttura del credito fondiario ha perso quelle peculiarità nelle quali risiedevano le ragioni della sua sottrazione al divieto di cui all'art. 1283 c.c.". Il secondo motivo deve ritenersi inammissibile perchè non risulta censurata una delle rationes decidendi poste a base dell'accertato difetto di legittimazione passiva dei creditore intervenuti nel procedimento di esecuzione forzato. In ordine ad entrambi è stato, infatti, un autonomo dovere giuridicosottolineato che la giustificazione della affermata legittimazione passiva era del tutto generica anche con riferimento alle ragioni del rigetto contenute nella sentenza di primo grado. Il terzo e il quarto motivo devono essere ritenuti del pari inammissibili perchè si limitano, espressione nonostante la prospettazione anche del vizio di un generale principio violazione di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporrelegge, a ciascuna delle parti richiedere un esame ed una valutazione dei fatti alternativa a quella incensurabilmente svolta dal giudice del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, merito anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicatiordine alle istanze istruttorie disattese ed, in particolare, alla richiesta di consulenza tecnica d'ufficio. Per quest'ultima si richiama ai fini della consolidata giurisprudenza in ordine all'inammissibilità della censura volta al riesame del rigetto, discrezionalmente stabilito dal giudice di merito con riferimento al contratto motivazione adeguata, nella specie dovuto alla natura esplorativa dell'istanza, (Cass.12930 del 2007; 17399 del 2015). L'inammissibilità deve estendersi anche all'articolazione della censura contenuta nel quarto motivo, riguardante la violazione della normativa antiusura. La parte ricorrente non coglie la ratio del rigetto che è la genericità della prospettazione del motivo e reitera tale vizio anche in sede di mediazione (Cassricorso. 5.3.2009 n. 5348), al contratto Il quinto motivo infine deve ritenersi infondato dal momento che il Banco di sale and lease back connesso al divieto Sicilia non era stato mai estromesso dal giudizio di patto commissorio merito con conseguente piena legittimazione a parteciparvi ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche 111 c.p.c.. In conclusione deve accogliersi il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezioneprimo motivo, con riferimento rigetto dei restanti, cassazione della pronuncia impugnata e rinvio alla corte d'Appello di Palermo in diversa composizione, perchè si attenga al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti principio di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso diritto enunciato nella massima citata ad illustrazione del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnatamedesimo. La struttura argomentativa della Corte, accoglie il primo motivo e rigetta il secondo, terzo, quarto e quinto. Cassa la sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Palermo in diversa composizione perchè provveda anche alle spese processuali del presente procedimento di legittimità.

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Motivi della decisione. Preliminarmente, devesi confermare che i ricorsi - principale ed incidentale - due ricorsi, proposti avverso la medesima sentenza e tra loro connessi, vanno riuniti ai sensi dell'artex art. 335 c.p.c.. Ricorso principaleVa, inoltre, del pari preliminarmente rilevato come i ricorsi rubricati sub nn. R.G. 13911/03 ( O. c/ ICE-SNEI) e R.G. 13686/03 (OMISSISICE-SNEI c/ O.), proposti contestualmente ai rispettivi controricorsi e con i quali, tra l'altro, le parti riprospettano le medesime questioni fatte valere con i loro ricorsi originari, siano da considerare inammissibili. E', infatti, principio acquisito che la parte, dalla quale siasi già proposto ricorso per cassazione (sia esso principale od incidentale) Con il secondo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione contro alcune delle clausole generali statuizioni della buona fedesentenza di merito, nel rapporto con un determinato avversario, non possa successivamente presentare un nuovo ricorso, nell'ambito dello stesso rapporto, nemmeno se nel frattempo abbia ricevuto notificazione del ricorso di detto avversario, ed a prescindere dal fatto che quest'ultimo possa suggerire un'estensione della contesa anche con riguardo ad altre pronunzie relative a quel rapporto, atteso che l'ordinamento non consente il reiterarsi o frazionarsi dell'iniziativa impugnatoria in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti separati (secondo il principio della cosiddetta consumazione dell'impugnazione) e che il relativo divieto non trova deroga nelle disposizioni di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (artcui all'art. 360 334 c.p.c., n. 3le quali operano soltanto in favore della parte che, in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c.). Con il terzo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorietà della motivazione sul punto prima dell'iniziativa dell'altro contendente, abbia fatto una scelta di acquiescenza alla sentenza impugnata (art. 360 c.p.c., n. 5). Con il quarto motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (art. 360 c.p.c., n. 3). Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, nei limiti di cui in motivazione, per le ragioni che seguono. Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altreda ultimo, Cass. 15.2.2007 2.2.07 n. 34622309, 14.11.06 n. 24219, 27.10.05 n. 20912, 26.9.05 n. 18756, 10.2.05 n. 2704, 24.12.04 n. 23976). Una volta collocato nel quadro Si può, quindi procedere all'esame dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poidue ricorsi originar, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede quali quello previamente proposto (art. 1375 cod. civR.G. n. 10084/03 ICE-SNEI c/ O.) va considerato principale e quello successivo (R.G. 10431/03 O. c/ ICE-SNEI) incidentale.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:

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Motivi della decisione. Preliminarmente1- L’appellante ha anzitutto dedotto che la sentenza oggetto di giudizio è frutto di una errata percezione – da parte del primo giudice – sia delle risultanze della prova testimoniale assunta nella prima fase della lite che degli accertamenti tecnici, i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi dell'artcompiuti dal CTU nominato nell’ambito del procedimento per ATP, parimenti da esso istante promosso in epoca precedente alla instaurazione del giudizio che ne 9 occupa. 335 c.p.c.. Ricorso principale. (OMISSIS) Con il secondo motivo denunciano §1.2- Ancora l’appellante ha evidenziato che al contratto dedotto in lite deve ritenersi applicabile la violazione disciplina dettata dal Codice del Consumo di cui al D.L.vo N. 205/2006 e falsa applicazione delle clausole generali della buona fede, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti segnatamente le norme di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione cui agli artt. 1175 128 – 135 del codice stesso, che riproducono quanto già stabilito dagli artt. 1519-bis – 1519-novies c.c.. E, siccome esso appellante ha fondato la domanda in primo grado proposta sulla non conformità del bene consegnato a quanto ci si sarebbe potuto ragionevolmente aspettare da un prodotto dello stesso tipo, alla luce di quanto accertato dal CTU nominato nell’ambito del procedimento per ATP, il primo giudice avrebbe dovuto ritenere fondata la domanda di riduzione del prezzo in quella sede proposta. Esso istante, infatti, a fondamento delle richieste oggetto di giudizio, non aveva dedotto l’inidoneità del bene all’uso cui era destinato, bensì che esso non era conforme a quanto richiesto e 1375 c.c.)pattuito e che non aveva le qualità e le prestazioni abituali per un tipo di imbarcazione del tipo prescelto sulla scorta del campione mostrato. Con il terzo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorietà della motivazione sul punto (art. 360 c.p.c., n. 5). Con il quarto motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (art. 360 c.p.c., n. 3). Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati§2- La censura è fondata, nei limiti di seguito specificati. Deve evidenziarsi che il primo giudice ha correttamente inquadrato l’azione di cui si controverte secondo il paradigma normativo di cui agli artt. 1490 e 1492 c.c.. Ed infatti, ritiene questo Collegio che alla fattispecie di che trattasi non siano applicabili le disposizioni del Codice del Consumo invocate dalla parte appellante, poiché, sebbene l’art. 128 del predetto testo normativo contenga una nozione ampia di “bene di consumo”, di tal che gli interpreti più accreditati vi fanno rientrare qualsivoglia bene mobile, anche quelli registrati in motivazionepubblici registri ed anche le imbarcazioni e gli aeromobili, vale ad escluderne l’applicabilità alla fattispecie concreta in esame la circostanza che l’acquisto di che trattasi sia avvenuto da parte di una società di leasing. Come già innanzi precisato, l’utilizzatore ha legittimazione 10 attiva rispetto a tutte le azioni esperibili dalla società di leasing che per le ragioni che seguonosuo nome e conto ha procurato l’acquisto oggetto di censura. Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo Tuttavia, il predetto utilizzatore non può cumulare alla specifica tutela prevista per il contratto di compravendita stipulato dalla società di leasing nel suo interesse anche quella tutela di cui potrebbe beneficiare laddove avesse lui stesso in prima persona proceduto all’acquisto. Altrimenti esplicitato, la parti scelta di acquistare un bene attraverso la stipula di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo contratto di locazione finanziaria ragionevolmente preclude all’utilizzatore del bene la possibilità di esperire le regole della correttezza tutele giuridiche previste a tutela del consumatore privato, che si trovi a contrattare e ad acquistare, in nome e conto proprio, da un professionista. E tali considerazioni assumono pregnanza specifica se si considera che la natura del bene oggetto dell’acquisto di cui si controverte è costituito da una imbarcazione di “43 piedi”; bene che per la rilevanza dei costi sia di acquisto che di gestione si presta ad un “consumo” oltremodo limitato ad una fascia di acquirenti particolarmente esperti del settore e, dunque, difficilmente annoverabili fra quelli che il codice del consumo di cui innanzi ha preso in considerazione per apprestare la tutela in esso disciplinata. §2.2- Ciò posto va anche detto che, in ragione di quanto esposto da A. nei suoi scritti difensivi, correttamente il primo giudice ha ritenuto che egli abbia inteso agire per l’accertamento dei vizi e per la riduzione del prezzo relativo alla imbarcazione modello “(artYYY)”, acquistata per suo conto e su sua indicazione dalla società di leasing B. s.r.l. 1175 c.cpresso la D. s.r.l.) , xxxxxx contratti in atti allegati dalle parti in lite e che l'esecuzione non fatti oggetto di contestazione quanto a contenuto ed efficacia. Il medesimo istante ha, inoltre, chiesto di essere risarcito di tutti i danni dedotti sofferti in ragione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contrattopredetti vizi e difetti, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione edgià accertati nell’ambito del procedimento per ATP da lui stesso instaurato, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio prima della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui lite che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.coccupa., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:

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Motivi della decisione. Preliminarmente, i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c.. Ricorso principale. (OMISSIS) Con il secondo motivo denunciano la primo motivo, il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione delle clausole generali della buona fededegli artt. 5 X. Xxxxxxxx, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (art. 360 100, 112 c.p.c., n. 3in quanto la sentenza poteva essere impugnata, in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c.)anche indipendentemente dalla soccombenza delle parti. Con il terzo motivo denunciano la secondo, violazione e falsa applicazione dell'artdegli artt. 2043 c.c.; contraddittorietà 100, 112, 132 c.p.c. in ragione della motivazione sul punto (artsussistenza di diritti indisponibili, per i quali l’interesse ad impugnare prescinderebbe dalla condotta processuale delle parti. 360 Con il terzo, violazione degli artt. 100, 112, 132 c.p.c., n. 5)in quanto il trasferimento immobiliare a favore del figlio delle parti, non assicurava il suo interesse alla conservazione dell’habitat domestico. Con il quarto motivo denunciano quarto, violazione degli artt. 155 quater, 1021, 1022, 2643, 2645 c.c., non essendo stata disposta la assegnazione della casa coniugale al genitore, collocatario del figlio. Con il quinto, violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione degli artt. 1173, 1174, 1321, 1325, 1987 c.c., per nullità della giurisprudenza tedesca in materia (artclausola relativa al trasferimento della abitazione al figlio, essendo l’impegno del padre giuridicamente irrilevante. 360 Con il sesto, violazione dell’art. 1478 c.c., per nullità della predetta clausola, stante la necessità di una delibera assembleare della società proprietaria, per autorizzare la vendita. La sentenza impugnata dichiara inammissibile l’appello principale, sostenendo che, ai sensi dell’art. 100 c.p.c., n. 3per far valere una domanda in giudizio e per proporre impugnazione, occorre avervi interesse, e che difetta totalmente in capo al R. tale interesse, non essendo egli risultato soccombente per alcuna delle domande proposte nel primo grado, con le conclusioni definitive da lui rassegnate. Non rinviene il giudice a quo clausole nulle nell’accordo raggiunto tra le parti, non essendovi violazione alcuna di diritti indisponibili, né contrasto con l’interesse del minore: valido il trasferimento immobiliare a suo favore della casa coniugale, con impegno del padre all’acquisto della proprietà e al predetto trasferimento, che garantirebbe al minore stesso la permanenza nell’habitat domestico. Va condivisa, seppur con alcune doverose precisazioni, l’affermazione della pronuncia impugnata, per cui non è ammessa impugnazione se la parte o entrambe le parti, a seguito di accordo, risultino soccombenti. La fattispecie in esame (conclusioni comuni nell’ambito di un procedimento di divorzio originariamente contenzioso) è assimilabile a quella inerente ad un procedimento di divorzio congiunto. È bensì vero, come afferma il ricorrente, che l’art. 5, comma 5, X. Xxxxxxxx prevede, apparentemente senza eccezione, la possibilità di impugnazione, da parte di ciascun coniuge, ma, per il divorzio congiunto, tale previsione riguarda situazioni particolari: il primo giudice non ha recepito o ha recepito solo parzialmente l’accordo tra le parti, magari precisando che erano in questione diritti indisponibili o l’accordo stesso appariva in contrasto con l’interesse del minore, ovvero non era "congrua” la corresponsione una tantum di somma, escludente, per il futuro l’assegno divorzile. In tali casi ovviamente, ciascuno dei coniugi od entrambi potrebbero impugnare la sentenza. Il Pubblico Ministero, ai sensi del art. 5, comma 5, predetto, può impugnare limitatamente agli interessi patrimoniali dei figli. Va interpretata in senso lato tale previsione, con riferimento al patrimonio del minore, al suo mantenimento, ai trasferimenti (immobiliari o mobiliari) che lo riguardano, ecc. E impugnazione potrebbe esservi, da parte di un curatore speciale del minore, in caso di conflitto di interessi con i genitori (questione estranea alla presente fattispecie, non essendovi stata, in corso di causa, istanza alcuna di nomina di un curatore). Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, nei limiti di cui in motivazioneSi diceva della affermazione condivisibile, per le ragioni cui non vi è interesse ad impugnare, senza soccombenza, ma, nella specie, vi è una ragione ulteriore per escludere l’impugnazione. Nella separazione consensuale, cosi come nel divorzio congiunto, ma pure in caso di precisazioni comuni che seguono. Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti concludano e trasformino il procedimento contenzioso di separazione e divorzio, si stipula un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza accordo, di natura sicuramente negoziale (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra tra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 346217607 del 2003), che, frequentemente, per i profili patrimoniali si configura come un vero e proprio contratto. Non rileva che, in sede di divorzio, esso sia recepito, fatto proprio dalla sentenza: all’evidenza tale sentenza è necessaria per la pronuncia sul vincolo matrimoniale, ma, quanto all’accordo, si tratta di un controllo esterno del giudice, analogo a quello di separazione consensuale. Com’è noto, nell’accordo tra le parti, in sede di separazione e di divorzio, si ravvisa un contenuto necessario (attinente all’affidamento dei figli, al regime di visita dei genitori, ai modi di contributo al mantenimento dei figli, all’assegnazione della casa coniugale, alla misura e al modo di mantenimento, ovvero alla determinazione di un assegno divorziale per il coniuge economicamente più debole) ed uno eventuale (la regolamentazione di ogni altra questione patrimoniale o personale tra i coniugi stessi). Una volta collocato nel quadro Tradizionalmente gli accordi "negoziali" in materia familiare, erano ritenuti del tutto estranei alla materia e alla logica contrattuale, affermandosi che si perseguiva un interesse della famiglia trascendente quello delle parti, e l’elemento patrimoniale, ancorché presente, era strettamente collegato e subordinato a quello personale. Oggi, escludendosi in genere che l’interesse della famiglia sia superiore e trascendente rispetto alla somma di quelli, coordinati e collegati, dei valori introdotto dalla Carta costituzionalesingoli componenti, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost.si ammette sempre più frequentemente un’ampia autonomia negoziale, e la sua rilevanza logica contrattuale, seppur con qualche cautela, là dove essa non contrasti con l’esigenza di protezione dei minori o comunque dei soggetti più deboli, si esplica nell'imporreafferma con maggior convinzione. Nei verbali di separazione consensuale o in quelli recepiti dalla sentenza di divorzio congiunto, sono assai frequenti le clausole contenenti promesse di trasferimenti, ma pure trasferimenti effettivi di proprietà o altri diritti reali su beni immobili o mobili da un coniuge all’altro. Intenti modalità, contenuti possono essere i più diversi: regolamentazione di tutti o di alcuni rapporti reciproci tra i coniugi, magari anche al fine di prevenire possibili controversie, con un sistema più o meno complesso di concessioni, compromessi, risarcimenti, riconoscimenti, ecc, attribuzioni ed assegnazioni reciproche, talora anche di portata divisoria, ma pure di adempimento dell’obbligo ex lege di mantenimento (o comunque di assistenza) a favore del coniuge economicamente più debole. Questa Corte da tempo ritiene che la clausola di trasferimento di immobile tra i coniugi, contenuta nei verbali di separazione o recepita dalla sentenza di divorzio congiunto o magari, come nella specie, sulla base di conclusioni uniformi, è valida tra le parti e nei confronti dei terzi, essendo soddisfatta l’esigenza della forma scritta (tra le prime pronunce al riguardo, Xxxx. 11 novembre 1992, n.12110 e, ancora recentemente, Cass. n. 2263 del 2014), cosi come il trasferimento o la promessa di trasferimento di immobili, mobili o somme di denaro, quale adempimento dell’obbligazione di mantenimento (o assistenziale) da parte di un coniuge nei confronti dell’altro (tra le altre, Xxxx. 17 giugno 1992 n. 7470). Ma pure questa Corte ha sostenuto la ammissibilità, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere titolo di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, contributo per il mantenimento del figlio minore, del trasferimento di un immobile a suo favore, quale contratto atipico e gratuito, che si perfeziona per effetto del mancato rifiuto (Xxxx. 21 dicembre 1987, n. 9500). Va altresì precisato che gli accordi omologati (ovvero recepiti dalla sentenza di divorzio) non esauriscono necessariamente ogni rapporto tra i coniugi) o tra genitori e figli). Si potrebbero ipotizzare (e nella prassi ciò accade frequentemente) accordi anteriori, contemporanei o magari successivi alla separazione o al divorzio, nella forma della scrittura privata o dell’atto pubblico. Al riguardo, la giurisprudenza di questa Corte è variamente intervenuta, con particolare riferimento agli accordi extragiudiziali, in occasione della separazione, attraverso una complessa evoluzione verso una più ampia autonomia negoziale dei coniugi. Dapprima si affermava che tutti i patti intercorsi tra i coniugi, in vista della separazione, anteriori, coevi o successivi, indipendentemente dal loro contenuto, dovevano essere sottoposti al controllo del giudice che, con il suo decreto di omologa, conferiva ad essi valore ed efficacia giuridica. Successivamente si cominciò ad effettuare distinzione sul contenuto necessario ed eventuale delle separazioni consensuali, sui rapporti tra i genitori e figli, riservati al controllo del giudice, atto e tra coniugi, che, almeno tendenzialmente, rimanevano nell’ambito della loro discrezionale ed autonoma determinazione, in base alla valutazione delle rispettive convenienze, fino a controllaresostenere successivamente l’autonomia negoziale dei genitori, anche nel rapporto con i figli, purché si pervenga ad un miglioramento degli assetti concordati davanti al giudice (tra le altre, Xxxx. 22 gennaio 0000 x. 000; x. 00000 del 2006). Al contrario, la giurisprudenza di questa Corte è rimasta tradizionalmente orientata a ritenere gli accordi assunti prima del matrimonio o magari in senso modificativo od integrativo, lo statuto negozialesede di separazione consensuale, in funzione di garanzia vista del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civilefuturo divorzio, sul puntonulli per illiceità della causa, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto perché in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" i principi di indisponibilità degli status e dello stesso assegno di divorzio (così ponendosi l'ordinamento italiano tra le altre Cass. N. 6857 del 1992). (Sono stati invece ritenuti validi accordi in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad vista di una norma dichiarazione di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Manullità del matrimonio, in quanto correlati ad un mutato contesto storicoprocedimento dalle forti connotazioni inquisitorie, culturale volto ad accertare l’esistenza o meno di una causa di invalidità matrimoniale, fuori da ogni potere negoziale di disposizione degli status: tra le altre Cass. N. 348 del 1993). Giurisprudenza più recente ha sostenuto che tali accordi non sarebbero di per sé contrari all’ordine pubblico: più specificamente il principio dell’indisponibilità preventiva dell’assegno di divorzio dovrebbe rinvenirsi nella tutela del coniuge economicamente più debole, e giuridicol’azione di nullità (relativa) sarebbe proponibile soltanto da questo (al riguardo, un problema Cass. n. 8109 del 2000). Questa Corte più recentemente (Cass. n.23713 del 2012; ma v. pure Cass. n. 19304 del 2013), pur escludendo che nella specie si trattasse di così pregnante rilevanza è stato oggetto accordi prematrimoniali in vista del divorzio, ha avuto modo di rimeditata attenzione da precisare che tali accordi sono molto frequenti in altri Stati, segnatamente quelli di cultura anglosassone, dove essi svolgono una proficua funzione di deflazione delle controversie familiari e divorzili, e pure ha sottolineato le critiche di parte della Corte dottrina all’orientamento tradizionale, che trascurerebbe di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio considerare adeguatamente non solo i principi del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso famiglia ma la stessa evoluzione del sistema normativo, ormai orientato a riconoscere sempre più ampi spazi di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamentoautonomia ai coniugi nel determinare i propri rapporti economici, anche al di fuori del campo societariosuccessivi alla crisi coniugale, quello di non abusare ferma ovviamente la tutela dell’interesse dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.cfigli minori., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:

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Motivi della decisione. PreliminarmenteCon il primo motivo di ricorso le ricorrenti denunciano la violazione dell’articolo 2909 c.c. in cui la corte territoriale sarebbe incorsa non tenendo conto del giudicato interno asseritamente formatosi sulla statuizione del primo giudice, i ricorsi non impugnata con l’appello incidentale degli attori, con la quale - principale ed respingendo l’eccezione di prescrizione dell’azione di annullamento del contratto proposta Euromanagement spa in l.c.a. sul presupposto che il relativo decorso era stato interrotto dalla notifica della citazione alla Previdenza spa in l.c.a. - sarebbe stato implicitamente accertato che tale decorso non era stato interrotto dalla notifica della citazione alla Euromanagement spa in bonis. Il motivo non può trovare accoglimento perché l’affermazione, contenuta nella sentenza di primo grado, che la prescrizione quinquennale ex art. 1442 c.c. era stata interrotta, nei confronti della Euromanagement spa, dalla notifica della citazione introduttiva del 1986 alla Previdenza spa in l.c.a. non determina, contrariamente a quanto dedotto nel mezzo di ricorso, la formazione di alcun giudicato implicito sul fatto che la notifica di detta citazione alla stessa Euromanagement spa fosse priva di efficacia interruttiva della prescrizione perché viziata di nullità. Il primo giudice non ha accertato esplicitamente l’invalidità (e quindi la inidoneità ad interrompere la prescrizione) dalla notifica della citazione introduttiva del 1986 alla Euromanagement spa, né tale accertamento costituisce un antecedente logico necessario dell’affermazione che la notifica della medesima citazione alla Previdenza spa in l.c.a. era idonea ad interrompere la prescrizione anche nei confronti della Euromanagement spa. La tesi dei ricorrenti, secondo cui, in mancanza di appello incidentale - vanno riuniti degli attori, si sarebbe formato un giudicato implicito sulla invalidità, e quindi sulla inidoneità ad interrompere la prescrizione, della notifica della citazione del 1986 alla Euromanagement spa va quindi disattesa, perché si pone in contrasto con il principio, costantemente affermato da questa Corte (da ultimo Cass. 5264/15), che il giudicato non si forma, nemmeno implicitamente, sugli aspetti del rapporto che non abbiano costituito oggetto di specifica disamina e valutazione da parte del giudice, cioè di un accertamento effettivo, specifico e concreto, come accade allorquando la decisione sia stata adottata alla stregua del principio della "ragione più liquida”, basandosi la soluzione della causa su una o più questioni assorbenti. Né, giova precisare, il motivo di ricorso in esame potrebbe trovare accoglimento alla stregua delle argomentazioni svolte della Euromanagement spa in l.c.a. nella memoria illustrativa depositata ai sensi dell'artdell’articolo 378 c.p.c. 335 c.p.c.. Ricorso principaleIn tale memoria si lamenta che la Corte di appello, nell’affermare che la notifica della citazione del 1986 nei confronti della Euromanagement spa era idonea ad interrompere la prescrizione dell’azione di annullamento, avrebbe omesso di verificare la validità di tale notifica, sull’erroneo presupposto che l’eventuale nullità della stessa non potesse essere da lei rilevata, perché non rilevabile di ufficio e perché comunque sanata. In proposito il Collegio rileva che dette argomentazioni non si limitano ad illustrare la censura proposta nel mezzo di ricorso in esame - la quale concerne esclusivamente la pretesa violazione dell’articolo 2909 c.c. in cui la Corte distrettuale sarebbe incorsa trascurando il giudicato interno formatosi, secondo le ricorrenti, sulla invalidità della notifica alla Euromanagement spa della citazione del 1986 - ma propongono censure (OMISSISconcernenti l’errore in cui la Corte di appello sarebbe incorsa ritenendosi di poter rilevare la nullità della suddetta notifica in difetto di tempestiva eccezione e di specifica impugnazione al riguardo da parte della Euromanagement spa in l.c.a.) ulteriori e diverse rispetto a quella dispiegata nel ricorso, non ammissibili perché avanzate dopo la scadenza del termine di impugnazione. Con il secondo motivo di ricorso le ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione delle clausole generali dell’articolo 1442 c.c. in cui la corte territoriale sarebbe incorsa affermando che la notifica della buona fedecitazione del 1986 nei confronti della Euromanagement spa era idonea ad interrompere la prescrizione dell’azione di annullamento contrattuale esercitata dagli attori senza tener conto del fatto che il giudice istruttore del tribunale di Lamezia Terme aveva accertato la nullità di tale notifica, ed come emerge dal rilievo che, appreso che la Euromanagement spa era stata posta in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti liquidazione coatta amministrativa, esso giudice non aveva dichiarato l’interruzione del giudizio, ma aveva disposto la rinnovazione della notifica della citazione a Euromanagement spa in l.c.a.. Anche questo motivo va disatteso. Il fatto che il giudice istruttore del tribunale, acquisita contezza dell’intervenuta apertura della liquidazione coatta amministrativa della Euromanagement spa, abbia ordinato il rinnovo della citazione al commissario liquidatore, invece di autonomia privata e dichiarare l’interruzione del giudizio, non costituisce di per sé accertamento della conseguente non applicabilità declaratoria di nullità della figura dell'abuso notifica della citazione 1986 alla società in bonis, giacché l’ordine di rinnovo della citazione al commissario liquidatore della società è un provvedimento privo del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c.)carattere della decisorietà. Con il terzo motivo denunciano la le ricorrenti propongono tre distinte censure - una riferita alla violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorietà della motivazione sul punto (art. 360 c.p.c., n. 5). Con il quarto motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (art. 360 c.p.c., n. 3). Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, nei limiti di cui in motivazione, per le ragioni che seguono. Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 dell’articolo 2700 c.c., una riferita alla violazione dell’articolo 2722 c.c. e una riferita alla violazione degli articoli 2727 e 2729 c.c. - in cui la cui funzione è integrativa del contratto socialeCorte territoriale sarebbe incorsa rigettando l’unico motivo d’appello dalla stessa riconosciuto ammissibile, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di vale a dire quello con cui le parti sono portatriciappellanti avevano censurato la sentenza di primo grado per avere ritenuto non pagato il corrispettivo della vendita, nonostante che nel contratto i venditori avessero rilasciato quietanza del prezzo. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logiciLe ricorrenti assumono:

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Samples: Contratto E Inadempimento

Motivi della decisione. PreliminarmenteCon i tre motivi di ricorso il B. impugna la sentenza rilevando che: l’accettazione incondizionata delle chiavi dell’immobile da parte del locatore, i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi dell'artsuccessivamente dichiarato fallito, integrava adempimento dell’obbligazione di rilascio dell’immobile, sicché accertato che detta consegna era avvenuta in data (omissis), il Tribunale non avrebbe dovuto dichiarare cessata la materia del contendere in ordine alla domanda di rilascio dell’immobile proposta dal curatore fallimentare, ma l’avrebbe dovuta rigettare, e conseguentemente la Corte territoriale è incorsa in errore dichiarando il relativo motivo di gravame inammissibile per difetto di interesse ex art. 335 100 c.p.c.. Ricorso principale. (OMISSISprimo motivo: violazione art. 100 c.p.c. in relazione all’art. 360 co1 nn. 3 e 4 c.p.c.); - errata doveva ritenersi la statuizione della Corte d’appello confermativa della decisione di prime cure secondo cui erano dovuti, oltre i canoni relativi al semestre in corso (sostitutivi del preavviso) Con il anche gli ulteriori canoni "fino alla data del rilascio", atteso che l’obbligazione di restituzione dell’immobile era stata già adempiuta con la consegna delle chiavi in data (omissis), non ostando all’effetto liberatorio la presenza nell’immobile di beni appartenenti al conduttore che poteva dar luogo al più a pretese risarcitorie (secondo motivo denunciano motivo: violazione artt. 1590 e 1591 c.c. in relazione all’art. 360 co1 n. 3 c.p.c.); - del pari errata era la statuizione del Giudice territoriale laddove riconosceva dovuti i canoni corrispondenti al periodo semestrale di preavviso, in quanto alla ricezione senza riserve delle chiavi da parte del locatore doveva attribuirsi significato di accettazione tacita alla risoluzione anticipata del contratto senza ulteriori pretese di natura patrimoniale (terzo motivo: violazione e falsa applicazione delle clausole generali della buona fedeart. 4 legge n. 392/1978, ed art. 1372 c.c. in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso relazione all’art. 360 co 1 n. 3 c.p.c.; omessa od insufficiente motivazione in ordine ad nutum (un fatto decisivo controverso ex art. 360 co 1 n. 5 c.p.c.); Il primo ed il secondo motivo, n. che possono essere esaminati congiuntamente attesa la stretta connessione logica, sono infondati. La apparente incongruenza evidenziata dal dispositivo della sentenza di prime cure (riportato integralmente nello "svolgimento del processo" della sentenza della Corte d’appello di Reggio Calabria impugnata per cassazione) tra il capo 2) che dichiara cessata la materia del contendere sulla domanda di rilascio dell’immobile, ed il capo 3) che condanna il conduttore al pagamento anche "dei canoni a scadere fino alla data di rilascio" dell’immobile, è stata ritenuta conforme a diritto dalla Corte territoriale, in quanto fondata sulla distinzione tra consegna materiale delle chiavi dell’immobile locato ad uso diverso dalla abitazione ed esatto adempimento della obbligazione di rilascio dell’immobile derivante dal contratto di locazione e gravante sul conduttore ai sensi dell’art. 1590 c.c.. La Corte d’appello ha, infatti, ravvisato il perdurante inadempimento del B. a tale obbligazione, non essendo stato posto il locatore nella piena ed incondizionata disponibilità del bene, in quanto occupato da beni di pertinenza del conduttore che ne impedivano il libero godimento. In relazione a tale accertamento in fatto si palesa inammissibile il primo motivo che, reiterando la medesima censura - svolta con il motivo di gravame - di contraddittorietà delle statuizioni del dispositivo della decisione di prime cure, sul presupposto dell’accertato esatto adempimento della obbligazione di rilascio, omette di cogliere la diversa "ratio decidendi" della sentenza di appello, fondata al contrario proprio sull’accertamento dell’inadempimento di tale obbligazione. Per la stessa ragione va ritenuto infondato anche il secondo motivo. Per giurisprudenza consolidata, la consegna al locatore da parte del conduttore delle chiavi dell’immobile locato, costituisce condotta idonea (produttiva di effetti impeditivi anche della "mora solvendi" ex art. 1220 c.c.: cfr. Corte cass. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 1337 del 20/01/2011) a consentire la reimmissione del primo nel possesso del bene, e dunque condotta apprezzabile come adempimento satisfattivo della obbligazione "ex contractu" avente ad oggetto la restituzione del bene posta a carico del conduttore ex art. 1590 c.c. (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 5270 del 05/06/1996; id. Sez. 3, Sentenza n. 5841 del 24/03/2004 che equipara la consegna delle chiavi alla incondizionata messa a disposizione del bene; id. Sez. 3, Sentenza n. 550 del 17/01/2012). Tale il principio di diritto affermato da questa Corte, altra questione -che attiene esclusivamente al piano della valutazione del merito delle risultanze istruttorie- è quella dell’accertamento in relazione agli arttconcreto se, con la consegna o messa a disposizione delle chiavi dell’immobile, possa effettivamente ritenersi immesso il locatore nella piena disponibilità e godimento dell’immobile. 1175 Ed infatti l’obbligazione di restituzione dell’immobile locato, posta a carico del conduttore dall’art. 1590 cod.civ., non si esaurisce in una qualsiasi generica messa a disposizione delle chiavi, ma richiede, per il suo esatto adempimento, un’attività consistente in una "incondizionata" restituzione del bene, vale a dire in un’effettiva immissione dell’immobile nella sfera di concreta disponibilità del locatore (cfr. Corte cass. Sez. 3 n. 5841 del 24 marzo 2004; id. Sez. 3 n. 5270 del 5 giugno 1996; id. Sez. 3, Sentenza n. 8616 del 12/04/2006). Orbene l’affermazione della Corte territoriale secondo cui "la presenza dei beni all’interno dell’immobile non consente al locatore di disporre liberamente del bene" (sentenza in motivazione, pag. 6) costituisce un accertamento in fatto della mancata prova della completa ed incondizionata reimmissione del curatore fallimentare nella piena facoltà di godimento dell’immobile: ed infatti, allegato l’inadempimento alla predetta obbligazione di rilascio dal curatore fallimentare, in quanto ritenuta non idonea la mera consegna delle chiavi, spettava al conduttore fornire la prova contraria dell’esatto adempimento della obbligazione di rilascio e 1375 cioè la prova che i beni rimasti nei locali non impedivano in ogni caso la facoltà di godimento e sfruttamento dell’immobile da parte del locatore. Inconferenti sono i richiami del ricorrente ad alcuni precedenti giurisprudenziali di questa Corte al fine di sottrarre la occupazione dell’immobile con i beni del conduttore, che darebbe luogo soltanto ad eventuali pretese risarcitorie, dall’adempimento della obbligazione di rilascio ex art. 1590 c.c.. Ed infatti in quei precedenti la restituzione del bene immobile ingombro dei beni del conduttore non è stata affatto oggetto di sindacato da parte della Corte, che si è limitata a prendere atto dell’accertamento in fatto compiuto dal Giudice di merito in ordine alla irrilevanza che, nello specifico caso concreto, veniva ad assumere la presenza nell’immobile dei beni appartenenti al conduttore sull’effettivo esercizio della facoltà di godimento del bene da parte del locatore, non essendo ostativo in quel caso lo stato di fatto dell’immobile a ritenere esattamente adempiuta la obbligazione di rilascio con la consegna della chiavi al locatore (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 5841 del 24/03/2004: " ha considerato la corte d’appello che i pochi mobili lasciati dal conduttore nell’appartamento, dopo aver riconsegnato le chiavi senza riserva alcuna, dovevano ritenersi, in considerazione del loro sostanziale abbandono, materiale privo di apprezzabile utilità per il conduttore, che nulla poteva pretendere quindi per la loro dispersione. Si tratta di accertamento di fatto che, in quanto sorretto da congrua motivazione, è in questa sede incensurabile "; id. Sez. 3, Sentenza n. 550 del 17/01/2012 secondo cui: "con motivazione che sfugge a qualsiasi censura di violazione di norma di legge e di vizio della motivazione, i giudici di appello hanno ritenuto che la riconsegna delle chiavi nelle mani dei legali delle società doveva essere interpretata come volontà dei sottoscrittori di accettare la consegna dell’immobile nello stato di fatto nel quale lo stesso si trovava"). Xxxxx indicati precedenti, pertanto, non emerge affatto il principio di diritto che vorrebbe affermare il ricorrente secondo cui la riconsegna dell’immobile ingombro di beni, arredi e suppellettili integra esatto adempimento della obbligazione ex art. 1590 c.c.), dovendo essere valutato, caso per caso, se lo stato dell’immobile, del quale sono state restituite le chiavi, consenta effettivamente al locatore di disporne liberamente e pienamente. Con Nella specie tale valutazione in concreto è esitata in un giudizio negativo da parte della Corte d’appello che avrebbe dovuto essere contestato dal conduttore attraverso il terzo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorietà della vizio di omessa motivazione sul punto (ex art. 360 co1 n. 5 c.p.c.. e non invece in relazione al dedotto ed infondato "errore di diritto", n. 5). Con essendo appena il quarto caso di aggiungere che le notazioni svolte dal ricorrente nella parte conclusiva del motivo denunciano concernenti l’allegato ingiustificato rifiuto del curatore fallimentare di consentire l’accesso nei locali al conduttore per effettuare lo sgombero, da un lato, non corrispondono al vizio denunciato in rubrica, e dall’altro introducono una "quaestio facti" che non risulta sia stata oggetto di discussione nei gradi di merito e che non può pertanto trovare accesso per la violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (art. 360 c.p.c., n. 3)prima volta nel giudizio di legittimità. Il secondo, terzo motivo è inammissibile. Il ricorrente censura la sentenza di appello per "error juris" (violazione dell’art. 4 della legge equo canone e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamentedell’art. Essi sono fondati, nei limiti di cui in motivazione, per le ragioni che seguono. Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 1372 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire per vizio di omessa ed insufficiente motivazione, criticando la valutazione compiuta dal Giudice di secondo buona fede (artgrado in relazione alla negazione della conclusione tra le parti del rapporto locativo di un accordo volto a risolvere anticipatamente il vincolo contrattuale. 1375 c.c.). In tema Orbene l’accertamento della volontà negoziale delle parti, attraverso la rilevazione ed interpretazione del contenuto di contratti, il principio della buona fede oggettivaatti unilaterali ed in genere documenti, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione così come attraverso la valutazione del contegno delle parti ante e post conclusione del contratto, così come pertengono al piano dell’accertamento di fatto riservato al Giudice di merito e condotto alla sua formazione ed stregua delle risultanze probatorie, e può essere oggetto del sindacato di legittimità solo nel caso in cui la censura venga veicolata attraverso la deduzione del vizio logico di motivazione (in ordine alla sua interpretazione edinesatta rilevazione del testo delle disposizioni negoziali, ovvero dei fatti rappresentati dai documenti prodotti in definitivagiudizio), accompagnarlo in ogni sua fase ovvero attraverso la contestazione della errata applicazione dei criteri ermeneutici legali degli atti negoziali (Casscfr. 5.3.2009 Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 53486641 del 02/05/2012; Cassid. Sez. 11.6.2008 1, Sentenza n. 1547614775 del 04/09/2012; id. Sez. 3, Sentenza n. 2465 del 10102/2015; id. Sez. 3, Sentenza n. 14355 del 14/07/2016). Ne consegue che Nella specie il Giudice di appello ha ritenuto insufficiente la clausola generale mera ricezione delle chiavi da parte del locatore (avvenuta nelle more tra la pronuncia ed il deposito della sentenza dichiarativa di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto fallimento dello stesso) per pervenire all’accertamento di interessi sottostanti all'esecuzione una condotta significante idonea a produrre l’effetto negoziale dell’accettazione tacita perfezionativa di un accordo risolutorio del contratto (artdi locazione, con rinuncia ai canoni dovuti per il semestre in corso. 1375 cod. civ.). I principii La censura nulla prospetta in ordine alla violazione dei canoni interpretativi della condotta negoziale, rivolgendo erroneamente la critica alla violazione delle norme di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituiscediritto la cui applicazione costituisce un "posterius" rispetto al risultato della interpretazione: non viene, infatti, un autonomo dovere giuridicoin questione nella pronuncia del Giudice di appello se il conduttore possa o meno recedere anticipatamente dal contratto, espressione né tanto meno se le parti siano o meno libere di sciogliere consensualmente il vincolo contrattuale, quanto piuttosto l’accertamento in fatto, presupposto, della inesistenza in quanto non rilevabile dagli elementi probatori esaminati - di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, accordo volto ad estinguere anticipatamente il principio deve essere inteso come una specificazione degli rapporto locativo "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessisenza ulteriori pretese". La Relazione ministeriale al codice civilecritica della interpretazione della condotta tenuta dalle parti rendeva necessario non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione, sul puntomediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti, così si esprimeva: ma, altresì, precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera cfr. Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 10554 del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.30/04/2010), non può escludersi essendo sufficiente la mera prospettazione di un possibile significato alternativo, della condotta delle parti, diverso da quello accolto dalla Corte territoriale, in quanto inidoneo ad inficiare la correttezza della applicazione dei criteri ermeneutici utilizzati dal Giudice di merito (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 10131 del 02/05/2006; id. Sez. 2, Sentenza n. 3644 del 16/02/2007; id. Sez. 1, Sentenza n. 4178 del 22/02/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 15604 del 12/07/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 24539 del 20/11/2009; id. Sez. 2, Sentenza n. 19044 del 03/09/2010; id. Sez. 3, Sentenza n. 16254 del 25/09/2012; id. Sez. 1, Sentenza n. 6125 del 17/03/2014). Ad analoga pronuncia di inammissibilità deve pervenirsi anche in relazione al denunciato vizio logico di motivazione. Il ricorrente ritiene di pervenire ad una diversa valutazione della medesima condotta tenuta dal M. ed esaminata dalla Corte di appello (che, dunque, non è incorsa in vizio omissivo per mancata considerazione di uno specifico fatto, provato in giudizio ed avente carattere dirimente, che non viene -infatti- indicato dal ricorrente), senza evidenziare tuttavia quale sia la lacuna nello svolgimento logico dell’argomentazione posta a supporta del "decisum" e tale da inficiare insanabilmente l’apparato motivazionale della sentenza impugnata, non risultando illogica l’affermazione della Corte territoriale secondo cui il recesso mero silenzio serbato dal locatore al momento della ricezione delle chiavi -fatto ex se inidoneo nel caso concreto ad integrare adempimento della obbligazione di una banca dal rapporto di apertura di creditorilascio- non assume, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causaaltri elementi circostanziali convergenti, sia da considerarsi illegittimo ove inequivoco significato di volontà negoziale abdicativa del diritto alla percezione dei canoni relativi al semestre in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). Ecorso, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare risultando inidoneo allo scopo il far valere la compensazione tra i saldi attivi e passivi non rispondenza della ricostruzione dei diversi conti intrattenuti fatti operata dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito alla opinione che di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con essi abbia la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicatiparte e, in particolare, con riferimento il prospettare un soggettivo preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità della valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al contratto libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’iter formativo di mediazione (Casstale convincimento. 5.3.2009 n. 5348), al contratto Diversamente il motivo di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ricorso per cassazione ex art. 2744 c.c., (Cass360 n. 5 c.p.c. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481)si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate, ed al contratto autonomo in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice di garanzia ed exceptio doli merito (Casscfr. 1.10.1999 n. 10864; Corte cass. 28.7.2004 sez. lav. 23.5.2007 n. 1423912052; Cassid. I sez. 7.3.2007 n. 52735274; id. III sez. 5.3.2007 n. 5066; id. sez. lav. 23.12.2009 n. 27162). Del principio dell'abuso In conclusione il ricorso deve essere rigettato, non occorrendo pronunciare sulle spese di lite non avendo svolto difese la parte intimata. rigetta il ricorso. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del diritto è statoDpr 30 maggio 2002 n. 115, inserito dall’art. 1 comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:parte del

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Motivi della decisione. Preliminarmente, i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi dell'art1. 335 c.p.c.. Ricorso principale. (OMISSIS) Con il secondo primo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle clausole generali della buona fededi ricorso, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 1175 1965, 1236, 1301 e 1375 1304 c.c.), nonchè art. Con 1362 c.c., comma 1 e art. 1363 c.c.. Erroneamente la Corte di appello, contraddicendo il terzo motivo denunciano Tribunale, aveva ritenuto che il negozio del 16/12/2004 integrasse in sostanza una transazione, con la violazione e falsa applicazione conseguente applicabilità dell'art. 2043 1304 c.c. e la mancanza di effetti per i condebitori solidali. La natura transattiva (sia pur conservativa e non novativa) del negozio era stata ravvisata in ragione della riduzione quantitativa della pretesa di Xxxx e delle reciproche rinunce e, in particolare, della rinuncia di Xxxx ad agire nei confronti degli altri soci; tuttavia l'accordo in questione non conteneva affatto reciproche rinunce e concessioni perchè i sacrifici erano stati imposti solo a carico di Xxxx e non a carico dell' A., nè la sentenza impugnata indicava quali essi fossero; al momento inoltre la sentenza n. 2316/2002 era già passata in giudicato. L'accordo del 16/12/2004 aveva invece provocato un effetto analogo al contratto a favore di terzo con la parziale rinuncia al credito e la liberazione di tutti i condebitori, che ne hanno beneficiato automaticamente ex art. 1411 c.c.; contraddittorietà , non constando il loro rifiuto di volerne profittare. La sentenza impugnata aveva confuso il rifiuto del beneficio della motivazione sul punto liberatoria dal debito verso Xxxx da parte dei R. (art. 360 c.p.c., n. 5). Con il quarto motivo denunciano mai espresso) con la violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (art. 360 c.p.c., n. 3). Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, nei limiti di cui in motivazione, per le ragioni che seguono. Costituiscono principii generali negazione del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui di regresso nei loro confronti da parte del ricorrente. I R. non avevano mai negato la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole sussistenza della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione edsolidarietà passiva fra gli ex soci dell'Associazione, in definitivaforza dell'art. 7 dello Statuto ed erano quindi tenuti nei confronti dell'attore in regresso, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che perchè la clausola generale di buona fede e correttezza è operantesentenza era stata pronunciata nei suoi confronti proprio quale ex socio dello Studio, tanto sul piano dei comportamenti mentre l'accordo del debitore e 16/12/2004 aveva integrato una remissione parziale del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocitàdebito. In sintesi, disporre la sentenza doveva essere cassata perchè sulla base di un potere non è condizione sufficiente una erronea interpretazione dell'accordo del 16/12/2004 ne aveva disconosciuto la natura di un suo legittimo esercizio semero accordo remissorio, nella situazione data, aveva erroneamente escluso la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionatoproduzione degli effetti dell'art. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 1301 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per ese aveva illegittimamente applicato l'art. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 1304 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:..

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Motivi della decisione. PreliminarmenteL’attrice P.M.C. S.r.l. in liquidazione ha proposto una domanda di accertamento della parziale nullità di un contratto di conto corrente con apertura di credito e di restituzione delle competenze illegittimamente addebitate dalla Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.A. nonché di risarcimento del danno. In relazione a tale domanda, i ricorsi - principale la Banca convenuta ha sollevato un’eccezione preliminare di nullità per genericità ed incidentale - vanno riuniti indeterminatezza; e l’eccezione in questione deve essere qualificata come eccezione di nullità dell’atto di citazione per difetto della causa petendi e del petitum ai sensi dell'artdell’art. 335 163 comma 3° nn. 3 e 4 c.p.c. in combinato disposto con l’art. 164 comma 4° c.p.c.. Ricorso principaleTuttavia, come evidenziato in giurisprudenza, la nullità dell’atto di citazione per petitum omesso od assolutamente incerto, ai sensi dell’art. (OMISSIS) Con il secondo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle clausole generali della buona fede, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (art. 360 164 comma 4° c.p.c., n. 3postula una valutazione caso per caso, dovendosi tener conto, a tal fine, del contenuto complessivo dell’atto di citazione, dei documenti ad esso allegati, nonché, in relazione agli arttallo scopo del requisito di consentire alla controparte di apprestare adeguate e puntuali difese, della natura dell’oggetto e delle relazioni in cui, con esso, si trovi la controparte (cfr. 1175 e 1375 c.c.Cassazione civile, sez. II, 29 gennaio 2015, n. 1681); ed analogamente deve dirsi con riferimento alla nullità della citazione relativamente alla causa petendi, per mancanza dell’esposizione dei fatti costituenti le ragioni della domanda (cfr. Cassazione civile, sez. III, 15 maggio 2013, n. 11751). Con Nel caso di specie, invece, l’attrice, nel corpo dell’atto di citazione, ha chiaramente specificato la causa petendi, cioè i fatti posti a fondamento della domanda, ovvero le varie nullità lamentate, sia il terzo motivo denunciano petitum, ossia la violazione e falsa applicazione dell'artpropria richiesta, costituita dalla rideterminazione del saldo dare-avere tra le parti in conseguenza del ricalcolo effettuato escludendo dal computo le somme illegittimamente addebitate per effetto delle suddette nullità. 2043 c.c.; contraddittorietà della motivazione sul punto (artDunque, la domanda non risulta affetta da alcuna nullità. 360 c.p.c.Tale domanda è procedibile, ai sensi dell’art. 5 comma 1-bis D.Lgs. 4 marzo 2010 Firmato Da: XXXXX XXXXXXX Emesso Da: ARUBAPEC S.P.A. NG CA 3 Serial#: f7a35b2dd096cf1808fb9acd5188fb4 n. 5). Con il quarto motivo denunciano 28, in quanto, seppure in corso di causa, in data 18.1.2018, la violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (art. 360 c.p.c.società attrice ha avanzato richiesta di espletamento del tentativo obbligatorio di mediazione, n. 3). Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi è poi tenuto il 15.2.2018, seppure con esito negativo. Nel merito, ma sempre preliminarmente, la Banca ha anche eccepito la mancanza di prova delle doglianze sollevate dall’attrice, fondata sul fatto che l’attrice medesima non aveva prodotto i documenti contrattuali, in ordine alle questioni prospettateviolazione dell’onere della prova su di essa gravante. A tal proposito, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, nei limiti è noto che nella domanda di ripetizione di indebito oggettivo di cui in motivazioneall’art. 2033 c.c. l’onere della prova grava sul creditore istante, per le ragioni il quale è tenuto a provare i fatti costitutivi della sua pretesa, e perciò, sia l’avvenuto pagamento sia la mancanza di una causa che seguono. Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti lo giustifichi (ovvero il venir meno di questa), prova che può essere fornita dimostrando l’esistenza di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza fatto negativo contrario, o anche mediante presunzioni (artcfr. 1175 c.c.Cassazione civile, sez. lavoro, 13 novembre 2003 n. 17146; in senso sostanzialmente conforme, cfr. altresì Cassazione civile, sez. III, 17 marzo 2006 n. 5896) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve naturalmente essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, fornita solo con riferimento ai rapporti specifici intercorsi tra le parti e dedotti in giudizio, costituendo una prova diabolica esigere dall’attore la dimostrazione dell’inesistenza di conto correnteogni e qualsivoglia causa di dazione tra solvens e accipiens (cfr. Cassazione civile, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contrattosez. Con la conseguenza, in caso contrarioIII, del riconoscimento a carico della banca25 gennaio 2011 n. 1734), incombendo poi sull’accipiens la dimostrazione di una responsabilità per risarcimento dei danni altra eventuale fonte di debito (Casscfr. 28.9.2005 Cassazione civile, sez. I, 28 luglio 1997 n. 189477027). In materia contrattualequesto senso, poisecondo la prevalente giurisprudenza, gli stessi principii sono stati applicatiil correntista che domanda la ripetizione di somme indebitamente versate alla Banca deve allegare e provare i fatti costitutivi della propria pretesa creditoria, in particolareovvero l’esecuzione della prestazione e l’inesistenza (originaria o sopravvenuta) del titolo della stessa ed ha, con riferimento al pertanto, l’obbligo di produrre il contratto di mediazione conto corrente e gli estratti conto relativi a tutto il periodo contrattuale. Firmato Da: XXXXX XXXXXXX Emesso Da: ARUBAPEC S.P.A. NG CA 3 Serial#: f7a35b2dd096cf1808fb9acd5188fb4 Nel caso di specie, peraltro, la società attrice ha prodotto gli estratti conto (Cassdocc. 5.3.2009 n. 5348)2- 10 fasc.att.) relativi a tutto il periodo in esame nonché, al contratto seppure non unitamente all’atto di sale and lease back connesso al divieto citazione ma con separato deposito nell’imminenza dell’udienza di patto commissorio prima comparizione e trattazione ex art. 2744 c.c183 c.p.c., il contratto di conto corrente (Cassdoc. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 84811 fasc.att.), ed al mentre la Banca convenuta ha prodotto il contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli apertura di credito (Cassdoc. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 52732 fasc.conv.). Del A fronte di ciò, si deve considerare che il principio dell'abuso dell’onere della prova non implica affatto che la dimostrazione di fatti costitutivi del diritto preteso debba ricavarsi esclusivamente dalle prove offerte da colui che è statogravato del relativo onere, da ultimogiacché nel nostro ordinamento vige il principio di acquisizione, fatto frequente uso in materia tributariasecondo cui, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo le risultanze istruttorie, comunque ottenute, e quale che sia la parte ad iniziativa o ad istanza della quale siano formate, concorrono tutte, indistintamente, alla formazione del convincimento del giudice (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nncfr. 30055Cassazione civile, 30056sez. III, 3005726 febbraio 2013, n. 4806; analogamente, cfr. Cassazione civile, sez. II, 4 giugno 2018, n. 14284). Il breve excursus esemplificativo consenteCiò detto e passando al merito della controversia, quindi, di ritenere ormai acclarato è pacifico che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:l’attrice P.M.C.

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Motivi della decisione. Preliminarmente1. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente lamenta, i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c.. Ricorso principale. (OMISSIS) Con il secondo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle clausole generali della buona fede, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (art. 360 c.p.c., n. 31, il difetto di giurisdizione del giudice ordinario poichè la controversia è sottoposta alla giurisdizione del giudice amministrativo, vertendo in relazione agli arttmateria di interessi legittimi. 1175 Assume la ricorrente che la posizione della B. era di interesse legittimo e 1375 c.c.)non di diritto soggettivo, perchè la deliberazione di aggiudicazione definitiva del compendio immobiliare,venduto all'asta pubblica, contrariamente a quanto sostenuto dalla sentenza impugnata non equivaleva a contratto di compravendita. Con il terzo motivo denunciano Tale tesi è sviluppata attraverso i seguenti punti: a) la violazione e falsa detta Delib. n. 1320 del 2000, non ha prodotto gli effetti della vendita, perchè alla fattispecie trova applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorietà della motivazione sul punto (la L.R. Xxxxxx Xxxxxxx n. 22 del 1980, art. 360 c.p.c.74 e non il R.D. n. 2440 del 1923, n. 5). Con il quarto motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (art. 360 c.p.c.16; b) dalla Delib. n. 1320 del 2000 risulta in modo inequivoco la volontà dell'azienda ospedaliera di rinviare la costituzione del vincolo contrattuale alla stipulazione dell'atto definitivo di compravendita da effettuarsi nel termine di g. 90; c) il difetto di giurisdizione discende anche dall'intervenuto successivo annullamento della citata deliberazione con atto di revoca n. 410 del 15.3.2001, n. 3)per sopravvenuti motivi di interesse pubblico, costituiti dall'aumento di valore del terreno, a seguito del mutamento di destinazione d'uso. Il secondomotivo si conclude con il seguente quesito: "Dica la S.C. se in presenza della L.R. Xxxxxx Xxxxxxx n. 22 del 1980, terzo e quarto motivo, investendo profili art. 74; di avviso d'asta n. 516 del 20.4.2000 che prevede che alla stipulazione dell'atto notarile di compravendita si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, nei limiti provvederà entro il termine di cui in motivazione, giorni 90 dall'aggiudicazione; di verbale di aggiudicazione con il quale l'Azienda incarica al fine di completare l'iter procedurale per le ragioni la stipulazione dell'atto notarile entro il termine di giorni 90 dall'aggiudicazione; di revoca dell'aggiudicazione da parte dell'azienda; debba ritenersi egualmente che seguono. Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti l'aggiudicazione di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (terreno a seguito di asta pubblica equivalga per ogni effetto legale al contratto in base al R.D. n. 2440 del 1923, art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale16, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (controversia ex art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 2932 c.c., la cui funzione è integrativa promossa dall'aggiudicataria sig.ra B.E. nei confronti dell'Azienda ospedaliera di Parma spetti alla giurisdizione del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo giudice ordinario"disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:

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Motivi della decisione. PreliminarmenteGiova innanzitutto dare atto che, i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti nel precisare le proprie conclusioni, il convenuto non ha reiterato l'eccezione di incompetenza territoriale inizialmente sollevata in comparsa di costituzione e risposta, sicchè la relativa questione pregiudiziale deve ritenersi abbandonata. Ad ogni modo, anche a voler prescindere da tale rinuncia, deve rilevarsi come detta eccezione avrebbe dovuto, comunque, essere dichiarata inammissibilein ragione della tardività della costituzione del convenuto eccipiente. A identica conclusione, e per gli stessi motivi, si deve poi pervenire, in concreto, in ordine alla domanda riconvenzionale proposta e reiterata dal X. Questi, infatti, si è costituito in giudizio depositando comparsa di risposta in data 20/06/2013, ovverosia diciotto giorni prima dell'udienza indicata in citazione dall'attrice (09/07/2013), senza, quindi, rispettare il termine di giorni venti previsto dall'art. 166 c.p.c., con conseguente decadenza dalla facoltà sia di sollevare eccezioni, processuali e di merito, non rilevabili d'ufficio, tra cui quelle di incompetenza territoriale ex art. 38 c.p.c., sia di formulare domande riconvenzionali ex art. 167 c.p.c. Infatti, il predetto termine decadenziale stabilito dagli artt. 166 e 167 c.p.c., nel caso di differimento dell'udienza di comparizione ai sensi dell'art. 335 c.p.c.. Ricorso principale. (OMISSIS) Con il secondo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle clausole generali della buona fede168 bis, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (art. 360 quarto comma, c.p.c., n. 3deve essere comunque computato a decorrere dalla data originariamente indicata dall'attrice in citazione (9/7/13) e non, in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c.). Con invece, da quella (11/7/13) a cui il terzo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorietà della motivazione sul punto (processo è stato "automaticamente" posticipato a norma del citato art. 360 168 bis c. IV c.p.c. Come espressamente previsto dall'art. 166 c.p.c., n. 5)solo nel caso di differimento disposto dal Giudice a norma dell'art. Con il quarto motivo denunciano 168 bis, quinto comma, la violazione tempestività del deposito della comparsa di costituzione avrebbe dovuto essere valutata in relazione alla nuova data di udienza, anziché rispetto a quella originariamente fissata dall'attore in citazione. Alla luce delle argomentazioni che precedono, rilevata la mancata reiterazione dell'eccezione di incompetenza territoriale,deve essere, dunque, dichiarata l'inammissibilità della domanda riconvenzionale formulata e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione reiterata dal X, di accertamento del proprio diritto d'autore sul programma "NAVCRM. Tanto premesso e passando, quindi, al merito della giurisprudenza tedesca presente controversia, occorre, in primo luogo,esaminare la disciplina prevista in materia (di proprietà intellettuale, con particolare riferimento all'attività di creazione e sviluppo di software. Orbene, premessa la pacifica tutelabilità, attraverso il diritto d'autore, dei programmi per elaboratori, in quanto equiparati dagli stessi artt. 1 e 2 L. n. 633 del 1941 alle opere letterarie, nel caso di specie, vanno individuati e modulati i termini di applicabilità di tale tutela nell'ipotesi in cui la realizzazione del software sia stata commissionata ad un lavoratore autonomo. Infatti, con riferimento all'ipotesi sopra indicata, deve evidenziarsi come l'ordinamento giuridico vigente non preveda alcuna specifica disciplina. Nella legge sul diritto d'autore, gli art. 360 c.p.c.64 bis e seguenti, introdotti dal D.Lgs. n. 3). Il secondo513 del 1992, terzo e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, nei limiti di cui in motivazione, per le ragioni che seguono. Costituiscono principii generali enucleano il contenuto del diritto delle obbligazioni quelli secondo di utilizzazione economica del software, mentre l'art. 12 bis regola l'ipotesi in cui la parti di il programma sia stato sviluppato e realizzato da un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e dipendente, statuendo che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di contratti"salvo patto contrario, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà datore di condotta, deve presiedere all'esecuzione lavoro è titolare del contratto, così come diritto esclusivo di utilizzazione economica del programma per elaboratore o delle banche dati creati dal lavoratore dipendente nell'esecuzione delle sue mansioni o istruzioni impartite dallo stesso datore di lavoro". Tale vuoto normativo non può neppure essere colmato attraverso il riferimento alla sua formazione ed alla sua interpretazione edparallela disciplina in materia di proprietà industriale, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllarequanto, anche in senso modificativo od integrativoquesto caso, lo statuto negozialel'art. 64 c.p.i. disciplina la sola ipotesi dell'invenzione realizzata dal lavoratore subordinato. Tutto ciò considerato, appare opportuno richiamare l'orientamento delineato in funzione materia dalla giurisprudenza di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civilemerito maggioritaria, da ultimo ribadito dal Tribunale di Milano, con la sentenza n. 6964/2014 (vedi, sul punto, così anche Trib. Milano 30 giugno 2013). E invero, anche nell'ipotesi in cui il software sia stato commissionato da una società ad un libero professionista, si esprimeva: dovranno dunque richiamare ed applicare, in via analogica, le disposizioni previste per i lavoratori subordinati agli art. 12 bis l.d.a. e 64 c.p.i. Ne consegue che, salvo il diritto dello sviluppatore materiale ad essere riconosciuto quale autore morale del software, l'opera commissionata deve essere acquistata a titolo originario dal committente, che diventa, in via esclusiva, titolare del relativo diritto di sfruttamento economico patrimoniale. Come anticipato, però, tale regola generale può trovare applicazione solo nel caso in cui non vi siano patti contrari, che prevedano una diversa regolamentazione della materia. Nel caso di specie, come emerge dalle allegazioni delle parti, nonché dalla corrispondenza intercorsa ante causam tra le stesse (v. doc. n. 14 di parte attice), l'attrice A. s.r.l. ed il principio di correttezza convenuto ingegner X, in deroga ai principi come sopra elaborati dalla giurisprudenza e buona fede) dalla dottrina, avevano stipulato un accordo in forza del quale, con riguardo alla ripartizione del fatturato derivante dalle licenze del "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditoreNavcrm", operandola società A. s.r.l. avrebbe trattenuto il relativo 60% e, conseguentemente, avrebbe versato il restante 40% all'odierno convenuto. In particolare, deve rilevarsi come la differenza del 10% a favore dell'attrice trovasse pattizia giustificazione in una "paternità" riconosciuta esplicitamente dal X a favore dell'altro contraente per avere quest'ultimo, come meglio si dirà in seguito, elaborato, per il tramite del suo legale rappresentante X., l'idea inventiva ed "essersi accollato tutto lo sviluppo del software". A quest'ultimo riguardo, occorre, però, svolgere alcune precisazioni in ordine all'origine e alla titolarità dei rapporti dedotti in causa. Infatti, come si evince dalle allegazioni svolte dalle stesse parti, nonché dalle concordi dichiarazioni rese dai testi G.B. e G.M., il programma per elaboratore denominato "Navcrm" nasce da un'idea del M., oggi legale rappresentante di A. s.r.l. Difatti, risulta che, inizialmente, il M., in proprio, all'epoca dipendente di X. ed esperto in materia di agenzie per il lavoro, dopo aver affidato la realizzazione di un crm denominato "Waab" all'ingegner X., ebbe a contattare anche il X, commissionandogli la realizzazione di una banca dati che avrebbe dovuto integrare l'operatività del predetto software. E' altresì emerso che il B., dopo alcuni mesi, dovette rinunciare al progetto, sicchè il compito di realizzare un unico software, che integrasse le due soluzioni iniziali, nonché nuove funzionalità tra cui un navigatore, rimase in capo all'odierno convenuto. Nel frattempo, nei primi mesi del 2008, il M. aveva costituito la società A. srl, al fine precipuo di sfruttare il progetto "Navcrm", con conseguente subentro di quest'ultima, per facta concludentia, anche nel rapporto professionale inizialmente intercorso tra il M. ed il X. Il superiore assunto trova conferma nella documentata circostanza che era la società odierna attrice a pagare al X le fatture da questi emesse per lo sviluppo iniziale del software ed era sempre la società A. srl la formale ed effettiva intestataria tanto dei contratti di licenza, quanto delle relative fatture di pagamento (v. doc. 8, 9, 11, 12, 13, 15). Sulla scorta delle considerazioni che precedono, ritiene il Collegio che la società attrice sia subentrata nella titolarità del contratto di collaborazione professionale dedotto in causa e che alla stessa, per effetto della invocata risoluzione di detto accordo, spetti, in via esclusiva, il diritto di sfruttamento economico del software "Navcrm". Al riguardo, giova osservare che, a partire dalla fine del 2011, l'accordo in esame è stato modificato, in quanto, come ammesso dallo stesso X, con valore confessorio, in sede di interrogatorio formale, per ragioni di opportunità e su richiesta del cliente E., le parti decisero di far figurare come fornitore del "Navcrm" il convenuto, il quale, a sua volta, si era formalmente impegnato a "girare"comunque alla società attrice il pattuito 60% dei ricavi. Tali accordi sono stati, però, successivamente disattesi dal X. E', infatti, circostanza assolutamente pacifica, in quanto non contestata, né confutata, che quest'ultimo, in violazione degli impegni contrattualmente assunti, ha trattenuto per sé l'intero fatturato conseguito dallo sfruttamento del software, omettendo di trasferire alla società A. s.r.l. la dovuta percentuale di ricavi. Xxxxxx, appare evidente come siffatta condotta integri un grave inadempimento da parte del convenuto dei propri obblighi contrattuali, senz'altro idoneo a fondare, ai sensi dell'art. 1453 c.c., una pronuncia di risoluzione del contratto di collaborazione inter partes. Il venir meno dell'accordo derogatorio, comporta, inevitabilmente, la reviviscenza della regola generale come ut supra delineata e, quindi, come la riespansionein capo al committente, del diritto di utilizzazione economica, in via esclusiva e per l'intero, del software oggetto di causa ex art. 64 bis L. n. 633 del 1941. Ulteriore conseguenza di quanto sopra affermato è la palese illegittimità della detenzione da parte del X dei codici sorgenti del software, i quali, per ciò, dovranno essere riconsegnati all'attrice, quale soggetto avente diritto. Per tali motivi, deve inibirsi al convenuto la prosecuzione delle denunciate attività illecite, nonché lo svolgimento di quelle volte alla riproduzione e distribuzione a terzi del programma "Navcrm". Inoltre, al fine di assicurare la dovuta ottemperanza alle pronunce che precedono, va posta a carico del convenuto una penale pecuniaria di Euro 500,00 per ogni violazione o inosservanza delle disposte inibitorie e per ogni giorno di ritardo nell'adempimento di tutto quanto disposto in sentenza. Infine, ai sensi dell'art. 166 c.p.c., va anche disposta la pubblicazione, per estratto, della presente sentenza, a cura dell'attrice e a spese del convenuto, sui giornali nazionali "Il Resto del Carlino" e " La Repubblica". Tale misura, infatti, ha un criterio fine non solo ripristinatorio, ma assolve anche alla finalità di reciprocitàfare chiarezza fra i clienti di A. e gli utilizzatori del Navcrm sulla paternità del software e sulla titolarità del diritto contestato, rendendo altresì noto al pubblico degli utenti sia il fatto lesivo, che l'accoglimento dell'azione diretta a reprimerlo. In sintesiInvece, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione dataper quanto concerne l'asserita concorrenza sleale da parte del convenuto ex art. 2598 nn.1 e 3 c.c., la patologia relativa domanda non appare meritevole di accoglimento. Difatti, l'invocata disciplina della concorrenza sleale esige, innanzitutto, la sussistenza di due requisiti. Il primo è quello dell'imprenditorialità tanto del rapporto può soggetto che compie la violazione, quanto del soggetto passivo che la subisce. Il secondo presupposto è, invece, quello della concorrenzialità delle attività poste in essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fededalle parti, in sostanzaquanto è necessario che effettivamente, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzioneo almeno potenzialmente, siano rivolte alla medesima clientela. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo Nel caso di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli specie, però, l'attrice non ha allegato e, soprattutto, fornito sufficienti elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità valutazione per poter affermare che il concreto esercizio convenuto concretamente commercializzi il software oggetto di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del dirittoe, quindi, lungi dal presupporre una violazione compia attività che,consentendone la qualificazione quantomeno in senso formaletermini di piccolo imprenditore, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale lo assoggettino alla disciplina di cui all'art. 2598 c.c. In particolare, non vi è prova che il X abbia venduto e venda a terzi il "Navcrm", fatturando come fornitore, e che, invece, non si sia limitato a svolgere prestazioni di manutenzione ed implementazione sul software, restando, quindi, nei confini della propria attività di libero professionista. Infine, va pure rigettata la domanda attrice di risarcimento del dirittodanno,in ragione del grave deficit assertivo e probatorio sul punto. Infatti, finalizzata al conseguimento la società A. s.r.l., tanto in atto di obiettivi ulteriori e diversi rispetto citazione, che nella prima memoria ex art. 183, comma sesto, c.p.c., ha allegatoun presunto pregiudizio in maniera del tutto generica ed apodittica, concludendo, semplicemente, per "il risarcimento di tutti i danni subiti da A., sia patrimoniali, che non patrimoniali, contrattuali ed extracontrattuali, liquidabili anche in via equitativa ai sensi dell'art. 158 l.d.a.", senza, tuttavia, specificare e, a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabilefortiori, dimostrare quale sia stato, in sostanzaconcreto, quandoil nocumento dalla stessa patito in conseguenza degli illeciti ascritti al convenuto. Infine, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -quanto concerne le spese processuali, in considerazione della grande latitudine reciproca, ma non paritetica soccombenza, si ritiene che, nella fattispecie in esame, ricorrano le condizioni per disporre la loro parziale compensazione in misura di potere che una clausola generale1/4, liquidando la quota restante (3/4), come quella dell'abuso da dispositivo, a carico del dirittoconvenuto X, avrebbe attribuito al giudicequale parte maggiormente soccombente. P.Q.M. Il Tribunale di Bologna, impedì che fosse trasfusain composizione collegiale, definitivamente pronunciando nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942causa avente n.r.g. 5398/2013, quella norma del progetto preliminare (ogni diversa istanza o eccezione disattesa così provvede: DICHIARA l'inammissibilità della domanda formulata, in via riconvenzionale, dal convenuto. DICHIARA la risoluzione, ex art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 1453 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre collaborazione professionale intercorso tra la società attrice X. xxx ed il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibileconvenuto X, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civgrave inadempimento di quest'ultimo.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:

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Motivi della decisione. PreliminarmenteIl Pubblico Ministero, i ricorsi con decreto di citazione diretta a giudizio ex artt. 550, 552 c.p.p., emesso in data 27.01.2020, esercitava l'azione penale nei confronti di (...), per il reato di cui all'imputazione trascritto in epigrafe. Il processo prendeva avvio all'udienza del 06/07/2020, nel corso della quale il difensore dell'imputato eccepiva il mancato rispetto del termine a comparire normativamente previsto nei confronti del proprio assistito ed il Xxxxxxx, preso atto della fondatezza dell'eccezione, rinviava il procedimento all'udienza dell'01.02.2021, ove, avanti a codesto diverso Giudicante, in ragione dell'applicazione, presso la Corte di Appello di Bologna, del Giudice originariamente assegnatario del procedimento e della conseguente riassegnazione dei procedimenti dello stesso, veniva dichiarata l'assenza dell'imputato (assistito da un difensore di fiducia) e venivano ammesse le prove richieste dalle parti. Alla successiva udienza del 10.01.2022, sempre in assenza dell'imputato, veniva escusso il teste del P.M., (...), in qualità di persona offesa; veniva acquisita la documentazione prodotta dal P.M. (cartellino anagrafico dell'imputato, copia della disposizione di bonifico effettuata dalla persona offesa, screenshot delle conversazioni tramite (...) intercorse tra l'imputato e la persona offesa) ed il procedimento veniva rinviato all'udienza del 07.02.2022 per l'audizione del teste del P.M., appuntato (...), all'epoca dei fatti in servizio presso la Stazione Carabinieri di (…) che aveva proceduto all'accertamento dei fatti; veniva altresì acquisita l'ulteriore documentazione prodotta dal P.M. (certificato anagrafico dell'imputato, modulo di apertura rapporto relativo alla carta nominativa prepagata "Conto Carta (...)" intestata al prevenuto, carta di identità dello stesso presentata all'atto dell'apertura del conto) nonché quella prodotta dalla difesa (copia sentenza del Tribunale di Palermo emessa nei confronti dell'imputato in data 22.06.2020) e, all'esito, dichiarata chiusa l'istruttoria, le parti concludevano come da verbale ed il procedimento veniva rinviato all'udienza dell'11.02.2022 per repliche, in assenza delle quali, il Giudice dava lettura del dispositivo in atti. L'odierno procedimento trae origine dalla denuncia-querela sporta da (...) in data 13/11/2018 presso la Stazione dei Carabinieri di (…), in relazione alla quale, nel corso dell'istruttoria, la persona offesa riferiva di aver rinvenuto sul sito internet "(...)" un annuncio relativo ad un drone e di aver quindi contattato, in data 14.07.2018, tramite "(...)", il soggetto che lo aveva pubblicato che, nell'occasione si presentava come (...) (cfr. verbale trascrizione udienza 10.01.2022, deposizione teste (...), pag. 6) e di essersi di poi accordato con lo stesso sul prezzo da corrispondere, pattuito in Euro 450,00. Nel corso della contrattazione, avvenuta sempre tramite messaggistica (...), il signor (...), prima di eseguire il bonifico richiestogli dal venditore, si faceva inviare un foto del documento di identità di quest'ultimo (nello specifico il venditore gli inviava la foto della carta di identità n.(...) rilasciata in data 16.08.2016 dal Comune di Palermo ed intestata a (...), nato a B. (R.) il 19.10.1987) nonché un selfie dello stesso al fine di verificare l'identità tra il predetto e l'intestatario del conto sul quale accreditare la somma pattuita (C/C n. (...) intestato a (...)) (cfr. verbale trascrizione udienza 10.01.2022, deposizione teste (...), pag. 4 nonché screenshot prodotti dal P.M., udienza 10.01.2022). All'esito di tale verifica, il signor (...), in data 16.07.2018, bonificava al venditore la somma pattuita (cfr. produzione P.M., udienza 10.01.2022), ma pur a fronte dell'avvenuto pagamento, nessun oggetto veniva inviato alla persona offesa che, pertanto, contattava nuovamente il venditore, il quale dapprima imputava la mancata consegna al corriere e di poi continuava ad accampare pretesti di ogni genere addirittura ipotizzando la restituzione della somma ricevuta, per poi smettere definitivamente di rispondere alle richieste del signor (...) (cfr. verbale trascrizione udienza cit., deposizione teste (...) cit., pag.5, nonché produzione P.M., udienza 10.01.2022). I successivi accertamenti, effettuati dai Carabinieri della Stazione di (…), presso gli uffici della quale la persona offesa aveva sporto la querela, consentivano di pervenire con certezza all'identificazione del titolare della carta di identità inviata alla persona offesa con l'odierno imputato, posto che, presso il Comune di Palermo, che aveva provveduto al rilascio del documento, veniva acquisito il relativo cartellino anagrafico, dal quale risultava la piena corrispondenza tra la foto ivi apposta e quella del documento di identità nonché con il selfie inviato alla persona offesa. Ma non solo: dall'ulteriore attività di indagine, infatti, emergeva altresì che il codice IBAN (...) fornito dal venditore per l'effettuazione del pagamento era associato al conto carta "(...)", acceso in data 29.01.2018 ed ancora in essere alla data del 18.12.2018, recante come unico intestatario il signor (...), nato in R. (E.) il (...) e che il documento utilizzato per l'attivazione dello stesso era la medesima carta di identità rilasciata dal comune di Palermo che l'imputato aveva inviato tramite (...) al signor (...) (cfr. verbale trascrizione udienza 07.02.2022, deposizione teste (...), pag. 4, nonché produzione P.M., udienza 07.02.2022). Il compendio probatorio testè riassunto consente di pervenire all'affermazione della penale responsabilità dell'imputato per il reato ascrittogli. Alla luce delle emergenze processuali dianzi illustrate, infatti, può ritenersi provata - principale ed incidentale al di là di ogni ragionevole dubbio - la riconducibilità del fatto all'imputato, nonché la sussistenza dello stesso. Sotto il primo profilo, non sono emerse - né la difesa le ha evidenziate - ipotesi ricostruttive alternative a quella accusatoria riscontrabili nel materiale istruttorio acquisito, mentre, sotto il profilo dalla componente oggettiva, gli artifizi e raggiri richiesti dalla norma vanno riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c.. Ricorso principale. rinvenuti nella condotta dell'imputato, che pubblicava sul sito "(OMISSIS) Con il secondo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle clausole generali della buona fede...)" l'annuncio relativo alla vendita di un drone in relazione al quale veniva contattato dal signor (...), interessato all'acquisto, ed in particolare seguito agli accordi intercorsi, attraverso i quali si guadagnava il consenso della persona offesa alla conclusione del contratto di compravendita, provvedeva a farsi corrispondere da quest'ultimo, mediante ricarica sulla pretesa insindacabilità degli atti propria carta prepagata collegata al "conto carta (...)", la somma di autonomia privata Euro.450,00 a titolo di prezzo per il dispositivo, senza tuttavia poi spedire mai la merce in parola, come invece artatamente prospettato alla predetta, più volte rassicurata in merito alla bontà dell'affare e di poi rendendosi definitivamente irreperibile. I contatti avuti con la persona offesa durante l'iter formativo del contratto e la conseguente pattuizione del prezzo, nonché gli accordi relativi alla modalità di consegna del bene, invero, costituiscono, pur in assenza di altra ed ulteriore messa in scena, l'elemento del raggiro richiesto dalla fattispecie in contestazione in quanto destinati a creare un falso convincimento sulla psiche della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso persona offesa e ad nutum indurla in errore, (artcfr. 360 c.p.c.Cass. Pen. Sez. II, 27.07.1990, n. 300000, in relazione agli arttXxxxxxx; Cass. 1175 e 1375 c.cPen. Sez. V, 16.04.1984, n.3460, Ba.). Con il terzo motivo denunciano La consumazione del reato, inoltre, con la violazione conseguente deminutio patrimonii del soggetto passivo e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorietà lo speculare illecito conseguimento del profitto in capo all'agente, rende superflua ogni valutazione relativa all'astratta idoneità dei raggiri posti in essere dall'imputato a carpire la buona fede della motivazione sul punto (art. 360 c.p.c.persona offesa, n. 5). Con il quarto motivo denunciano la violazione in quanto l'idoneità è dimostrata - ex sé - dall'effetto raggiunto e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (art. 360 c.p.c., n. 3). Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, nei limiti di cui in motivazione, per le ragioni che seguono. Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti cioè dalla realizzazione di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza ingiusto profitto con altrui danno (artcfr. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; CassPen. 11.6.2008 n. 15476)Sez. Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operanteII,30.01.1988, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.)n.1233, quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altreAgostini, Cass. 15.2.2007 Pen. Sez. II, 27.07.1990, n. 346210833, Casella), da ravvisarsi - nel caso di specie - nella somma di Euro 450,00 corrisposta dalla persona offesa, (...), all'imputato, (...), a titolo di corrispettivo per l'acquisto del drone di cui all'imputazione. Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poiQuanto alla componente soggettiva, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost.dolo della condotta è reso evidente dallo stesso svolgimento dei fatti, e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, scientemente posti in essere con comportamenti contrari al fine di determinare la persona offesa all'acquisto del dispositivo tramite i sopra descritti artifizi e raggiri, nonché dal fatto che la somma indebitamente percepita non è mai stata restituita alla buona fede oggettivapersona offesa. E nella formula della mancanza La sequenza fattuale addebitabile al prevenuto, unitamente al precedente di tutelacui al certificato del casellario giudiziale per il medesimo titolo di reato, sta nonché la finalità condanna di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - cui alla sentenza n.2448/20 del Tribunale di Palermo per un fatto analogo a quello di cui al presente procedimento, sintomatici di una evidente reiterazione di un fraudolento modus operandi, non lasciano intravvedere elementi idonei per la concessione delle attenuanti di cui all'art. 62 bis c.p. Gli stessi, inoltre, tenuto conto dell'omogeneità del tipo di devianza di cui sono espressione, evidenziano, altresì, una sostanziale sistematicità ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezzainclinazione alla violazione del precetto penale, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privatagiustifica la maggiore punizione del prevenuto correlata all'applicazione della contestata recidiva. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.)Infine, non può escludersi trovare accoglimento l'istanza difensiva volta al riconoscimento del vincolo della continuazione tra il fatto per cui è giudizio e quello oggetto della sentenza di cui al n.2448/20 del Tribunale di Palermo, posto che il recesso - come nel caso di specie - in assenza di altri indici sintomatici "l'omogeneità delle violazioni, sebbene sia indicativa di una banca dal rapporto particolare attitudine del soggetto a commettere azioni criminose della stessa indole, non consente da sola di apertura ritenere che i reati siano frutto di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto determinazioni volitive risalenti ad un'unica deliberazione di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari fondo" (cfr. Cass. 21.5.1997 Pen. Sez. III, 21.06.2006, n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 264221496, Mo.). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto chePertanto, in presenza base ai parametri valutativi di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contrattocui all'art. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c133 c.p., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito nonché tenuto conto della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamentocontestata recidiva, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o stima congruo e rispondente a giustizia condannare l'imputato alla pena di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:mesi dieci

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Motivi della decisione. Preliminarmente, i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi Nel primo motivo viene dedotta la violazione dell'art. 335 c.p.c1283 c.c., in combinato disposto con il D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 161, nonchè il vizio di motivazione per avere la Corte d'Appello ritenuto che l'applicabilità degli interessi anatocistici fosse consentita per legge nel contratto di muto fondiario senza considerare che il contratto in questione è assoggettato alla disciplina normativa introdotta dal D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 161, con il quale è stato abrogato il precedente T.U. n. 646 del 1905. Alla luce del nuovo regime giuridico i contratti di mutuo fondiario sono interamente assoggettati al T.U.B.. Ricorso principale. (OMISSIS) Con il Riproduzione riservata 3 P.Iva 01589730629 R.E.A. MI 2848076 Sede Legale: Xxx Xxxxx Xxxxxxxxx, 10 20122 Milano Sede Operativa: Xxxxxx Xxxxxxxx, 0 00000 Xxxxxxxxx xxx.xxxxxxxxxxxx.xx xxxx@xxxxxxxxxxxx.xx Numero Verde 800 653 346 Nel secondo motivo denunciano viene dedotta la violazione degli artt. 101 e falsa applicazione delle clausole generali della buona fede, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (art. 360 102 c.p.c., n. 3in ordine al confermato difetto di legittimazione passiva dei creditori intervenuti, in relazione agli trascurando di considerare che requisito sufficiente è l'essere muniti di titolo esecutivo. Nel terzo motivo è stata dedotta la violazione degli artt. 1175 61 e 1375 c.c.). Con il terzo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorietà della motivazione sul punto (art. 360 116 c.p.c., n. 5)e art. Con 2697 c.c., nonchè il vizio di motivazione nel non aver ritenuto, il giudice d'appello, la sussistenza del patto commissorio e dell'impossibilità sopravvenuta, anche in ordine all'omesso accoglimento dell'istanza di consulenza tecnica d'ufficio, sull'effettiva finalità del mutuo. Nel quarto motivo denunciano viene dedotta la violazione del d.lgs. n. 385 del 1993 nonchè della normativa antiusura ed infine il vizio di motivazione per non essere stato considerato che le perizie svolte in sede esecutiva avevano assegnato ai beni valori di Euro 70.000 e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca 84.000 a fronte di crediti per Lire 176.145.390 e Lire 62.480.95 quando sui beni era stata trascritta ipoteca per Lire 540.000.000 e Lire 349.000.000. Sotto altro profilo la sentenza è illegittima anche perchè non ha accolto il motivo relativo alla riduzione proporzionale dell'ipoteca, ritenendo plausibile che il valore dei beni immobili in materia (art15 anni si sia dimezzato invece di aumentare, al fine di applicare l'art. 360 39 T.U.B. e ritenere erroneamente che il valore residuale non fosse neanche sufficiente a coprire il debito. Nel quinto motivo viene dedotta la violazione dell'art. 111 c.p.c., n. 3)nonchè il vizio di motivazione per essere stata erroneamente riconosciuta la legittimazione attiva del Banco di Sicilia nonostante non avesse più la titolarità del diritto di credito azionato fina dal 31/12/2001. Il secondoDeve essere preliminarmente affrontata l'eccezione d'inammissibilità del controricorso notificato dalla Unicredit Managment Bank S.P.A. in data 4/5/2011 in luogo del diverso titolare del credito nelle precedenti fasi del giudizio Banco di Sicilia, dovendosi applicare il principio secondo il quale il successore a titolo particolare può impugnare la sentenza di merito ma non intervenire nel giudizio di legittimità, in mancanza di un'espressa previsione normativa che consenta al terzo e quarto motivola partecipazione al giudizio con facoltà di esplicare difese, investendo profili assumendo una veste atipica rispetto alle parti necessarie. L'eccezione può essere disattesa. Gli orientamenti segnalati dalla parte ricorrente ed i successivi che ad essi si presentano connessi ispirano (tra i più recenti 11375 del 2010; 12179 del 2014) hanno ad oggetto successori a titolo particolare effettivamente intervenuti nel procedimento di legittimità ove risultava costituito il resistente dante causa. Anche il contrasto determinatosi all'interno di questa sezione in ordine alle questioni prospettatealla partecipazione dell'assuntore del concordato oltre al curatore (Cass. 18697 del 2013, vanno esaminati congiuntamenteche ritiene ammissibile l'intervento dell'assuntore perchè successore a titolo particolare e 3336 del 2015, di avviso diverso) ha ad oggetto una fattispecie nella quale è costituito il dante causa. Essi sono fondatiIn tali ipotesi è astrattamente giustificabile l'incompatibilità con il procedimento di legittimità dell'intervento del terzo ancorchè successore a titolo particolare, nei limiti dal momento che la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio trova comunque un riconoscimento ed una tutela processuale mediante la partecipazione del xxxxx causa. Nella fattispecie dedotta nel presente giudizio, invece, il dante causa Banco di cui in motivazioneSicilia non si è costituito nel procedimento davanti la Corte di Cassazione. La situazione è del tutto equiparabile, di conseguenza, a quella del P.Iva 01589730629 R.E.A. MI 2848076 Sede Legale: Xxx Xxxxx Xxxxxxxxx, 10 20122 Milano Sede Operativa: Xxxxxx Xxxxxxxx, 0 00000 Xxxxxxxxx xxx.xxxxxxxxxxxx.xx xxxx@xxxxxxxxxxxx.xx Numero Verde 800 653 346 successore a titolo particolare che propone ricorso per le ragioni esercitare il diritto di azione che seguono. Costituiscono principii generali gli deriva dall'acquistata titolarità del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui controverso. Escludere la parti sua partecipazione al presente giudizio, solo perchè non ricorrente determinerebbe una lesione del diritto di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.)difesa non giustificata dalla natura del procedimento di legittimità, mancando la partecipazione in giudizio del dante causa. In tema ordine ai motivi del ricorso principale deve rilevarsi la fondatezza del primo, applicandosi, ratione temporis, alla fattispecie dedotta in giudizio il T.U.B. anche ai contratti di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contrattomutuo fondiario, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (affermato da Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass11400 del 2014 così massimata: "Con l'entrata in vigore del D.Lgs. 11.6.2008 1 settembre 1993, n. 15476385, (cosiddetto t.u.b.), secondo il quale qualsiasi ente bancario può esercitare operazioni di credito fondiario la cui provvista non è più fornita attraverso il sistema delle cartelle fondiarie, la struttura di tale forma di finanziamento ha perso quelle peculiarità nelle quali risiedevano le ragioni della sottrazione al divieto di anatocismo di cui all'art. 1283 c.c., rinvenibili nel carattere pubblicistico dell'attività svolta dai soggetti finanziatori (essenzialmente istituti di diritto pubblico) e nella stretta connessione tra operazioni di impiego e operazioni di provvista, atteso che gli interessi corrisposti dai terzi mutuatari non costituivano il godimento di un capitale fornito dalla banca, ma il mezzo per consentire alla stessa di far fronte all'eguale importo di interessi passivi dovuto ai portatori delle cartelle fondiarie (i quali, acquistandole, andavano a costituire la provvista per l'erogazione dei mutui). Ne consegue che la clausola generale l'avvenuta trasformazione del credito garantito da ipoteca di buona fede e correttezza è operanteprimo grado su immobili, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (comporta l'applicazione delle limitazioni di cui al citato art. 1175 cod1283 c.c., e che il mancato pagamento di una rata di mutuo non determina più l'obbligo (prima normativamente previsto) di corrispondere gli interessi di mora sull'intera rata, inclusa la parte rappresentata dagli interessi corrispettivi, dovendosi altresì escludere la vigenza di un uso normativo contrario". civ.)Ha precisato al riguardo la Corte in motivazione: "Nel sistema legislativo previgente la capitalizzazione del credito per interessi corrispettivi era espressamente prevista dalla normativa di settore che ha, quanto sul piano nel tempo, disciplinato i contratti di mutuo fondiario stipulati in data anteriore all'entrata in vigore del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione t.u.b. (R.D. n. 646 del contratto (2005, art. 1375 cod38, D.P.R. n. 7 del 1976, art. civ.14, L. n. 175 del 1991, art. 16). I principii Non si è mai dubitato, pertanto, che, il mancato pagamento di buona fede e correttezzauna rata di mutuo fondiario comportasse l'obbligo di corrispondere gli interessi di mora sull'intero suo ammontare, inclusa la parte che rappresentava gli interessi di ammortamento (cfr., da ultimo, fra molte, Xxxx. nn. 21885/013, 3656/013, 9695/011). Le leggi speciali sono state tuttavia abrogate dall'art. 161, comma 1, del restot.u.b, sono entratie continuano a regolare, ai sensi del comma 6, del medesimo articolo, i soli contratti già conclusi nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridicoloro vigore. L'obbligo Il t.u.b. fornisce ora, all'art. 38 (incluso nella sezione I del capo 6^ della legge, rubricata Norme relative a particolari operazioni di buona fede oggettiva o correttezza costituiscecredito) la nozione di credito fondiario, ma non detta alcuna disposizione che preveda, come per il passato, che le somme dovute a titolo di rimborso delle rate di ammortamento dei mutui fondiari, comprensive di capitali e interessi, producono, di pieno di diritto, interessi dal giorno della scadenza. Il regime privilegiato di cui in origine godeva il credito fondiario rinveniva infatti la sua giustificazione nel carattere pubblicistico P.Iva 01589730629 R.E.A. MI 2848076 Sede Legale: Xxx Xxxxx Xxxxxxxxx, 10 20122 Milano Sede Operativa: Xxxxxx Xxxxxxxx, 0 00000 Xxxxxxxxx xxx.xxxxxxxxxxxx.xx xxxx@xxxxxxxxxxxx.xx Numero Verde 800 653 346 dell'attività svolta dai soggetti finanziatori, previamente individuati dalla legge fra istituti di diritto pubblico, nella stretta connessione tra operazioni di impiego ed operazioni di provvista e nella necessità di assicurare ai risparmiatori, che fornivano quest'ultima acquistando le cartelle fondiarie, sicurezza e tempestività nei rimborsi attraverso la sicurezza e la tempestività della restituzione delle somme mutuate. Deve dunque concludersi che, con l'entrata in vigore del t.u.b., la struttura del credito fondiario ha perso quelle peculiarità nelle quali risiedevano le ragioni della sua sottrazione al divieto di cui all'art. 1283 c.c.". Il secondo motivo deve ritenersi inammissibile perchè non risulta censurata una delle rationes decidendi poste a base dell'accertato difetto di legittimazione passiva dei creditore intervenuti nel procedimento di esecuzione forzato. In ordine ad entrambi è stato, infatti, un autonomo dovere giuridicosottolineato che la giustificazione della affermata legittimazione passiva era del tutto generica anche con riferimento alle ragioni del rigetto contenute nella sentenza di primo grado. Il terzo e il quarto motivo devono essere ritenuti del pari inammissibili perchè si limitano, espressione nonostante la prospettazione anche del vizio di un generale principio violazione di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporrelegge, a ciascuna delle parti richiedere un esame ed una valutazione dei fatti alternativa a quella incensurabilmente svolta dal giudice del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, merito anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicatiordine alle istanze istruttorie disattese ed, in particolare, alla richiesta di consulenza tecnica d'ufficio. Per quest'ultima si richiama ai fini della consolidata giurisprudenza in ordine all'inammissibilità della censura volta al riesame del rigetto, discrezionalmente stabilito dal giudice di merito con riferimento al contratto motivazione adeguata, nella specie dovuto alla natura esplorativa dell'istanza, (Cass.12930 del 2007; 17399 del 2015). L'inammissibilità deve estendersi anche all'articolazione della censura contenuta nel quarto motivo, riguardante la violazione della normativa antiusura. La parte ricorrente non coglie la ratio del rigetto che è la genericità della prospettazione del motivo e reitera tale vizio anche in sede di mediazione (Cassricorso. 5.3.2009 n. 5348), al contratto Il quinto motivo infine deve ritenersi infondato dal momento che il Banco di sale and lease back connesso al divieto Sicilia non era stato mai estromesso dal giudizio di patto commissorio merito con conseguente piena legittimazione a parteciparvi ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche 111 c.p.c.. In conclusione deve accogliersi il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezioneprimo motivo, con riferimento rigetto dei restanti, cassazione della pronuncia impugnata e rinvio alla corte d'Appello di Palermo in diversa composizione, perchè si attenga al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti principio di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso diritto enunciato nella massima citata ad illustrazione del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnatamedesimo. La struttura argomentativa della Corte, accoglie il primo motivo e rigetta il secondo, terzo, quarto e quinto. Cassa la sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Palermo in diversa composizione perchè provveda anche alle spese processuali del presente procedimento di legittimità. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 11 marzo 2016. Depositato in Cancelleria il 7 giugno 2016. P.Iva 01589730629 R.E.A. MI 2848076 Sede Legale: Xxx Xxxxx Xxxxxxxxx, 10 20122 Milano Sede Operativa: Xxxxxx Xxxxxxxx, 0 00000 Xxxxxxxxx

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Motivi della decisione. PreliminarmenteIl ricorso è soggetto alla disciplina di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006, con riferimento, in particolare, all’art. 366-bis c.p.c., trattandosi di provvedimento depositato nella vi- genza della normativa richiamata. I quesiti rispettano i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi dell'artrequisiti prescritti da tale norma. 335 Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la violazio- ne e falsa applicazione dell’art. 000 x.x.x., xxxxxx xxxx- xx motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio: art. 360 c.p.c.. Ricorso principale., nn. (OMISSIS) 3 e 5. Con il secondo motivo denunciano si denuncia la violazione e falsa applicazione delle clausole generali della buona fededell’art. 112 c.p.c., ed in particolare sulla pretesa insindacabilità e degli artt. 1469 bis, 1469 ter x.x. x xxxx., (xxxx xxxxxxxx xxx xxxxxx xxx xxxxx- xx), nonché del principio di diritto secondo cui la fatti- specie del collegamento del contratto negoziale è confi- gurabile anche quando i singoli atti di autonomia privata siano stati stipulati tra soggetti diversi, purché essi risultino concepiti e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (volu- ti come funzionalmente connessi e tra loro interdipen- denti, onde consentire il raggiungimento dello scopo di- visato dalle parti: art. 360 c.p.c., n. 3, . Insufficiente o con- traddittoria motivazione in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c.). Con il terzo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorietà ordine ad un punto decisivo della motivazione sul punto (controversia: art. 360 c.p.c., n. 5). Con il quarto terzo motivo denunciano si denuncia la violazione omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (decisivo per il giudizio: art. 360 c.p.c., n. 3)5. Il secondoI motivi, terzo e quarto motivoper l’intima connessione delle censure con gli stessi svolte, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno sono esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, nei limiti di cui in motivazione, fondati per le ragioni e nei termini che seguono. Costituiscono principii generali La Corte di merito, nel rigettare l’appello proposto dagli odierni ricorrenti fondato sulla mancata declaratoria di risoluzione - da parte del diritto primo giudice - oltre che del contratto di compravendita, anche del contratto di mu- tuo, per la nullità delle obbligazioni quelli secondo relative clausole, vessatorie e con- trarie a buona fede, ha ritenuto che «non può condivi- dersi l’assunto degli appellanti, in quanto non si ravvisa la dedotta nullità delle clausole del contratto di mutuo, che fanno salva l’obbligazione della mutuataria C. anche nell’ipotesi di mancata consegna del bene da parte del venditore». Ed ha aggiunto: «Non rientra infatti tale previsione in al- cuna delle ipotesi di vessatorietà delle clausole indicate dall’appellante, perché il rapporto di cui si controverte è quello tra la C. e la Findomestic, diverso, sebbene colle- gato rispetto a quello di compravendita intervenuto tra la Tontini Auto e il L.». Le conclusioni, cui è pervenuta la Corte di merito, non sono condivisibili. La Corte d’Appello ha valutato i due contratti - di com- pravendita e di mutuo - ritenendo l’autonomia del rap- porto intercorso fra la mutuataria e la società finanziatri- ce rispetto a quello relativo al contratto di compravendi- ta, affermando che fosse “diverso sebbene collegato”. Nulla ha detto, invece, circa un potenziale collegamento negoziale rivendicato dagli attuali ricorrenti nella specie. A tal fine debbono premettersi alcune considerazioni in tema di collegamento negoziale. Il collegamento negoziale - espressione dell’autonomia contrattuale prevista dall’art. 1322 c.c. - è un meccani- smo attraverso il quale le parti di perseguono un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) risultato economico complesso, che viene realizzato, non attraver- so un autonomo e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema nuovo contratto, ma attraverso una pluralità coordinata di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come i quali conservano una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concretoloro causa autonoma, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel dirittociascuno è concepito, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto fun- zionalmente e teleologicamente, come collegato con gli altri, cosicché le vicende che investono un contratto pos- sono ripercuotersi sull’altro. Ciò che vuoi dire che, pur conservando una loro causa autonoma, i diversi contratti legati dal loro collegamento funzionale sono finalizzati ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina unico regolamento dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli reciproci interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 10 luglio 2008 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 1125818884). In tal casoPerché possa configurarsi un collegamento negoziale in senso tecnico - che impone la considerazione unitaria della fattispecie - sono quindi necessari due requisiti. Il primo è quello oggettivo, proprio richiamando l'abusocostituito dal nesso teleologi- co tra i negozi, ne sarà possibilefinalizzati alla regolamentazione degli in- teressi reciproci delle parti nell’ambito di una finalità pratica consistente in un assetto economico globale ed unitario. Il secondo è quello soggettivo, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.)costituito dal comune in- tento pratico delle parti di volere, non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove solo l’effetto tipi- co dei singoli negozi in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cassposti in essere, ma anche il coordinamento tra di essi per la realizzazione. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo fine ulteriore, che ne trascende gli effetti tipici e che assume una propria autonomia anche dal punto di vista causale (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nnXxxx. 3005517 maggio 2010, 30056n. 11974; Cass. 16 marzo 2006, 30057n. 5851). Il breve excursus esemplificativo consenteSul piano processuale, quindipoi, l’accertamento della natura, entità, modalità e conseguenze del collegamento nego- ziale realizzato dalle parti rientra nei compiti esclusivi del giudice di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto merito; ma un tale apprezzamento non è uno dei criteri sinda- cabile in sede di selezionelegittimità, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono solo se sorretto da atti di autonomia privatamotiva- zione congrua ed immune da vizi logici e giuridici (v. per tutte Xxxx. 17 maggio 2010, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottanon. 11974). Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abusoNella specie, la necessità Corte di una correlazione tra i poteri conferiti merito, nell’affermare l’autono- mia dei due rapporti - quello di compravendita e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita quello di mutuo “diverso sebbene collegato” - non sia quella consentita dall'ordinamentoha considerato, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, né messo in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i rilievo le seguenti passaggi logicicircostanze:

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Motivi della decisione. PreliminarmenteIn parziale riforma della sentenza del Tribunale, la Corte di Appello di Torino ha ritenuto Ma. Do. e Co. Fr. responsabili del reato previsto dalla Legge n. 516 del 1982, articolo 4, lettera f, ora Decreto Legislativo n. 74 del 2000 articolo 3 (dichiarazione di imposte fraudolenta mediante artifici) e, concesse le attenuanti generiche, li ha condannati alla pena di giustizia. Per giungere a tale conclusione, la Corte ha reputato che l'accertato comportamento degli imputati - i quali avevano indicato nei contratti notarili di compravendita, allegati alla dichiarazione dei redditi, un prezzo minore del reale - costituisse un mezzo fraudolento idoneo ad ostacolare la verifica tributaria; sul punto - secondo i Giudici - non influiva l'accertamento della evasione operato dalla Guardia di finanza dopo complesse investigazioni. La Corte territoriale ha ritenuto la continuita' di tipo di illecito tra la abrogata e la attuale normativa in quanto le soglie introdotte con il Decreto Legislativo n. 74 del 2000 articolo 3 sono da considerarsi condizioni di punibilita' che non influiscono sulla struttura della fattispecie. In merito alla prescrizione, i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c.. Ricorso principale. (OMISSIS) Con Giudici hanno rilevato che il secondo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle clausole generali caso fosse regolato dalla normativa della buona fedeLegge n. 516 del 1982 perche' piu' favorevole, ed hanno escluso che fossero applicabile i termini piu' brevi introdotti con la Legge n. 251 del 2005 perche' il processo era pendente in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti appello alla data del 8 dicembre 2005; sul tema, la Corte ha osservato come l'individuazione della sentenza di autonomia privata e primo grado come criterio distintivo per l'applicazione della conseguente nuova disciplina fosse ragionevole ed hanno dichiarata infondata la relativa questione di legittimita' costituzionale. Da ultimo, la Corte non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (art. 360 c.p.cha concesso la attenuante dell'articolo 62 c.p., n. 36, in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c.quanto incompatibile con la condanna al risarcimento dei danni alla parte civile (Agenzia delle Entrate). Con Per l'annullamento della sentenza, gli imputati, con atti separati, hanno proposto ricorso per Cassazione deducendo violazione di legge e introducendo i seguenti comuni motivi. Per quanto concerne l'applicabilita' dei termini prescrizionali introdotti con la Legge n. 251 del 2005 ai processi in corso, i ricorrenti osservano come la sentenza della Consulta 393/2006, abbia dichiarato incostituzionale solo la barriera costituita dalla dichiarazione di apertura del dibattimento lasciando insoluta la problematica nei processi in fase di appello o di legittimita'. Ora la deroga alla retroattivita' della norma piu' favorevole deve avere una ragionevolezza che non e' riscontrabile nello individuare nella sentenza di primo grado, pur dotata di valenza interruttiva ex articolo 160 c.p., il terzo motivo denunciano discrimine per l'applicazione della nuova normativa. Pertanto, gli imputati solevano questione di legittimita' costituzionale della Legge n. 251 del 2005 articolo 10 comma 2, per violazione dell'articolo 3 Cost.. Entrambi i ricorrenti sostengono che non si possa riscontrare una continuita' tra gli elementi strutturali dello abrogato Legge n. 516 del 1982, articolo 4, e il vigente Decreto Legislativo n. 74 del 2000 articolo 3: la violazione condotta prevista dalle due norme e' differente in quanto solo la nuova individua il comportamento artificioso nello ambito delle scritture contabili e falsa applicazione dell'artrichiede il verificarsi dell'evento di evasione che costituisce elemento essenziale della fattispecie. 2043 c.cOltre alle ricordate censure comuni, il ricorrente Co. rileva come, stante l'abrogazione della Legge n. 516 del 1982, articolo 9, e' applicabile la disciplina dell'articolo 157 c.p., per cui il reato, riguardante l'anno di imposta 1997, e' estinto per prescrizione. La ricorrente Ma. osserva che il delitto contestato non punisce la condotta di evasione delle imposte, ma un comportamento fraudolento nei mezzi e nelle finalita' che non e' evidenziabile nella fattispecie concreta; contraddittorietà essa e' sussumibile nella diversa ipotesi di reato prevista del Decreto Legislativo n. 74 del 2000 articolo 4 (dichiarazione infedele) gia' estinta per prescrizione. Da ultimo la ricorrente rileva come avesse definito, prima della motivazione sul punto (art. 360 c.p.capertura del dibattimento, la sua posizione finanziaria con il ed accertamento con adesione per cui, in virtu' del Decreto Legge n. 669 del 1996 articolo 6 vigente all'epoca del commesso reato, il danno doveva considerarsi risarcito con applicabilita' della attenuante prevista dell'articolo 62 c.p., n. 6. Il Legislatore ha inteso porre un limite, per evidenti ragioni di politica criminale, alla retrodatazione delle norme piu' favorevoli in tema di prescrizione introdotte con la Legge n. 251 del 2005 ed ha precisato, all'articolo 10, comma 3, che le stesse fossero impraticabili per i processi pendenti in primo grado (individuando la relativa nozione nella apertura del dibattimento) o in appello oppure avanti alla Corte di Cassazione. In pratica, la legge piu' favorevole era applicabile solo per i processi per i quali non si era ancora aperto il dibattimento in primo grado. La Consulta con sentenza 393/2006 - dopo avere chiarito che il principio della irretroattivita' della legge piu' favorevole non e' tutelato a livello costituzionale - ha dichiarato la parziale illegittimita' della disposizione transitoria ed ha eliminato la locuzione "processi gia' pendenti in primo grado ove vi sia stata la apertura del dibattimento"; cio' essenzialmente per la considerazione che l'apertura del dibattimento non connota tutti i processi e non e' atto interruttivo della prescrizione. Dopo l'intervento della Corte Costituzionale, le aporie della pregressa normativa, ritenute non ragionevoli, sono state superate e la deroga alla retroattivita' della legge piu' favorevole e' rimasta in vigore solo per i processi pendenti in grado di appello (e tale e' il caso in esame) o dinanzi alla Cassazione; la Corte costituzionale ha inteso escludere dalla applicazione delle nuove norme i processi in avanzato stato di trattazione che sarebbero stati compromessi dalle riformulate disposizioni in tema di prescrizione (Sez. 5, 27 novembre 2006, Oliva 42189/06). Con Pertanto, non e' sostenibile la tesi dei ricorrenti secondo i quali la sentenza della Corte Costituzionale ha risolto solo il quarto motivo denunciano problema della irragionevolezza di individuare nella apertura del dibattimento in primo grado il discrimine per l'applicazione della nuova normativa; la violazione sentenza della Consulta salva, nella norma scrutinata, la preclusione alla applicazione della legge piu' favorevole ai processi pendenti in appello o in Cassazione. Di conseguenza, le censure dei ricorrenti sono superate dalla sentenza della Corte Costituzionale. Sul tema della continuita' normativa tra le ipotesi di reato previste dalla Legge n. 516 del 1982, articolo 4, e del Decreto Legislativo n. 74 del 2000 articolo 3 l'indagine deve incentrasi sulla permanenza del giudizio, pur parzialmente mutato, di disvalore delle condotte e sulla sussistenza di omogeneita' degli elementi strutturali delle vigenti e delle abrogate fattispecie criminose. La nuova normativa, ha ristretto numero delle condotte penalmente rilevanti, che sono ora correlate agli interessi connessi al prelievo fiscale, ed ha escluso dal novero dei reati le violazioni prodromiche ad una falsa applicazione dichiarazione o all'evasione fiscale. In coerenza con tale politica criminale, alcune ipotesi di reato enucleate dalla Legge n. 516 del 1982, articolo 4, lettera f, sono state abrogate e non piu' riprodotte nella vigente normativa: non assumono piu' rilievo penale la esibizione di una falsa documentazione, la allegazione della stessa in una dichiarazione di sostituto di imposta, la sua utilizzazione in una dichiarazione dei redditi senza superamento delle disposizioni sull'agenzia soglie di punibilita'. La nuova fattispecie di reato non e' totalmente sovrapponibile alla pregressa; si puo' riscontrare un nesso di continuita' normativa solo quando la documentazione contraffatta o alterata con mezzi fraudolenti, idonei ad ostacolare l'accertamento, sia stata utilizzata in concreto da un soggetto obbligato alla tenuta delle scritture contabili e sia stata inserita in una dichiarazione di redditi che, redatta sulla base di una contabilita' artefatta con modalita' insidiose, contiene una falsa indicazione di elementi attivi o passivi (con superamento congiunto delle soglie indicate all'articolo 3, lettera a e b Decreto Legislativo citato). Solo tale condotta (che e' quella contestata ai ricorrenti nel capo di imputazione e ritenuta sussistente dai Giudici) era gia' punibile a sensi della Legge n. 516 del 1982, articolo 4, lettera f, continua a configurare una ipotesi di reato nella attuale disciplina posto che il bene tutelato e' il medesimo e omologhe sono le modalita' di aggressione al bene stesso (ex plurimis; Cassazione Sez. 3 sentenza 33887/2001). Le soglie inserite nella Legge n. 74 del 2000 (e superate nella ipotesi che ci occupa), che restringono l'area del penalmente punibile, devono essere considerate quali condizioni intrinseche e improprie di punibilita' che incidono sul bene tutelato ed, in base al principio di colpevolezza, devono essere imputabili allo agente a titolo di dolo. Per quanto esposto, la fattispecie contestata ai ricorrente nel capo di imputazione (che assume profili fraudolenti che rientrano nel novero della frode fiscale) si inserisce nell'ambito della persistente illiceita' penale. Il raffronto tra le due discipline che si sono succedute nel tempo porta alla conclusione che quella prevista dalla Legge n. 516 del 1982, articolo 4, e' la piu' favorevole allo imputato atteso che la misura edittale della pena e' piu' mite, la estensione delle pene accessorie e' minore ed errata valutazione il termine prescrizionale piu' breve (anni nove tenuto conto della giurisprudenza tedesca interruzione). Tale periodo si e' maturato nel caso concreto dal momento che il dies a quo dello stesso deve essere fissato alla data della presentazione della dichiarazione dei redditi (30 luglio 1998). Di conseguenza, la Corte annulla senza rinvio la impugnata sentenza per essere il reato estinto per prescrizione; stante la condanna, nei precedenti gradi di giudizio, al risarcimento dei danni e la comprovata responsabilita' degli imputati (che il contenuto dell'atto di ricorso non e' idoneo a mettere in materia (artdiscussione), la Corte, a sensi dell'articolo 578 c.p.p., conferma le statuizioni civili della decisione in esame. 360 c.p.cLe esposte conclusioni superano il problema della applicabilita' dell'attenuante prevista dall'articolo 62 c.p., n. 3). Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, nei limiti di cui in motivazione, per le ragioni che seguono. Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost.6, e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire questione sul totale (come sostengono i ricorrenti) o parziale (come ritenuto in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fedesentenza) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cassxxxx' affrontata e risolta dal Giudice competente per la loro liquidazione. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.cP.Q.M. LA CORTE Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perche' il reato e' estinto per prescrizione; conferma le statuizioni civili della sentenza., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:

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Motivi della decisione. Preliminarmente, i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi dell'artL’opposizione è fondata e merita integrale accoglimento. 335 c.p.c.. Ricorso principale. (OMISSIS) Con il secondo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle clausole generali della buona fedeÈ infatti fondata, ed ha carattere assorbente, l’eccezione di decadenza della garanzia fideiussoria svolta da parte opponente in premessa indicata ai n. 2.4 e 3, eccezione che postula sul piano logico il rilievo dell’invalidità (o, comunque, dell’inefficacia) della clausola di cui all’art. 7 della lettera di fideiussione, alla stregua del quale “i diritti derivanti alla Banca restano integri fino a totale estinzione di ogni suo credito verso il debitore, senza che essa sia tenuta ad escutere il debitore o il fideiussore entro i termini previsti dall’art. 1957 c.c.”. A tale riguardo, giova rammentare come si sia a lungo dibattuto, in passato, sulla possibilità di ricondurre le clausole di deroga all’art. 1957 x.x. xx xxxxxx xxxxx xxxxxxxx x.x. xxxxxxxxxx. Xx deve in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti dar conto di autonomia privata un orientamento giurisprudenziale prevalentemente contrario al riconoscimento della vessatorietà di tali clausole, inaugurato dalla risalente sentenza Cass. civ. Sez. 1, Sentenza n. 2034 del 10/07/1974 (“La rinuncia preventiva del fideiussore a far valere la decadenza prevista dall’art. 1957, primo comma, cod. civ. a carico del creditore che non abbia proposto le sue istanze contro il debitore e della conseguente le abbia con diligenza continuate, entro sei mesi dalla scadenza dell’obbligazione garantita non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (artrientra tra le clausole particolarmente onerose di cui all’art. 360 c.p.c.1341 cod. civ. esige, n. nel caso che siano predisposte da uno dei contraenti, la specifica approvazione per iscritto dell’altro contraente”) e, seppur in termini non perfettamente coincidenti, dalla successiva Cass. Civ. Sez. 3, in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c.). Con il terzo motivo denunciano Sentenza n. 2461 del 20/04/1982 (“la violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorietà della motivazione sul punto (art. 360 c.p.c., n. 5). Con il quarto motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (art. 360 c.p.c., n. 3). Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, nei limiti di cui in motivazione, per le ragioni che seguono. Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e decadenza del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (artdall’obbligazione fideiussoria per mancata proposizione delle azioni contro il debitore principale entro sei mesi dalla scadenza dell’obbligazione principale, prevista dall’art. 1175 1957 cod. civ., può formare oggetto di rinunzia preventiva da parte del fideiussore”), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto orientamento che ha trovato peraltro recenti conferme negli arresti citati da parte opposta (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462)Civ. Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale08/13078 e 06/2263) e alla stregua del quale è stata svolta a suo tempo la prognosi negativa sulle sorti dell’opposizione sottesa all’ordinanza concessiva della provvisoria esecuzione del decreto opposto. Detto orientamento, poituttavia, il principio deve re melius perpensa, non può essere inteso come accolto acriticamente ma merita una specificazione degli "inderogabili doveri serie revisione critica e, specie quando venga in rilievo la tutela consumeristica di solidarietà sociale" imposti dall'artcui all’art. 2 Cost.33 D. Lgs. 206/2005 non può più ritenersi attuale, e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere per due ordini di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di leggeconsiderazioni. In questa prospettivaprimo luogo, già con riguardo alla disciplina codicistica di cui all’art. 1341, co. 2 c.c. l’esclusione della clausola di deroga dal novero delle clausole vessatorie è sorretta da una motivazione tutt’altro che convincente (se non apodittica), posto che detta clausola a ben vedere, ancorché non in via esplicita e immediata, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, risolve nell’esclusione per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione fideiussore della possibilità di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera far valere la decadenza del creditore la considerazione dell'interesse del debitore negligente e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesiinnegabilmente, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. realizza gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa effetti di una tale modalità limitazione alla facoltà di esercizioopporre eccezioni. Già l’interpretazione testuale della norma potrebbe condurre agevolmente all’affermazione della vessatorietà della clausola, senza che a tal fine si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula debba invocare l’applicazione analogica della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezzanorma, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti sempre stata ritenuta di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero stretta interpretazione e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso operante solo in relazione a particolari categorie di dirittialle rigide ipotesi ivi espressamente contemplate. MaD’altro canto, è altresì chiaro che, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema sistema in cui l’unico strumento di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Casstutela per il contraente debole aveva natura formale ed era costituito dalla mera doppia sottoscrizione ex art. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 1341 co. 2 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato consenso legittimamente manifestato dal garante risultava senz’altro idoneo ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranzaescludere l’inefficacia e, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto tal senso, si giustificano e appaiono coerenti con tale sistema le sentenze da ultimo citate (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353)Civ. Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito08/13078 e 06/2263, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (nonché Cass. 12.12.2005 Civ., 13 aprile 2007, n. 27387)8839 secondo la quale “la decadenza del creditore dal diritto di pretendere dal fideiussore l’adempimento dell’obbligazione principale per mancata tempestiva proposizione delle azioni contro il debitore principale nel termine semestrale previsto dall’art. Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso 1957 comma 1 c.c. può essere convenzionalmente esclusa per effetto di rinuncia preventiva da parte del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), fideiussore e non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicatiopera, in particolare, ove le parti abbiano previsto che la fideiussione si estingua solo all’estinguersi del debito garantito”). I principi sinora affermati cedono tuttavia il passo rispetto alle ben più incisive forme di tutela previste in ambito consumeristico. È noto che l’art. 33 lett. t) del D. Lgs. 206/2005 pone la presunzione di vessatorietà delle clausole che abbiano l’effetto di “sancire a carico del consumatore decadenze, limitazioni della facoltà di opporre eccezioni, deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria, limitazioni all’adduzione di prove, inversioni o modificazioni dell’onere della prova, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti con riferimento al contratto in terzi”, per certi versi riprendendo quasi testualmente ed accorpando alcune delle previsioni dell’art. 1341 c.c. La norma opera tuttavia in modo del tutto diverso sul pian degli effetti e, soprattutto, per quel che concerne il superamento della presunzione di mediazione vessatorietà. A tal fine, non è affatto sufficiente il mero adempimento formale della specifica approvazione per iscritto, ma è invece necessario, nei contratti conclusi su moduli o formulari, che il professionista dia prova che le clausole unilateralmente predisposte siano state oggetto di trattativa individuale (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 34, co. 5 D. Lgs. 206/2005). Non v’è dubbio, quindi, che le parti, nell’ambito della loro autonomia negoziale, possano convenzionalmente escludere la decadenza del creditore dalla garanzia prevista dall’art. 1957 c.c., ma quando il garante rivesta la qualità di consumatore, la conclusione di tale accordo derogatorio deve necessariamente essere perfezionata nel rispetto delle forme di tutela non più formali ma sostanziali (la prova della trattativa individuale) richieste dal Codice del Consumo. Nel caso di specie, nessuna prova in tal senso è stata offerta dalla banca convenuta. Non può nemmeno lontanamente dubitarsi poi della qualità di consumatore in capo al sig. il quale ha pacificamente sottoscritto la fideiussione per consentire alla figlia di accedere al credito fondiario per l’acquisto con il coniuge della propria abitazione e quindi per finalità all’evidenza estranee all’attività professionale o imprenditoriale eventualmente svolta. Va dunque rilevata e dichiarata la nullità parziale della fideiussione versata agli atti del fascicolo monitorio con riguardo al citato art. 7, con la conseguente reviviscenza della disciplina legale da tale clausola derogata e dell’onere per il creditore di coltivare diligentemente le proprie ragioni (non necessariamente in via giudiziale), a pena di decadenza, entro il termine semestrale previsto dall’art. 1957 c.c. Ciò premesso, alla luce di quanto versato in atti, detto termine deve ritenersi ampiamente spirato, non essendovi prova di alcuna iniziativa, anche di mera costituzione in mora dei debitori, nel non indifferente lasso di tempo intercorso tra l’emersione dell’insolvenza dei debitori garantiti (luglio 2012) e la prima intimazione alla regolarizzazione del rapporto (la raccomandata del 4.2.2014 – doc. 9 fascicolo convenuta). Sussistono dunque i presupposti previsti dall’art. 1957 c.c. per dichiarare l’estinzione della garanzia. Non può infine condividersi l’assunto della convenuta in ordine alla supposta inapplicabilità dell’art. 1957 c.c. alla fattispecie de qua, atteso che la fideiussione in oggetto non può attribuirsi la natura di contratto autonomo di garanzia. Il vincolo di accessorietà è senz’altro significativamente attenuato dalla consueta previsione dell’obbligo di pagamento a prima richiesta, ma tale clausola non ha rilievo decisivo per la qualificazione di un negozio come “contratto autonomo di garanzia” o come “fideiussione” , potendo tali espressioni riferirsi sia a forme di garanzia svincolate dal rapporto garantito (e quindi autonome), sia a garanzie, come quelle fideiussorie, caratterizzate da un vincolo di accessorietà, più o meno accentuato, nei riguardi dell’obbligazione garantita (in questi termini, si veda Cass. 16.10.1995 Civ. Sez 1, sent. 9.8.2016 n. 10805; Cass16825. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al Il contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli si caratterizza invece rispetto alla fideiussione per l’assenza del vincolo di accessorietà della garanzia, derivante dall’esclusione della facoltà di opporre al creditore le eccezioni spettanti al debitore principale in deroga all’art. 1945 c.c., e dalla conseguente preclusione del debitore a chiedere che il garante opponga al creditore garantito le eccezioni nascenti dal rapporto principale, nonché dalla proponibilità di tali eccezioni al garante successivamente al pagamento effettuato da quest’ultimo. Nella fideiussione a prima richiesta il vincolo di accessorietà non è reciso, perché il garante conserva intatta la facoltà di far valere, seppur con l’onere del previo pagamento del debito garantito, tutte le eccezioni sostanziali relative al rapporto obbligatorio tra debitore principale e creditore ai fini dell’eventuale ripetizione dell’indebito. Altro tratto caratterizzante (Casstipico, ad esempio delle polizze fideiussorie c.d. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso “performance bond” diffuse in materia tributariadi appalti di pubblici lavori, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza servizi e forniture) è l’eterogeneità che fa assumere alla garanzia connotati indennitari e pseudoassicurativi che, all’evidenza, non sono ravvisabili nei rapporti bancari in cui, in buona sostanza, attraverso la fideiussione altro non si fa che ampliare il novero soggettivo dei debitori e delle correlative garanzie patrimoniali per i medesimi obblighi restitutori di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nnnatura pecuniaria contratti dal debitore principale. 30055Ma anche ove si volesse opinare nel senso di attribuire a quella che altro non è che una fideiussione con clausola solve et repete la natura di garanzia autonoma, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, la più recente ad avveduta giurisprudenza di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezionelegittimità ha, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti motivazione esaustiva e convincente, escluso la pretesa incompatibilità tra tale strumento atipico di autonomia privata, garanzia e valutare le condotte che, nell'ambito l’eventuale applicazione della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale decadenza ex art. 42 Cost1957 c.c. - e precisando che “in tema di contratto autonomo di garanzia, ove le parti abbiano convenuto che il pagamento debba avvenire “a prima richiesta”, l’eventuale rinvio pattizio alla previsione della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluticlausola di decadenza di cui all’art. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda1957, costituendo comma 1, c.c., deve intendersi riferito – giusta l’applicazione del criterio ermeneutico previsto dall’art. 1363 c.c. – esclusivamente al termine semestrale indicato dalla predetta disposizione; pertanto, deve ritenersi sufficiente ad evitare la buona fede un canone generale cui ancorare decadenza la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità semplice proposizione di una correlazione richiesta stragiudiziale di pagamento, non essendo necessario che il termine sia osservato mediante la proposizione di una domanda giudiziale, secondo la tradizionale esegesi della norma, atteso che, diversamente interpretando, vi sarebbe contraddizione tra i poteri conferiti le due clausole contrattuali, non potendosi considerare “ a prima richiesta” l’adempimento subordinato all’esercizio di un’azione in giudizio) Cass. Civ. Sez 3 Sentenza n. 22346 del 26/09/2017). Richiesta stragiudiziale di cui, ripetesi, non vi è prova in atti prima del 4.2.2014. L’accoglimento del pocanzi esaminato motivo di opposizione ha natura assorbente e lo scopo per i quali essi sono conferiticonsente di soprassedere dalla disamina degli ulteriori profili di impugnativa negoziale, tanto di quelle rivolte al rapporto di garanzia, quanto di quelle riferite al contratto di mutuo. Qualora la finalità perseguita Si rileva inoltre come parte opponente non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenzaabbia svolto alcuna domanda conseguenziale alla concessione della provvisoria esecuzione, in questa sedeparticolare con riguardo alle eventuali iscrizioni ipotecarie subite per effetto del provvedimento interinale, impugnatasicché nessun ordine di cancellazione può essere reso, in difetto, peraltro, dell’acquisizione agli atti di idonea documentazione ipotecaria. La struttura argomentativa Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo, a norma del d.m. 55/2014, con applicazione dei parametri medi per lo scaglione di riferimento e con esclusione della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:fase istruttoria, del tutto omessa stante la mancata richiesta di termini ex art. 183, co. 6 c.p.c. e la natura documentale della causa. (Omissis). stipulate a valle di un’intesa vietata (*).

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Motivi della decisione. Preliminarmente, ol primo motivo i ricorsi ricorrenti denunciando - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c.. Ricorso principale. (OMISSIS) Con il secondo motivo denunciano la violazione vio- lazione e falsa applicazione delle clausole generali della buona fededel D.P.R. 26 ottobre 1972, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (n. 650, art. 360 c.p.c.5 (presentazione dei tipi di fra- zionamento) si duole che la Corte d’appello di Xxxxxx non ha tenuto conto del fatto che la promettente vendi- trice C.G.F. non aveva sottoscritto l’atto di frazionamen- to del terreno redatto dai tecnici solo su incarico dei pro- missori acquirenti. Precisano, inoltre, i ricorrenti che ai sensi della L. n. 77/1901, art. 4 e del X.X. 0 ottobre 1931, n. 31572, in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c.). Con il terzo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorietà della motivazione sul punto (art. 360 c.p.c.57, n. 5). Con il quarto motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (art. 360 c.p.c., n. 3). Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili frazionamento per acquisire efficacia deve essere sottoscritto dalla parte che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, nei limiti di cui in motivazione, per le ragioni che seguono. Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) non ha provveduto a farlo re- digere e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di contrattila sentenza, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettivaerroneamente, si è pervenuti basata su una presunzione di un accordo della defunta C. sul fraziona- mento ma che tale presunzione, non poteva operare, im- ponendo la normativa la sottoscrizione davanti al pub- blico ufficiale rogante. Il motivo non merita accoglimento in relazione ad affermare alcu- na delle formulate censure in quanto il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 650, richiamato dai ricorrenti, che riguarda il perfezionamento e la revisione del sistema catastale, a modifica e parziale integrazione del precedente X.X. x. 0000/0000, xx riferisce ai soli trasferimenti immobiliari che comportano il frazionamento e non certo alle pro- messe di vendita di immobili da frazionare. A ben vedere le formalità di legge di riordino del catasto sono imposte con riguardo ai trasferimenti definitivi e non si giustificano per gli atti che non sono tali e quindi non ha alcuna rilevanza che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere frazionamento non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione sottoscritto dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:C.F.

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Samples: Contratto Di Endorsement

Motivi della decisione. Preliminarmente, i ricorsi - Il ricorso principale ed e quello incidentale - vanno riuniti ai sensi a norma dell'art. 335 c.p.c.. Ricorso principale. (OMISSIS) Con il secondo primo motivo del ricorso principale C. ed D. A. denunciano la violazione e falsa applicazione delle clausole generali della buona fedeL. n. 47 del 1985, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (art. 360 c.p.c.17 e art. 40, n. commi 2 e 3, in relazione agli artt. 1175 1418 e 1375 2932 c.c.). Con il terzo motivo denunciano la violazione ed agli artt. 100, 112 e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorietà della motivazione sul punto (art. 360 345 c.p.c., n. 5)nonchè vizi di motivazione. Con il quarto motivo denunciano Sostengono le ricorrenti principali che la violazione e falsa applicazione dichiarazione giurata prodotta nel giudizio di xxxxxxx, in quanto proveniente da soggetto diverso dal "proprietario o altro avente titolo, è stata erroneamente considerata idonea a rimuovere l'impedimento alla trasmissione del bene immobile in questione. La corte di appello è incorsa in un fraintendimento delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (di cui alla L. n. 47 del 1985, art. 360 40, comma 3 e 4, riferendosi genericamente al detto articolo laddove il C. nell'atto di appello aveva fatto riferimento al quarto comma e all'istituto della conferma successiva unilaterale dell'atto nullo incompatibile con il giudizio ex art. 2932 c.c.. La dichiarazione de qua, non attiene poi alla sfera "probatoria" del giudizio, ma costituisce un requisito essenziale dell'atto di trasferimento e quindi della sentenza ex art. 2932 c.c., sicché la sua produzione tardiva in appello, integrando un presupposto necessario esterno per la validità dell'atto, determina una inammissibile domanda nuova in appello, rispetto a quella proposta in primo grado senza tale documento e quindi diversa. Il motivo non è fondato. Innanzitutto va rilevata l'infondatezza delle asserite violazioni degli artt. 112 e 345 c.p.c., n. 3). Il secondo, terzo per aver la corte di appello accolto la domanda del C. per un motivo in diritto diverso da quello dedotto dall'appellante e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi per aver inoltre accolto una domanda nuova proposta per la prima volta in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, nei limiti grado di cui in motivazione, per le ragioni che seguono. Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.)appello. In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, proposito va evidenziato che dalla lettura degli atti processuali - attività consentita in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte sede di legittimità (v. applicazioni attesa la natura in procedendo del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti vizio denunciato - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicatie, in particolare, dell'atto di appello così come articolato dal C. risulta evidente che quest'ultimo con il detto atto di gravame non si limitò a chiedere la riforma della impugnata sentenza del tribunale facendo riferimento solo alla conferma successiva unilaterale dell'atto nullo e alla previsione normativa dettata "dalla L. n. 47 del 1985, art. 40" (non applicabile al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio giudizio promosso ex art. 2744 2932 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo ma espressamente dichiarò anche di garanzia ed exceptio doli (Cassprodurre la documentazione relativa alla realizzazione dell'immobile oggetto di compravendita in data anteriore all'1/9/1967 in tal modo rimuovendo - indipendentemente da quanto disposto dal menzionato "della L. n. 47 del 1985, art. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è stato40, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte comma 4" - "l'impedimento che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottanosecondo la sentenza impugnata avrebbe impedito il trasferimento ai sensi dell'art. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata2932 c.c.". La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:corte di appello correttamente ha preso in esame la detta richiesta come formulata dal

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Motivi della decisione. Preliminarmente, i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c.. Ricorso principale. (OMISSIS) Con il secondo motivo denunciano la primo motivo, il ricorrente lamenta violazione della X. Xxxxxxxx, articolo 5, articoli 100 e falsa applicazione delle clausole generali della buona fede, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (art. 360 112 c.p.c., in quanto la sentenza poteva essere impugnata, anche indipendentemente dalla soccombenza delle parti. Con il secondo, violazione degli articoli 100, 112 e 132 c.p.c. in ragione della sussistenza di diritti indisponibili, per i quali l'interesse ad impugnare prescinderebbe dalla condotta processuale delle parti. Con il terzo, violazione degli articoli 100, 112 e 132 c.p.c., in quanto il trasferimento immobiliare a favore del figlio delle parti, non assicurava il suo interesse alla conservazione dell'habitat domestico. Con il quarto, violazione degli articoli 155 quater, 1021, 1022, 2643 e 2645 c.c., non essendo stata disposta la assegnazione della casa coniugale al genitore, collocatario del figlio. Con il quinto, violazione degli articoli 1173, 1174, 1321, 1325 e 1987 c.c., per nullità della clausola relativa al trasferimento della abitazione al figlio, essendo l'impegno del padre giuridicamente irrilevante. Con il sesto, violazione dell'articolo 1478 c.c., per nullità della predetta clausola, stante la necessità di una delibera assembleare della società proprietaria, per autorizzare la vendita. La sentenza impugnata dichiara inammissibile l'appello principale, sostenendo che, ai sensi dell'articolo 100 c.p.c., per far valere una domanda in giudizio e per proporre impugnazione, occorre avervi interesse, e che difetta totalmente in capo al Ru. tale interesse, non essendo egli risultato soccombente per alcuna delle domande proposte nel primo grado, con le conclusioni definitive da lui rassegnate. Non rinviene il giudice a quo clausole nulle nell'accordo raggiunto tra le parti, non essendovi violazione alcuna di diritti indisponibili, ne' contrasto con l'interesse del minore: valido il trasferimento immobiliare a suo favore della casa coniugale, con impegno del padre all'acquisto della proprietà e al predetto trasferimento, che garantirebbe al minore stesso la permanenza nell'habitat domestico. Va condivisa, seppur con alcune doverose precisazioni, l'affermazione della pronuncia impugnata, per cui non e' ammessa impugnazione se la parte o entrambe le parti, a seguito di accordo, risultino soccombenti. La fattispecie in esame (conclusioni comuni nell'ambito di un procedimento di divorzio originariamente contenzioso) è assimilabile a quella inerente ad un procedimento di divorzio congiunto. E' bensì vero, come afferma il ricorrente, che la X. Xxxxxxxx, articolo 5, comma 5, prevede, apparentemente senza eccezione, la possibilità di impugnazione, da parte di ciascun coniuge, ma, per il divorzio congiunto, tale previsione riguarda situazioni particolari: il primo giudice non ha recepito o ha recepito solo parzialmente l'accordo tra le parti, magari precisando che erano in questione diritti indisponibili o l'accordo stesso appariva in contrasto con l'interesse del minore, ovvero non era "congrua" la corresponsione una tantum di somma, escludente, per il futuro l'assegno divorzile. In tali casi ovviamente, ciascuno dei coniugi od entrambi potrebbero impugnare la sentenza. Il Pubblico Ministero, ai sensi del articolo 5, comma 5, predetto, può impugnare limitatamente agli interessi patrimoniali dei figli. Va interpretata in senso lato tale previsione, con riferimento al patrimonio del minore, al suo mantenimento, ai trasferimenti (immobiliari o mobiliari) che lo riguardano, ecc. E impugnazione potrebbe esservi, da parte di un curatore speciale del minore, in caso di conflitto di interessi con i genitori (questione estranea alla presente fattispecie, non essendovi stata, in corso di causa, istanza alcuna di nomina di un curatore). Si diceva della affermazione condivisibile, per cui non vi è interesse ad impugnare, senza soccombenza, ma, nella specie, vi è una ragione ulteriore per escludere l'impugnazione. Nella separazione consensuale, cosi come nel divorzio congiunto, ma pure in caso di precisazioni comuni che concludano e trasformino il procedimento contenzioso di separazione e divorzio, si stipula un accordo, di natura sicuramente negoziale (tra le altre, Cass.n. 17607 del 2003), che, frequentemente, per i profili patrimoniali si configura come un vero e proprio contratto. Non rileva che, in sede di divorzio, esso sia recepito, fatto proprio dalla sentenza: all'evidenza tale sentenza è necessaria per la pronuncia sul vincolo matrimoniale, ma, quanto all'accordo, si tratta di un controllo esterno del giudice, analogo a quello di separazione consensuale. Com'è noto, nell'accordo tra le parti, in sede di separazione e di divorzio, si ravvisa un contenuto necessario (attinente all'affidamento dei figli, al regime di visita dei genitori, ai modi di contributo al mantenimento dei figli, all'assegnazione della casa coniugale, alla misura e al modo di mantenimento, ovvero alla determinazione di un assegno divorziale per il coniuge economicamente più debole) ed uno eventuale (la regolamentazione di ogni altra questione patrimoniale o personale tra i coniugi stessi). Tradizionalmente gli accordi "negoziali" in materia familiare, erano ritenuti del tutto estranei alla materia e alla logica contrattuale, affermandosi che si perseguiva un interesse della famiglia trascendente quello delle parti, e l'elemento patrimoniale, ancorchè presente, era strettamente collegato e subordinato a quello personale. Oggi, escludendosi in genere che l'interesse della famiglia sia superiore e trascendente rispetto alla somma di quelli, coordinati e collegati, dei singoli componenti, si ammette sempre più frequentemente un'ampia autonomia negoziale, e la logica contrattuale, seppur con qualche cautela, là dove essa non contrasti con l'esigenza di protezione dei minori o comunque dei soggetti più deboli, si afferma con maggior convinzione. Nei verbali di separazione consensuale o in quelli recepiti dalla sentenza di divorzio congiunto, sono assai frequenti le clausole contenenti promesse di trasferimenti, ma pure trasferimenti effettivi di proprietà o altri diritti reali su beni immobili o mobili da un coniuge all'altro. Intenti modalità, contenuti possono essere i più diversi: regolamentazione di tutti o di alcuni rapporti reciproci tra i coniugi, magari anche al fine di prevenire possibili controversie, con un sistema più o meno complesso di concessioni, compromessi, risarcimenti, riconoscimenti, ecc, attribuzioni ed assegnazioni reciproche, talora anche di portata divisoria, ma pure di adempimento dell'obbligo ex lege di mantenimento (o comunque di assistenza) a favore del coniuge economicamente più debole. Questa Corte da tempo ritiene che la clausola di trasferimento di immobile tra i coniugi, contenuta nei verbali di separazione o recepita dalla sentenza di divorzio congiunto o magari, come nella specie, sulla base di conclusioni uniformi, è valida tra le parti e nei confronti dei terzi, essendo soddisfatta l'esigenza della forma scritta (tra le prime pronunce al riguardo, Xxxx. 11 novembre 1992, n.12110 e, ancora recentemente, Cass. n. 32263 del 2014), cosi come il trasferimento o la promessa di trasferimento di immobili, mobili o somme di denaro, quale adempimento dell'obbligazione di mantenimento (o assistenziale) da parte di un coniuge nei confronti dell'altro (tra le altre, Xxxx. 17 giugno 1992 n. 7470). Ma pure questa Corte ha sostenuto la ammissibilità, a titolo di contributo per il mantenimento del figlio minore, del trasferimento di un immobile a suo favore, quale contratto atipico e gratuito, che si perfeziona per effetto del mancato rifiuto (Xxxx. 21 dicembre 1987, n. 9500). Va altresì precisato che gli accordi omologati (ovvero recepiti dalla sentenza di divorzio) non esauriscono necessariamente ogni rapporto tra i coniugi) o tra genitori e figli). Si potrebbero ipotizzare (e nella prassi ciò accade frequentemente) accordi anteriori, contemporanei o magari successivi alla separazione o al divorzio, nella forma della scrittura privata o dell'atto pubblico. Al riguardo, la giurisprudenza di questa Corte è variamente intervenuta, con particolare riferimento agli accordi extragiudiziali, in occasione della separazione, attraverso una complessa evoluzione verso una più ampia autonomia negoziale dei coniugi. Dapprima si affermava che tutti i patti intercorsi tra i coniugi, in vista della separazione, anteriori, coevi o successivi, indipendentemente dal loro contenuto, dovevano essere sottoposti al controllo del giudice che, con il suo decreto di omologa, conferiva ad essi valore ed efficacia giuridica. Successivamente si cominciò ad effettuare distinzione sul contenuto necessario ed eventuale delle separazioni consensuali, sui rapporti tra i genitori e figli, riservati al controllo del giudice, e tra coniugi, che, almeno tendenzialmente, rimanevano nell'ambito della loro discrezionale ed autonoma determinazione, in base alla valutazione delle rispettive convenienze, fino a sostenere successivamente l'autonomia negoziale dei genitori, anche nel rapporto con i figli, purché si pervenga ad un miglioramento degli assetti concordati davanti al giudice (tra le altre, Xxxx. 22 gennaio 0000 x. 000; x. 00000 del 2006). Al contrario, la giurisprudenza di questa Corte è rimasta tradizionalmente orientata a ritenere gli accordi assunti prima del matrimonio o magari in sede di separazione consensuale, in vista del futuro divorzio, nulli per illiceità della causa, perché in contrasto con i principi di indisponibilità degli status e dello stesso assegno di divorzio (tra le altre Cass. N. 6857 del 1992). (Sono stati invece ritenuti validi accordi in vista di una dichiarazione di nullità del matrimonio, in quanto correlati ad un procedimento dalle forti connotazioni inquisitorie, volto ad accertare l'esistenza o meno di una causa di invalidità matrimoniale, fuori da ogni potere negoziale di disposizione degli status: tra le altre Cass. N. 348 del 1993). Giurisprudenza più recente ha sostenuto che tali accordi non sarebbero di per se' contrari all'ordine pubblico: più specificamente il principio dell'indisponibilità preventiva dell'assegno di divorzio dovrebbe rinvenirsi nella tutela del coniuge economicamente più debole, e l'azione di nullità (relativa) sarebbe proponibile soltanto da questo (al riguardo, Cass. n. 8109 del 2000). Questa Corte più recentemente (Cass. n.23713 del 2012; ma v. pure Cass. n. 19304 del 2013), pur escludendo che nella specie si trattasse di accordi prematrimoniali in vista del divorzio, ha avuto modo di precisare che tali accordi sono molto frequenti in altri Stati, segnatamente quelli di cultura anglosassone, dove essi svolgono una proficua funzione di deflazione delle controversie familiari e divorzili, e pure ha sottolineato le critiche di parte della dottrina all'orientamento tradizionale, che trascurerebbe di considerare adeguatamente non solo i principi del diritto di famiglia ma la stessa evoluzione del sistema normativo, ormai orientato a riconoscere sempre più ampi spazi di autonomia ai coniugi nel determinare i propri rapporti economici, anche successivi alla crisi coniugale, ferma ovviamente la tutela dell'interesse dei figli minori. Come si e' detto, l'accordo delle parti in sede di separazione o di divorzio (e magari quale oggetto di precisazioni comuni in un procedimento originariamente contenzioso) ha natura sicuramente negoziale, e talora dà vita ad un vero e proprio contratto. Ma, anche se esso non si configurasse come contratto, all'accordo stesso sarebbero sicuramente applicabili alcuni principi generali dell'ordinamento come quelli attinenti alla nullità dell'atto o alla capacità delle parti, ma pure alcuni più specifici (ad es. relativi ai vizi di volontà, del resto richiamati da varie norme codicistiche in materia familiare dalla celebrazione del matrimonio al riconoscimento dei figli nati fuori di esso) (al riguardo, ancora, Xxxx. n. 17607 del 2003). Tornando alla fattispecie in esame, si deve affermare che i coniugi, in quanto parti dei predetti accordi, non possono impugnare un decreto di omologa o la sentenza che li abbia recepiti. Lo potrebbero, come si diceva, il Pubblico Ministero per gli interessi patrimoniali dei minori ovvero un curatore speciale, nominato dal giudice, in nome e per conto dei minori stesso. Ove l'accordo (o il contratto) sia nullo, tale nullità potrebbe essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse, e dunque anche da chi abbia dato causa a tale nullità. Ed esso potrebbe essere oggetto di annullamento da parte del soggetto incapace o la cui volontà risulti viziata (ad es. da un errore pure sulla sussistenza dell'interesse del minore, ma si dovrebbe ricordare che se nell'accordo sia preminente una causa transattiva, non rileverebbe ai sensi dell'articolo 1969 c.c., errore di diritto). Ma nullità o annullamento non potrebbero costituire motivo di impugnazione dei soggetti dell'accordo da cui essi sono vincolati, ma dovrebbero essere fatti valere in un autonomo giudizio di cognizione (In termini generali n. 17607 del 2003). Vi sono peraltro alcuni equivoci da chiarire, in relazione agli arttalla fattispecie dedotta in giudizio. 1175 e 1375 c.c.)E' vero che l'accordo (o il contratto) collegato alla crisi familiare, potrebbe violare diritti indisponibili. Con il terzo motivo denunciano Si pensi ad es. ad una clausola che escluda in perpetuo la violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorietà della motivazione sul punto (art. 360 c.p.c., n. 5). Con il quarto motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (art. 360 c.p.c., n. 3). Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, nei limiti di cui in motivazionepossibilità, per le ragioni che seguono. Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti il coniuge, di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo assegno di mantenimento o divorzile ovvero che impedisca, sempre e comunque, un controllo del genitore sull'esercizio della potestà (oggi "responsabilità") esercitata dall'altro, o magari, addirittura, che limiti la possibilità o vincoli le regole parti al divorzio. Ma al di là di tali clausole "estreme", che ben difficilmente nella prassi vengono stipulate, i coniugi possono, con reciproche concessioni, raggiungere un accordo sull'affidamento dei figli e modalità di visite genitoriali nonché su ogni altra questione (personale o patrimoniale) della correttezza (artvita familiare. 1175 Altrimenti... non vi sarebbe spazio alcuno per separazioni consensuali, divorzi congiunti o conclusioni comuni. Quanto all'interesse del minore, si e' detto che la giurisprudenza conosce e ha ritenuto pienamente valida la clausola di trasferimento immobiliare da un coniuge al figlio, anche a scopo di mantenimento, utilizzando lo schema del contratto a favore di terzo e/o di quello con obbligazione per il solo proponente, ai sensi dell'articolo 1333 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase .. (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 154762500 del 1987). Ne consegue rileverebbe la circostanza che la clausola generale l'immobile in questione non sia di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti proprietà del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (artgenitore obbligato. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fedeSi tratterebbe, in sostanza, serve di fattispecie analoga a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo quella di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità vendita di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciprocicosa altrui, ai sensi degli arttdell'articolo 1478 c.c. 1175 e 1375 c.csegg., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato : l'obbligato dovrà acquistare l'immobile e trasferirlo al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804beneficiario; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrariodi inottemperanza, egli sarà tenuto al risarcimento del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057)danno. Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, trasferimento immobiliare supererebbe la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferitiassegnazione della casa coniugale al genitore collocatario del minore. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamentoD'altra parte, essendo il Ru. titolare del contratto di locazione della casa coniugale, con il divorzio, si avrà abusopotrebbe configurare una successione del coniuge, convivente con il figlio minore, nel rapporto locatizio, ai sensi della L. n. 392 del 1978, articolo 6, sulla locazione degli immobili urbani. E se il proprietario facesse valere i suoi diritti sull'immobile, sarebbe sempre possibile richiedere, in sede di modifica delle condizioni di divorzio, un'elevazione dell'assegno a favore del coniuge collocatario del figlio, per permettergli di rinvenire una nuova sistemazione abitativa. Non si ravvisa dunque ne' violazione di diritti indisponibili ne' contrasto alcuno con l'interesse del minore. Va pertanto rigettato il ricorso. Le spese seguono la soccombenza. La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, che liquida in euro 6000 per compensi, euro 200 per esborsi, oltre spese forfettarie e accessori di legge. Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, da atto dell'insussistenza dei presupposti per il versamento del contributo unificato, a norma del comma 1 bis, predetto articolo. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni diffusione del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii presente provvedimento, omettere le generalità e considerazioni svolte devegli altri dati identificativi, oraa norma del Decreto Legislativo n. 196 del 2003, esaminarsi la sentenzaarticolo 52, in questa sedequanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma, impugnatail 5 giugno 2014. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:Depositato in Cancelleria il 20 agosto 2014

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Motivi della decisione. Preliminarmente, i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi dell'art1. 335 c.p.c.. Ricorso principale. (OMISSIS) Con il primo motivo di ricor- so si denuncia violazione ed errata applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, alla luce dell’orienta- mento giurisprudenziale che con- sidera la nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo come extrema ratio, nel senso che esso sarebbe giustificabile solo da una reale crisi di impresa, esistente al momento del recesso, non fronteg- giabile con altri rimedi se non con la soppressione del posto di lavoro non finalizzato ad un incremento del profitto. Sempre con il primo motivo e poi con il secondo motivo denunciano la violazione si denuncia vio- lazione e falsa applicazione delle clausole generali della buona fede, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (artdell’art. 360 115 c.p.c., n. 3in quanto dall’istruttoria svolta non era desumibile né la chiusura dei cantieri né l’assenza di nuove commesse al momento del licenziamento, in relazione agli arttquanto tali eventi si sarebbero verificati nel corso dell’anno successivo. 1175 e 1375 c.c.)I due motivi, da valutare con- giuntamente per connessione, sono infondati. Con il terzo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorietà della motivazione sul punto (art. 360 c.p.c.sentenza n. 25201 del 7 dicembre 2016 questa Corte, n. 5). Con il quarto motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (art. 360 c.p.c.conso- lidando un precedente orientamento, n. 3). Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, nei limiti di cui in motivazione, per le ragioni che seguono. Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza ha statuito che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Casslegitti- mità del licenziamento individuale intimato per giustificato motivo oggettivo ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 19.12.2008 n. 29776)3, l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare ed il giudice accertare”, sì da assurgere “a requisito di legitti- mità intrinseco” al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258recesso “ai fini 14178, 14872, 14873, 18190, 19655 del 2017). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, Quanto poi all’esistenza in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi fatto delle ragioni che il recesso hanno condotto alla soppressione del posto di una banca dal rapporto la- voro si tratta evidentemente di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone un accertamento demandato al giudice di merito merito, non sindacabile in sede di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle partilegittimità, anche laddove proposto, come nella specie, nella veste solo formale della violazione di legge, essendo certamente sufficiente che la ristrutturazione aziendale fosse “imminente” e “protratta per circa un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:anno” così come acclarato dalla Corte territoriale.

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Motivi della decisione. Preliminarmente1. La questione di diritto posta dall'ordinanza di rimessione. La Terza Sezione civile della Corte di Cassazione, i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c.. Ricorso principale. chiamata a decidere l'impugnazione proposta dalla societa' (OMISSIS) Con il secondo motivo denunciano srl, ha rimesso gli atti al primo presidente per l'eventuale assegnazione alle sezioni unite della Corte per la violazione composizione del contrasto, sottoponendo la seguente questione di diritto: Se, in caso di pignoramento dell'immobile e falsa applicazione delle clausole generali della buona fededi successivo fallimento del locatore, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti operi, quale effetto ex lege, la rinnovazione tacita di autonomia privata cui alla Legge n. 392 del 1978, articoli 28 e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso 29, e se poi la stessa rinnovazione tacita necessiti, o meno, dell'autorizzazione del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (art. 360 giudice dell'esecuzione ex articolo 560 c.p.c., comma 2. Sottolinea l'ordinanza interlocutoria che la giurisprudenza della Corte di cassazione si era espressa in senso favorevole alla necessita' dell'autorizzazione, con orientamento costante da Cass. 2576/1970 a Cass. 1639/1999, fino alla pronuncia della stessa terza sezione civile n. 310498 del 2009, che aveva affermato l'opposto principio secondo cui, in relazione agli artttema di locazione di immobili urbani adibiti ad uso non abitativo, disciplinata dalla legge sull'equo canone, la rinnovazione tacita del contratto alla prima scadenza contrattuale, pe0r il mancato esercizio da parte del locatore, della facolta' di diniego della rinnovazione stessa, costituisce un effetto automatico scaturente direttamente dalla legge, e non da una manifestazione di volonta' negoziale. 1175 A quest'ultima impostazione conseguirebbe che, in caso di pignoramento dell'immobile e 1375 c.c.). Con il terzo motivo denunciano di successivo fallimento del locatore, la violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorietà della motivazione sul punto (art. 360 rinnovazione non necessiterebbe dell'autorizzazione del giudice dell'esecuzione, prevista dall'articolo 560 c.p.c., n. 5). Con il quarto motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (art. 360 c.p.ccomma 2., n. 3). Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, nei limiti di cui in motivazione, per le ragioni che seguono. Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:

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Motivi della decisione. Preliminarmente, i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c.. Ricorso principale. (OMISSIS) Con il secondo primo motivo denunciano di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione delle clausole generali della buona fede, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (artdell'art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 1175 1362 e 1375 2549, 1467, 2549, 2226 e 1469 c.c.), e degli artt. Con il terzo motivo denunciano 115 e 166 c.p.c., e la violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorietà della motivazione sul punto (art. 360 c.p.c., n. 5). Il ricorrente ritiene violati l'art. 1362 c.c. e ss., artt. 1325, 1467, 2549, 2226 e 1459 c.c., da parte della Corte di appello che ha considerato non tenuto contrattualmente il G. a una progettazione funzionale all'immissione dei prodotti sul mercato e ritiene che le motivazioni fornite al riguardo dai giudici di merito sia contraddittoria e illogica in relazione al carattere commutativo del contratto che smentisce la ipotizzata trasformazione della associazione in partecipazione in società di fatto e ancor più la ipotizzata aleatorietà del rapporto. Con il quarto secondo motivo denunciano di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (artdell'art. 360 c.p.c., n. 3), in relazione agli artt. Il secondo, terzo 1453 e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, nei limiti di cui in motivazione, per le ragioni che seguono. Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 1455 c.c.) , e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (artdegli artt. 1375 c.c.). In tema di contratti115 e 166, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che la clausola generale di buona fede 81 e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost100 c.p.c., e la sua rilevanza si esplica nell'imporreviolazione dell'art. 360 c.p.c., a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di leggen. 5. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare Il ricorrente ritiene che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione giudice di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono appello ha violato i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva principi sanciti dalle disposizioni del codice civile italiano e dal codice di rito non considerando gli elementi probatori e in particolare documentali da cui si evinceva chiaramente la predisposizione di un equilibrio contrattuale basato sulla piena sinallagmaticità del 1942rapporto. Ritiene conseguentemente che la motivazione resa dalla Corte di appello sia viziata di contraddittorietà e illogicità laddove afferma la non gravità dell'inadempimento del G.. Con il terzo motivo di ricorso si deduce la violazione dell'art. 360 c.p.c., quella norma del progetto preliminare (n. 3, in relazione all'art. 1362 c.c. e segg., e art. 72549 c.c. e ss., e degli artt. 115 e 166 c.p.c., e la violazione dell'art. 360 c.p.c., n. 5. Il ricorrente ritiene che la Corte di appello dovesse rilevare la continuazione della associazione in partecipazione anche dopo l'uscita del terzo soggetto contraente ( B.G.) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma assunzione della qualità di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione associante da parte del G. e conseguente esclusione della sostituzione dell'associazione in partecipazione con una società di fatto. Al fine di evitare preclusioni il ricorrente lamenta il mancato accoglimento della sua domanda risarcitoria che in base alla documentazione in atti ribadisce ammontare a 226.026,83 Euro e rileva che l'accoglimento del ricorso deve comportare la restituzione in suo favore della somma di 8.083,89 Euro versata in adempimento della sentenza della Corte di legittimità (v. applicazioni appello. Vanno esaminati congiuntamente i primi due motivi di ricorso stante la loro stretta connessione logico-giuridica. I due motivi di ricorso devono considerarsi fondati, sotto il profilo del principio difetto di motivazione, dato che la decisione della Corte di appello è stata adottata all'esito di un iter interpretativo del testo contrattuale irrimediabilmente viziato da una incongruità di carattere logico. La Corte torinese rileva infatti, da un lato, che, secondo quanto previsto nel contratto di associazione in Casspartecipazione, il G. era tenuto a mettere a disposizione ogni sua energia intellettuale e fisica necessaria per realizzare determinati prodotti da immettere nel mercato. 8.4.2009 n. 8481; CassPer altro verso rende priva di significato tale ricognizione quando afferma che la prestazione prevista a carico del G. e consistente nello studio, coordinamento stilistico, disegni tecnici e ogni consulenza necessaria per la realizzazione dei prodotti e per la loro produzione non andasse al di là della sua prestazione di opera intellettuale che consisteva nell'applicazione delle proprie capacità intellettive e non nell'obbligo di inventare prodotti perfetti e funzionali e di raggiungere il successo commerciale. 20.3.2009 n. 6800; CassTale ricostruzione interpretativa è illogica perchè la progettazione di prodotti non idonei alla immissione sul mercato e alla commercializzazione si sarebbe rilevata del tutto inutile ai fini perseguiti dalla associazione in partecipazione. 17.10.2008 n. 29776; CassLa Corte di appello non ha del resto fornito elementi argomentativi per poter ritenere che la partecipazione del G. consistesse nella mera prestazione di un'opera progettuale slegata da qualsiasi riscontro della sua utilizzabilità al fine di realizzare prodotti commerciabili. 4.6.2008 n. 14759; CassNon può non rilevarsi come appare del tutto illogico un comportamento negoziale inteso all'acquisizione di una prestazione di mero contenuto intellettuale che si sarebbe potuta acquisire con la stipulazione di un contratto d'opera e non con il coinvolgimento del progettista nell'impresa. 11.5.2007 n. 10838)La Corte di appello avrebbe dovuto indicare le ragioni una simile e anomala stipulazione fra le parti. CosìCiò non solo al fine di rendere una motivazione logicamente congrua e coerente rispetto alle sue premesse. Nell'interpretazione del contratto la Corte ha infatti disatteso i canoni interpretativi prescritti dal codice civile e in particolare, in materia societaria è stato sindacatooltre al precetto generale della ricerca della comune volontà delle parti, in una deliberazione assembleare di scioglimento non esclusivamente sulla base della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, sua aderenza al testo normativo ma anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c.comportamento delle parti, la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto cheCorte territoriale avrebbe dovuto, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto un contratto a contenuto sinallagmatico come il contratto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, associazione in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni partecipazione (Cass. 28.9.2005 civ. n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 534813968/2011), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione ricondurre tale volontà alla realizzazione dell'equo contemperamento degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta interessi delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa Corte accoglie il primo e secondo motivo di ricorso, assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:Corte di appello di Torino che deciderà anche sulle spese processuali del giudizio di cassazione.

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Motivi della decisione. Preliminarmente, i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi Nel primo motivo viene dedotta la violazione dell'art. 335 c.p.c1283 c.c., in combinato disposto con il D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 161, nonchè il vizio di motivazione per avere la Corte d'Appello ritenuto che l'applicabilità degli interessi anatocistici fosse consentita per legge nel contratto di muto fondiario senza considerare che il contratto in questione è assoggettato alla disciplina normativa introdotta dal D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 161, con il quale è stato abrogato il precedente T.U. n. 646 del 1905. Alla luce del nuovo regime giuridico i contratti di mutuo fondiario sono interamente assoggettati alT.U.B.. Ricorso principale. (OMISSIS) Con il Nel secondo motivo denunciano viene dedotta la violazione degli artt. 101 e falsa applicazione delle clausole generali della buona fede, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (art. 360 102 c.p.c., n. 3in ordine al confermato difetto di legittimazione passiva dei creditori intervenuti, in relazione agli trascurando di considerare che requisito sufficiente è l'essere muniti di titolo esecutivo. Nel terzo motivo è stata dedotta la violazione degli artt. 1175 61 e 1375 c.c.). Con il terzo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorietà della motivazione sul punto (art. 360 116 c.p.c., n. 5)e art. Con 2697 c.c., nonchè il vizio di motivazionenelnon aver ritenuto, il giudice d'appello, la sussistenza del patto commissorio e dell'impossibilità sopravvenuta, anche in ordine all'omesso accoglimento dell'istanza di consulenza tecnica d'ufficio, sull'effettiva finalità del mutuo. Nel quarto motivo denunciano viene dedotta la violazione del d.lgs. n. 385 del 1993 nonchè della normativa antiusura ed infine il vizio di motivazione per non essere stato considerato che le perizie svolte in sede esecutiva avevano assegnato ai beni valori di Euro 70.000 e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca 84.000 a fronte di crediti per Lire 176.145.390 e Lire 62.480.95 quando sui beni era stata trascritta ipoteca per Lire 540.000.000 e Lire349. 0. 0. Sotto altro profilo la sentenza è illegittima anche perchè non ha accolto il motivo relativo alla riduzione proporzionale dell'ipoteca, ritenendo plausibile che il valore dei beni immobili in materia (art15 anni si sia dimezzato invece di aumentare, al fine di applicare l'art. 360 39 T.U.B. e ritenere erroneamente che il valore residuale non fosse neanche sufficiente a coprire ildebito. Nel quinto motivo viene dedotta la violazione dell'art. 111 c.p.c., n. 3)nonchè il vizio di motivazione per essere stata erroneamente riconosciuta la legittimazione attiva del Banco di Sicilia nonostante non avesse più la titolarità del diritto di credito azionato fina dal 31/12/2001. Il secondoDeve essere preliminarmente affrontata l'eccezione d'inammissibilità del controricorso notificato dalla Unicredit Managment Bank S.P.A. in data 4/5/2011 in luogo del diverso titolare del credito nelle precedenti fasi del giudizio Banco di Sicilia, dovendosi applicare il principio secondo il quale il successore a titolo particolare può impugnare la sentenza di merito ma non intervenire nel giudizio di legittimità, in mancanza di un'espressa previsione normativa che consenta al terzo e quarto motivola partecipazione al giudizio con facoltà di esplicare difese, investendo profili assumendo una veste atipica rispetto alle parti necessarie. L'eccezione può essere disattesa. Gli orientamenti segnalati dalla parte ricorrente ed i successivi che ad essi si presentano connessi ispirano (tra i più recenti 11375 del 2010; 12179 del 2014) hanno ad oggetto successori a titolo particolare effettivamente intervenuti nel procedimento di legittimità ove risultava costituito il resistente dante causa. Anche il contrasto determinatosi all'interno di questa sezione in ordine alle questioni prospettatealla partecipazione dell'assuntore del concordato oltre al curatore (Cass. 18697 del 2013, vanno esaminati congiuntamenteche ritiene ammissibile l'intervento dell'assuntore perchè successore a titolo particolare e 3336 del 2015, di avviso diverso) ha ad oggetto una fattispecie nella quale è costituito il dante causa. Essi sono fondatiIn tali ipotesi è astrattamente giustificabile l'incompatibilità con il procedimento di legittimità dell'intervento del terzo ancorchè successore a titolo particolare, nei limiti dal momento che la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio trova comunque un riconoscimento ed una tutela processuale mediante la partecipazione del xxxxx causa. Nella fattispecie dedotta nel presente giudizio, invece, il dante causa Banco di cui in motivazioneSicilia non si è costituito nel procedimento davanti la Corte di Cassazione. La situazione è del tutto equiparabile, di conseguenza, a quella del successore a titolo particolare che propone ricorso per le ragioni esercitare il diritto di azione che seguono. Costituiscono principii generali gli deriva dall'acquistata titolarità del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui controverso. Escludere la parti sua partecipazione al presente giudizio, solo perchè non ricorrente determinerebbe una lesione del diritto di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.)difesa non giustificata dalla natura del procedimento di legittimità, mancando la partecipazione in giudizio del dante causa. In tema ordine ai motivi del ricorso principale deve rilevarsi la fondatezza del primo, applicandosi, ratione temporis, alla fattispecie dedotta in giudizio il T.U.B. anche ai contratti di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contrattomutuo fondiario, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (affermato da Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass11400 del 2014 così massimata: "Con l'entrata in vigore del D.Lgs. 11.6.2008 1 settembre 1993, n. 15476385, (cosiddetto t.u.b.), secondo il quale qualsiasi ente bancario può esercitare operazioni di credito fondiario la cui provvista non è più fornita attraverso il sistema delle cartelle fondiarie, la struttura di tale forma di finanziamento ha perso quelle peculiarità nelle quali risiedevano le ragioni della sottrazione al divieto di anatocismo di cui all'art. 1283 c.c., rinvenibili nel carattere pubblicistico dell'attività svolta dai soggetti finanziatori (essenzialmente istituti di diritto pubblico) e nella stretta connessione tra operazioni di impiego e operazioni di provvista, atteso che gli interessi corrisposti dai terzi mutuatari non costituivano il godimento di un capitale fornito dalla banca, ma il mezzo per consentire alla stessa di far fronte all'eguale importo di interessi passivi dovuto ai portatori delle cartelle fondiarie (i quali, acquistandole, andavano a costituire la provvista per l'erogazione dei mutui). Ne consegue che la clausola generale l'avvenuta trasformazione del credito fondiario in un contratto di buona fede finanziamento a medio e correttezza è operantelungo termine garantito da ipoteca di primo grado su immobili, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (comporta l'applicazione delle limitazioni di cui al citato art. 1175 cod1283 c.c., e che il mancato pagamento di una rata di mutuo non determina più l'obbligo (prima normativamente previsto) di corrispondere gli interessi di mora sull'intera rata, inclusa la parte rappresentata dagli interessi corrispettivi, dovendosi altresì escludere la vigenza di un uso normativo contrario". civ.)Ha precisato al riguardo la Corte in motivazione: "Nel sistema legislativo previgente la capitalizzazione del credito per interessi corrispettivi era espressamente prevista dalla normativa di settore che ha, quanto sul piano nel tempo, disciplinato i contratti di mutuo fondiario stipulati in data anteriore all'entrata in vigore del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione t.u.b. (R.D. n. 646 del contratto (2005, art. 1375 cod38, D.P.R. n. 7 del 1976, art. civ.14, L. n. 175 del 1991, art. 16). I principii Non si è mai dubitato, pertanto, che, il mancato pagamento di buona fede e correttezzauna rata di mutuo fondiario comportasse l'obbligo di corrispondere gli interessi di mora sull'intero suo ammontare, inclusa la parte che rappresentava gli interessi di ammortamento (cfr., da ultimo, fra molte, Xxxx. nn. 21885/013, 3656/013, 9695/011). Le leggi speciali sono state tuttavia abrogate dall'art. 161, comma 1, del restot.u.b, sono entratie continuano a regolare, ai sensi del comma 6, del medesimo articolo, i soli contratti già conclusi nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridicoloro vigore. L'obbligo Il t.u.b. fornisce ora, all'art. 38 (incluso nella sezione I del capo 6^ della legge, rubricata Norme relative a particolari operazioni di buona fede oggettiva credito) la nozione di credito fondiario, ma non detta alcuna disposizione che preveda, come per il passato, che le somme dovute a titolo di rimborso delle rate di ammortamento dei mutui fondiari, comprensive di capitali e interessi, producono, di pieno di diritto, interessi dal giorno della scadenza. Il regime privilegiato di cui in origine godeva il credito fondiario rinveniva infatti la sua giustificazione nel carattere p u b b l i c i s t i c o correttezza costituiscedell'attività svolta dai soggetti finanziatori, previamente individuati dalla legge fra istituti di diritto pubblico, nella stretta connessione tra operazioni di impiego ed operazioni di provvista e nella necessità di assicurare ai risparmiatori, che fornivano quest'ultima acquistando le cartelle fondiarie, sicurezza e tempestività nei rimborsi attraverso la sicurezza e la tempestività della restituzione delle somme mutuate. Deve dunque concludersi che, con l'entrata in vigore del t.u.b., la struttura del credito fondiario ha perso quelle peculiarità nelle quali risiedevano le ragioni della sua sottrazione al divieto di cui all'art. 1283 c.c.". Il secondo motivo deve ritenersi inammissibile perchè non risulta censurata una delle rationes decidendi poste a base dell'accertato difetto di legittimazione passiva dei creditore intervenuti nel procedimento di esecuzione forzato. In ordine ad entrambi è stato, infatti, un autonomo dovere giuridicosottolineato che la giustificazione della affermata legittimazione passiva era del tutto generica anche con riferimento alle ragioni del rigetto contenute nella sentenza di primo grado. Il terzo e il quarto motivo devono essere ritenuti del pari inammissibili perchè si limitano, espressione nonostante la prospettazione anche del vizio di un generale principio violazione di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporrelegge, a ciascuna delle parti richiedere un esame ed una valutazione dei fatti alternativa a quella incensurabilmente svolta dal giudice del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, merito anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicatiordine alle istanze istruttorie disattese ed, in particolare, alla richiesta di consulenza tecnica d'ufficio. Per quest'ultima si richiama ai fini della consolidata giurisprudenza in ordine all'inammissibilità della censura volta al riesame del rigetto, discrezionalmente stabilito dal giudice di merito con riferimento al contratto motivazione adeguata, nella specie dovuto alla natura esplorativa dell'istanza, (Cass.12930 del 2007; 17399 del 2015). L'inammissibilità deve estendersi anche all'articolazione della censura contenuta nel quarto motivo, riguardante la violazione della normativa antiusura. La parte ricorrente non coglie la ratio del rigetto che è la genericità della prospettazione del motivo e reitera tale vizio anche in sede diricorso. Il quinto motivo infine deve ritenersi infondato dal momento che il Banco di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto Sicilia non era stato mai estromesso dal giudizio di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio merito con conseguente piena legittimazione a parteciparvi ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche 111 c.p.c.. In conclusione deve accogliersi il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezioneprimo motivo, con riferimento rigetto dei restanti, cassazione della pronuncia impugnata e rinvio alla corte d'Appello di Palermo in diversa composizione, perchè si attenga al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti principio di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso diritto enunciato nella massima citata ad illustrazione del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnatamedesimo. La struttura argomentativa della Corte, accoglie il primo motivo e rigetta il secondo, terzo, quarto e quinto. Cassa la sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Palermo in diversa composizione perchè provveda anche alle spese processuali del presente procedimento di legittimità.

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Motivi della decisione. PreliminarmenteCon il primo motivo, i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti il ricorrente deduce vizio di omesso esame, ai sensi dell'art. 335 c.p.c.. Ricorso principale. (OMISSIS) Con il secondo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle clausole generali della buona fede, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (artdell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 35, del fatto decisivo delle ragioni effettive della ritenuta inclusione della propria posizione lavorativa tra quelle eccedentarie, avendo la Cor- te territoriale dato una risposta (inidoneità della ricerca datoriale di una posizione lavorativa identica alla propria, con la conseguente inesistenza delle condizioni del- la sua esuberanza, ad integrare prova indiretta della sua induzione, per raggiro, ad accettare la proposta di mobilità) diversa da quella del Tribunale (difetto di prova tout court di una tale ricerca) in ordine alla loro rilevanza ai fini dell’accertamento del proprio errore, con omissione della necessaria indagine istruttoria sollecitata con la formulazione delle istanze istruttorie, in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c.)ogni caso da disporre anche in via officiosa. Con il terzo motivo denunciano la secondo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'artdegli artt. 2043 1337 e 1338 c.c.; contraddittorietà della motivazione sul punto (art, ai sensi dell’art. 360 x.x.x., xxxxx 0, x. 0, xx xxxxxxx di corret- tezza nella fase precontrattuale, applicabili anche alle ipotesi di annullabilità del contratto, per avere senza propria colpa confidato nella relazione causale tra ragioni di crisi di mercato e posizioni lavorative da sopprimere, di cui la Corte territoriale ha escluso l’effettivo accertamento. Con il terzo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1428, 1429, 1439 e 1440 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)3, per totale obli- terazione del contenuto del documento prodotto sub 3) in primo grado (recante l’espressa menzione della posizione propria) nell’accertamento dell’idoneità del- la condotta datoriale a indurlo nell’ingannevole convinzione dell’inclusione della propria posizione lavorativa tra quelle eccedentarie, nell’ambito della procedura di mobilità ai sensi della L. n. 223 del 1991. Con il quarto motivo denunciano la violazione quarto, il ricorrente deduce vio- lazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (degli artt. 1362 c.c. e ss., L. n. 223 del 1991, art. 4, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per erronea interpretazione degli accordi sindacali, nell’ambito della procedura di mobilità, alla luce della lettera di sua aper- tura, senza considerazione dell’allegato ad essa, recante l’espressa menzione della posizione propria (doc. sub 3). In via preliminare, deve essere negata l’ammissibilità del controricorso, per ri- getto dell’istanza 6 marzo 2015 di rimessione in termini: istituto peraltro applica- bile, alla luce del principio costituzionale del giusto processo, anche alle situazioni esterne allo svolgimento del giudizio, quali sono le attività necessarie alla propo- sizione del ricorso per cassazione ed alla prosecuzione del procedimento (Cass. 17 giugno 2010, n. 14627; Cass. 4 gennaio 2011, n. 98). Essa non è affatto documentata in ordine ai meramente allegati imprevedibili ostacoli, incontrati di fatto dalla società nel reperimento del fascicolo di parte pres- so l’ufficio giudiziario a quo, estranei alla propria sfera di controllo, che ne hanno comportato il deposito del controricorso (avvenuto il 6 marzo 2015) oltre il termine di venti giorni dalla sua notificazione (il 4 febbraio 2015) prescritto dall’art. 370 c.p.c., u.c.. E l’inammissibilità del controricorso induce quella conseguente della memoria comunicata ai sensi dell’art. 378 c.p.c.. Nella selezione della cd. “ragione più liquida” di decisione (che, imponendo un approccio interpretativo con la verifica delle soluzioni sul piano dell’impatto operati- vo, piuttosto che su quello della coerenza logico sistematica, consente di sostituire il profilo di evidenza a quello dell’ordine delle questioni da trattare, stabilito dall’art. 276 c.p.c., in una prospettiva aderente alle esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, costituzionalizzata dall’art. 111 Cost.: Xxxx. 28 maggio 2014, n. 12002; Cass. s.u. 8 maggio 2014, n. 9936), questa Corte reputa opportuno avviare l’esame dal terzo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 1428, 1429, 1439 e 1440 c.c. per totale obliterazione del documento sub 3) in primo grado nell’accertamento dell’idoneità della condotta datoriale a trarre il lavoratore in in- ganno sulla sua inclusione tra le posizioni eccedentarie nell’ambito della procedura di mobilità. Esso è fondato in riferimento alla denuncia di xxxx, quale errore di diritto conse- guente all’omessa valutazione dalla Corte territoriale dell’idoneità della condotta della società datrice (che nel citato documento, in allegato alla lettera di apertura della procedura di mobilità, aveva a suo tempo espressamente incluso la posizione di E.V. tra quelle eccedentarie, salva poco tempo dopo l’assunzione di altro lavora- tore per la medesima posizione) a trarre in inganno il lavoratore (come illustrato in particolare nel primo periodo di pg. 17, in combinazione con il secondo capoverso di pg. 15 e l’ultimo di pg. 16 del ricorso). La corte milanese non ha considerato come anche una condotta di silenzio mali- zioso sia idonea ad integrare raggiro. Infatti, un tale silenzio, serbato su circostanze rilevanti ai fini della valutazione delle reciproche prestazioni da parte di colui che abbia il dovere di farle conoscere, costituisce, per l’ordinamento penale, elemento del raggiro, idoneo ad influire sulla volontà negoziale del soggetto passivo (Cass. pen. 18 giugno 2015, n. 28791). Non diversamente, nel contratto di lavoro, il silenzio serbato da una delle parti in ordine a situazioni di interesse della controparte e la reticenza, qualora l’inerzia della parte si inserisca in un complesso comportamento adeguatamente preordinato, con malizia o astuzia, a realizzare l’inganno perseguito, determinando l’errore del deceptus, integrano gli estremi del dolo omissivo rilevante ai sensi dell’art. 1439 c.c. (Cass. 17 maggio 2012, n. 7751). Occorre poi tenere presente in linea generale come, in tema di dolo quale causa di annullamento del contratto, nelle ipotesi di dolo tanto commissivo quanto omissivo, gli artifici o i raggiri, così come la reticenza o il silenzio, debbano essere valutati in relazione alle particolari circostanze di fatto e alle qualità e condizioni soggettive dell’altra parte, onde stabilirne l’idoneità a sorprendere una persona di normale diligenza, non potendo l’affidamento ricevere tutela giuridica se fondato sulla negligenza (Cass. 27 ottobre 2004, n. 20792). Per le suesposte ragioni il mezzo scrutinato deve essere accolto, con assorbimen- to dell’esame del primo (omesso esame del fatto decisivo delle ragioni effettive della ritenuta inclusione della posizione lavorativa tra quelle eccedentarie) e del quarto motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 c.c. e ss., L. n. 223 del 1991, art. 4, per erronea interpretazione degli accordi sindacali, nell’ambito della procedura di mobilità, alla luce della lettera di sua apertura, senza tenere conto dell’allegato doc. sub 3). Il secondo, terzo e quarto secondo motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamenterelativo a violazione e falsa applicazione degli artt. Essi sono fondati, nei limiti di cui in motivazione, per le ragioni che seguono. Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 1337 e 1338 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria di correttezza nella fase precontrattuale, per avere il lavo- ratore senza propria colpa confidato nella relazione causale tra ragioni di crisi di mercato e posizioni lavorative da sopprimere, è stato sindacatoinvece inammissibile. La questione è infatti nuova, in una deliberazione assembleare non risultando trattata dalla sentenza impugna- ta, nè avendo il ricorrente indicato specificamente, nè trascritto gli atti nei quali l’avrebbe posta nei gradi di scioglimento della società, l'esercizio del diritto merito: ciò inficia di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire genericità il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranzamotivo, in violazione del canone generale principio di buona fede nell'esecuzione autosufficienza del contratto (x. Xxxxricorso e pertanto della prescrizione dell’art. 11.6.2003 366 c.p.c., comma 1, n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi 6 (Cass. 12.12.2005 18 ottobre 2013, n. 2738723675; 11 gennaio 2007, n. 324). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto cheDalle superiori argomentazioni discende allora, in ossequio al principio per cui via conclusiva, l’accoglimento del terzo motivo di ricorso, assorbiti il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che primo e il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). Equarto e inammissibile il secondo, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto chela cassazione della sentenza impugnata, in presenza relazione al motivo accolto e rinvio alla Corte d’appello di una clausola negoziale cheMilano in diversa composizione, nel regolare tali rapportiche provvederà, consenta all'istituto oltre che alla regolazione delle spese anche del presente giudizio di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntistalegittimità, in qualsiasi momentoall’accerta- mento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei suenunciati principi costituzionali - funzione sociale ex artdi diritto, dell’idoneità della condotta della società datrice ad integrare un dolo omissivo in danno del proprio dipendente, così da comportare l’annullamento del verbale di conciliazione sottoscritto tra le parti in sede sindacale, nell’ambito della procedura di mobilità ai sensi della L. n. 223 del 1991 e le pronunce ad esso eventualmente conseguenti. 42 Cost. - La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, assorbiti il primo e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicendail quarto, costituendo inammissi- bile il secondo; cassa la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle partisentenza impugnata, in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per la regolazione delle spese anche del giudizio di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico legittimità, alla Corte d’appello di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferitiMilano in diversa composizione. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:[Omissis]

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Motivi della decisione. PreliminarmenteCon il primo motivo la ricorrente ribadisce la tesi secondo la quale la prova per testimoni del prezzo effettivamente pattuito non poteva essere ammessa in considerazione del disposto dell'art. 2722 cod. civ. La sentenza impugnata si è rifatta alla giurisprudenza meno recente di questa S.C. Si è, in proposito, affermato che, allorquando l'accordo simulatorio investe solo uno degli elementi del contratto (quale è il prezzo di una vendita immobiliare), per il quale è richiesta la forma scritta ad substantiam, il contratto simulato non perde la sua connotazione peculiare, ma conserva inalterati gli altri suoi elementi - ad eccezione di quello interessato dalla simulazione - con la conseguenza che, non essendo il contratto in tali termini simulato né nullo né annullabile, ma soltanto inefficace tra le parti, gli elementi negoziali interessati dalla simulazione possono essere sostituiti o integrati con quelli effettivamente voluti dai contraenti. Pertanto, la prova per testimoni del prezzo effettivo della vendita, versato o ancora da corrispondere, non incontra, tra alienante e acquirente, i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi limiti dettati dall'art. 1417 cod. civ. in tema di simulazione, in contrasto con il divieto posto dall'art. 2722 cod. civ., in quanto la pattuizione di celare una parte del prezzo non può essere equiparata, per mancanza di una propria autonomia strutturale, all'ipotesi di dissimulazione del contratto, così che la prova relativa ha scopo e materia semplicemente integrativa e può pertanto risultare anche da deposizioni testimoniali (sent. 24 aprile 1996 n. 3857; 23 gennaio 1988 n. 526). In altra occasione si è più genericamente affermato che il requisito di forma è adempiuto ove sussista nel contratto simulato o in quello dissimulato, in considerazione della sostanziale unità della determinazione volitiva delle parti nel fenomeno simulatorio e della operatività della simulazione sul piano egli effetti e non sulla validità del contratto (sent. 9 luglio 1987 n. 5975). Da tale orientamento, che non incontra il favore di una parte rilevante della dottrina, si è di recente distaccata la sentenza di questa S.C. in data 19 marzo 2004 n. 5539, la quale ha così motivato: Per una corretta impostazione del problema è opportuno prendere le mosse dal disposto dell'art. 335 c.p.c.. Ricorso principale2722 c.c. (OMISSIS) Con il secondo motivo denunciano Tale norma esclude che tra le parti si possa dare per testimoni la violazione prova di un patto aggiunto o contrario al contenuto di un documento, ove si alleghi che la stipulazione del patto sia stata anteriore o contemporanea alla redazione del documento medesimo. Al pari che in tutte le altre disposizioni sui limiti della prova testimoniale, traspare qui un certo grado di ragionevole diffidenza del legislatore nei riguardi di un tale genere di prova, soprattutto quando essa sia volta a sormontare risultanze assai meno controvertibili quali quelle documentali, è chiaro, cioè, l'intento di impedire che rapporti giuridici tra le parti, quando documentalmente provati, possano essere alterati da prove par testi, appunto perché queste non offrono la stessa garanzia di veridicità di quella documentale e falsa applicazione delle clausole generali perché non è logico presumere che, una volta scelta la via della buona fededocumentazione degli accordi contrattuali tra esse intercorsi, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso le parti ne abbiano affidato la modifica ad intese meramente verbali. Sicché ben si comprende anche la ragione del diritto all'esercizio superamento del recesso ad nutum (suindicato limite alla prova testimoniale quando, nei casi specificamente contemplati dal successivo art. 360 c.p.c2724 c.c., n. 3, in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c.). Con il terzo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorietà della motivazione sul punto (art. 360 c.p.c., n. 5). Con il quarto motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (art. 360 c.p.c., n. 3)quella negativa presunzione possa invece essere superata. Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, nei limiti limite alla prova testimoniale di cui in motivazionesi sta discutendo, per le ragioni che seguonovi sono sottese, è quindi destinato ad operare in qualsiasi caso si sostenga esservi una divaricazione tra il contenuto di un contratto, formalmente consacrato in un documento, ed una diversa pattuizione, ugualmente pregna di contenuto negoziale, che nel documento medesimo non sia riportata e di cui, tuttavia, si assuma esservi stata una stipulazione anteriore o contemporanea. Costituiscono principii generali Il fenomeno della simulazione contrattuale, sia essa assoluta o relativa, non esaurisce l'area di possibile applicazione di detto art. 2722 c.c., ma sicuramente ne occupa una larga parte. Ed, infatti, nel disciplinare ex professo i limiti della prova testimoniale della simulazione, il legislatore non ha dettato una disposizione in se compiuta ed autosufficiente, ma si è unicamente preoccupato di chiarire, nell'art. 1417 c.c., che quella prova è ammessa senza limiti tanto nel caso di domanda proposta da creditori o da terzi quanto nell'ipotesi in cui, essendo proposta dalle parti, la domanda sia volta a far valere l'illiceità del diritto delle obbligazioni contratto dissimulato. I limiti cui il citato art. 1417 c.c. allude - e che consente di superare solo nelle suddette particolari situazioni - sono, ovviamente, quelli secondo cui dettati dagli artt. 2721 c.c., e segg., ed in particolare quelli già sopra richiamati a proposito dei patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento. Stando così le cose, quando la prova tra la parti della simulazione di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza contratto documentale non riguardi l'illiceità del contratto dissimulato, è evidente che essa incontra i suaccennati limiti di prova (artvedi anche, in tal senso, Cass. 1175 c.c.) n. 16021 del 2002 e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.n. 4073 del 1992). In tema Ma appare difficile negare che tali limiti operino anche in presenza di contrattiuna simulazione soltanto parziale, ogni guai volta questa si traduca nell'allegazione di un accordo ulteriore e diverso da quello risultante dal contratto, comunque destinato a modificare l'assetto degli interessi negoziali riportato nel documento sottoscritto dalle parti. Né certo sarebbe ragionevole sostenere che la clausola di determinazione del prezzo non abbia rilevanza centrale nell'economia degli interessi regolati mediante un contratto di compravendita. D'altronde, affermare che la pattuizione con cui le parti convengano un prezzo diverso da quello indicato nel documento contrattuale da esse sottoscritto non integrerebbe gli estremi di una vera e propria simulazione, avendo scopo meramente integrativo, non risolve in alcun modo il principio problema. Se anche così fosse, infatti, resterebbe comunque difficilmente eludibile il rilievo per cui una tale pattuizione si pone in contrasto con il contenuto di un documento contrattuale contestualmente stipulato e, come tale, ricade nella previsione dell'art. 2722 c.c. La differenza che l'orientamento giurisprudenziale qui non condiviso introduce - tra la prova della buona fede oggettivasimulazione, cioè della reciproca lealtà soggetta agli anzidetti limiti legali, e la prova di condotta, deve presiedere all'esecuzione patti meramente integrativi del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione edche detti limiti non incontrerebbe perché quei patti difetterebbero di una propria autonomia strutturale o funzionale - non sembra perciò trovare un sufficiente appiglio: né nella lettera del citato art. 2722 c.c., che si riferisce ai "patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento", e quindi anche a quelli di carattere integrativo se essi contengano elementi nuovi o contrastanti con quelli documentati; né nella già richiamata ratio legis, che evidentemente abbraccia ogni ipotesi nella quale si pretenda di dare, per mezzo di testimoni, la prova di obblighi o diritti di portata diversa da quanto risulta da accordi consacrati in un documento e perciò dotati di un grado di certezza non superabile con quel genere di prova. Ritiene il collegio di condividere tale più recente orientamento. Va, in definitivaproposito, accompagnarlo in ogni sua fase (Cassosservato che il fatto che il contratto simulato non sia nullo o annullabile, ma soltanto inefficace tra le parti non giustifica la conclusione che il contratto dissimulato, il quale è destinato ad avere effetto tra le parti, non debba avere i requisiti di forma necessari per la validità dello stesso, secondo quanto espressamente stabilito dall'art. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 1414 cod. civ., comma 2. Né si potrebbe sostenere che il requisito di forma sarebbe soddisfatto dal negozio simulato (come sembra sostenere la sentenza 9 luglio 1987 n. 5975). Una tesi analoga era stata sostenuta questa S.C. anche in tema di interposizione fittizia, ma è stata successivamente abbandonata (cfr. sent. 22 aprile 1986 n. 2816; 22 novembre 1979 n. 6074), quanto sul piano in base alla considerazione che l'interposizione deve risultare anch'essa da un patto rivestito della forma solenne. Né, con riferimento specifico al problema della prova del complessivo assetto prezzo, si potrebbe sostenere che la prova per testimoni sarebbe destinata soltanto ad integrare soltanto un elemento negoziale per il quale il requisito di interessi sottostanti all'esecuzione forma è soddisfatto dal contratto simulato. E' facile osservare che il prezzo è un elemento essenziale della vendita, per cui anch'esso deve risultare per iscritto e per intero quando per tale contratto è prevista la forma scritta ad substantiam, non essendo sufficiente che quest'ultima sussista in relazione alla manifestazione di volontà di vendere e di acquistare. In altri termini, la prova per testimoni del contratto (artprezzo dissimulato di una vendita immobiliare non riguarda un elemento accessorio del contratto, in relazione al quale non opera il divieto di cui all'art. 1375 2722 cod. civ.), ma un elemento essenziale, con conseguente applicabilità delle limitazioni in tema di prova previste da tale disposizione. I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poiAlla luce delle considerazioni svolte, il principio deve essere inteso come una specificazione primo motivo del ricorso va accolto, con assorbimento degli "inderogabili doveri altri motivi, con cassazione della sentenza impugnata e rinvio ad altra sezione della Corte di solidarietà sociale" imposti dall'artappello di Roma, che provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità. 2 Cost.P.Q.M. La Corte accoglie il primo motivo del ricorso; dichiara assorbiti gli altri motivi; cassa la sentenza impugnata, e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere con rinvio ad altra sezione della Corte di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza appello di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllareRoma, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione ordine alle spese del giudizio di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.ccassazione., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:

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Motivi della decisione. PreliminarmenteCon il primo motivo la ricorrente ribadisce la tesi secondo la quale la prova per testimoni del prezzo effettivamente pattuito non poteva essere ammessa in considerazione del disposto dell'art. 2722 cod. civ. La sentenza impugnata si è rifatta alla giurisprudenza meno recente di questa S.C. Si è, in proposito, affermato che, allorquando l'accordo simulatorio investe solo uno degli elementi del contratto (quale è il prezzo di una vendita immobiliare), per il quale è richiesta la forma scritta ad substantiam, il contratto simulato non perde la sua connotazione peculiare, ma conserva inalterati gli altri suoi elementi - ad eccezione di quello interessato dalla simulazione - con la conseguenza che, non essendo il contratto in tali termini simulato né nullo né annullabile, ma soltanto inefficace tra le parti, gli elementi negoziali interessati dalla simulazione possono essere sostituiti o integrati con quelli effettivamente voluti dai contraenti. Pertanto, la prova per testimoni del prezzo effettivo della vendita, versato o ancora da corrispondere, non incontra, tra alienante e acquirente, i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi limiti dettati dall'art. 1417 cod. civ. in tema di simulazione, in contrasto con il divieto posto dall'art. 2722 cod. civ., in quanto la pattuizione di celare una parte del prezzo non può essere equiparata, per mancanza di una propria autonomia strutturale, all'ipotesi di dissimulazione del contratto, così che la prova relativa ha scopo e materia semplicemente integrativa e può pertanto risultare anche da deposizioni testimoniali (sent. 24 aprile 1996 n. 3857; 23 gennaio 1988 n. 526). In altra occasione si è più genericamente affermato che il requisito di forma è adempiuto ove sussista nel contratto simulato o in quello dissimulato, in considerazione della sostanziale unità della determinazione volitiva delle parti nel fenomeno simulatorio e della operatività della simulazione sul piano egli effetti e non sulla validità del contratto (sent. 9 luglio 1987 n. 5975). Da tale orientamento, che non incontra il favore di una parte rilevante della dottrina, si è di recente distaccata la sentenza di questa S.C. in data 19 marzo 2004 n. 5539, la quale ha così motivato: Per una corretta impostazione del problema è opportuno prendere le mosse dal disposto dell'art. 335 c.p.c.. Ricorso principale2722 c.c. (OMISSIS) Con il secondo motivo denunciano Tale norma esclude che tra le parti si possa dare per testimoni la violazione prova di un patto aggiunto o contrario al contenuto di un documento, ove si alleghi che la stipulazione del patto sia stata anteriore o contemporanea alla redazione del documento medesimo. Al pari che in tutte le altre disposizioni sui limiti della prova testimoniale, traspare qui un certo grado di ragionevole diffidenza del legislatore nei riguardi di un tale genere di prova, soprattutto quando essa sia volta a sormontare risultanze assai meno controvertibili quali quelle documentali, è chiaro, cioè, l'intento di impedire che rapporti giuridici tra le parti, quando documentalmente provati, possano essere alterati da prove par testi, appunto perché queste non offrono la stessa garanzia di veridicità di quella documentale e falsa applicazione delle clausole generali perché non è logico presumere che, una volta scelta la via della buona fededocumentazione degli accordi contrattuali tra esse intercorsi, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso le parti ne abbiano affidato la modifica ad intese meramente verbali. Sicché ben si comprende anche la ragione del diritto all'esercizio superamento del recesso ad nutum (suindicato limite alla prova testimoniale quando, nei casi specificamente contemplati dal successivo art. 360 c.p.c2724 c.c., n. 3, in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c.). Con il terzo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorietà della motivazione sul punto (art. 360 c.p.c., n. 5). Con il quarto motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (art. 360 c.p.c., n. 3)quella negativa presunzione possa invece essere superata. Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, nei limiti limite alla prova testimoniale di cui in motivazionesi sta discutendo, per le ragioni che seguonovi sono sottese, è quindi destinato ad operare in qualsiasi caso si sostenga esservi una divaricazione tra il contenuto di un contratto, formalmente consacrato in un documento, ed una diversa pattuizione, ugualmente pregna di contenuto negoziale, che nel documento medesimo non sia riportata e di cui, tuttavia, si assuma esservi stata una stipulazione anteriore o contemporanea. Costituiscono principii generali Il fenomeno della simulazione contrattuale, sia essa assoluta o relativa, non esaurisce l'area di possibile applicazione di detto art. 2722 c.c., ma sicuramente ne occupa una larga parte. Ed, infatti, nel disciplinare ex professo i limiti della prova testimoniale della simulazione, il legislatore non ha dettato una disposizione in se compiuta ed autosufficiente, ma si è unicamente preoccupato di chiarire, nell'art. 1417 c.c., che quella prova è ammessa senza limiti tanto nel caso di domanda proposta da creditori o da terzi quanto nell'ipotesi in cui, essendo proposta dalle parti, la domanda sia volta a far valere l'illiceità del diritto delle obbligazioni contratto dissimulato. I limiti cui il citato art. 1417 c.c. allude - e che consente di superare solo nelle suddette particolari situazioni - sono, ovviamente, quelli secondo cui dettati dagli artt. 2721 c.c., e segg., ed in particolare quelli già sopra richiamati a proposito dei patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento. Stando così le cose, quando la prova tra la parti della simulazione di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza contratto documentale non riguardi l'illiceità del contratto dissimulato, è evidente che essa incontra i suaccennati limiti di prova (artvedi anche, in tal senso, Cass. 1175 c.c.) n. 16021 del 2002 e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.n. 4073 del 1992). In tema Ma appare difficile negare che tali limiti operino anche in presenza di contrattiuna simulazione soltanto parziale, ogni guai volta questa si traduca nell'allegazione di un accordo ulteriore e diverso da quello risultante dal contratto, comunque destinato a modificare l'assetto degli interessi negoziali riportato nel documento sottoscritto dalle parti. Né certo sarebbe ragionevole sostenere che la clausola di determinazione del prezzo non abbia rilevanza centrale nell'economia degli interessi regolati mediante un contratto di compravendita. D'altronde, affermare che la pattuizione con cui le parti convengano un prezzo diverso da quello indicato nel documento contrattuale da esse sottoscritto non integrerebbe gli estremi di una vera e propria simulazione, avendo scopo meramente integrativo, non risolve in alcun modo il principio problema. Se anche così fosse, infatti, resterebbe comunque difficilmente eludibile il rilievo per cui una tale pattuizione si pone in contrasto con il contenuto di un documento contrattuale contestualmente stipulato e, come tale, ricade nella previsione dell'art. 2722 c.c. La differenza che l'orientamento giurisprudenziale qui non condiviso introduce - tra la prova della buona fede oggettivasimulazione, cioè della reciproca lealtà soggetta agli anzidetti limiti legali, e la prova di condotta, deve presiedere all'esecuzione patti meramente integrativi del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione edche detti limiti non incontrerebbe perché quei patti difetterebbero di una propria autonomia strutturale o funzionale - non sembra perciò trovare un sufficiente appiglio: né nella lettera del citato art. 2722 c.c., che si riferisce ai "patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento", e quindi anche a quelli di carattere integrativo se essi contengano elementi nuovi o contrastanti con quelli documentati; né nella già richiamata ratio legis, che evidentemente abbraccia ogni ipotesi nella quale si pretenda di dare, per mezzo di testimoni, la prova di obblighi o diritti di portata diversa da quanto risulta da accordi consacrati in un documento e perciò dotati di un grado di certezza non superabile con quel genere di prova. Ritiene il collegio di condividere tale più recente orientamento. Va, in definitivaproposito, accompagnarlo in ogni sua fase (Cassosservato che il fatto che il contratto simulato non sia nullo o annullabile, ma soltanto inefficace tra le parti non giustifica la conclusione che il contratto dissimulato, il quale è destinato ad avere effetto tra le parti, non debba avere i requisiti di forma necessari per la validità dello stesso, secondo quanto espressamente stabilito dall'art. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 1414 cod. civ., comma 2. Né si potrebbe sostenere che il requisito di forma sarebbe soddisfatto dal negozio simulato (come sembra sostenere la sentenza 9 luglio 1987 n. 5975). Una tesi analoga era stata sostenuta questa S.C. anche in tema di interposizione fittizia, ma è stata successivamente abbandonata (cfr. sent. 22 aprile 1986 n. 2816; 22 novembre 1979 n. 6074), quanto sul piano in base alla considerazione che l'interposizione deve risultare anch'essa da un patto rivestito della forma solenne. Né, con riferimento specifico al problema della prova del complessivo assetto prezzo, si potrebbe sostenere che la prova per testimoni sarebbe destinata soltanto ad integrare soltanto un elemento negoziale per il quale il requisito di interessi sottostanti all'esecuzione forma è soddisfatto dal contratto simulato. E' facile osservare che il prezzo è un elemento essenziale della vendita, per cui anch'esso deve risultare per iscritto e per intero quando per tale contratto è prevista la forma scritta ad substantiam, non essendo sufficiente che quest'ultima sussista in relazione alla manifestazione di volontà di vendere e di acquistare. In altri termini, la prova per testimoni del contratto (artprezzo dissimulato di una vendita immobiliare non riguarda un elemento accessorio del contratto, in relazione al quale non opera il divieto di cui all'art. 1375 2722 cod. civ.), ma un elemento essenziale, con conseguente applicabilità delle limitazioni in tema di prova previste da tale disposizione. I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poiAlla luce delle considerazioni svolte, il principio deve essere inteso come una specificazione primo motivo del ricorso va accolto, con assorbimento degli "inderogabili doveri altri motivi, con cassazione della sentenza impugnata e rinvio ad altra sezione della Corte di solidarietà sociale" imposti dall'artappello di Roma, che provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità. 2 Cost.La Corte accoglie il primo motivo del ricorso; dichiara assorbiti gli altri motivi; cassa la sentenza impugnata, e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere con rinvio ad altra sezione della Corte di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza appello di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllareRoma, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione ordine alle spese del giudizio di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.ccassazione., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:

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Motivi della decisione. Preliminarmente, 1. Entrambi i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi dell'artsono articolati in quattro motivi di analogo contenuto. 335 c.p.c.. Ricorso principale. (OMISSIS) Con Si deduce con il secondo primo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle clausole generali della buona fede, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 1175 112 e 1375 c.c.)421 c.p.c. nonché dell'art. 18 l. n. 300 del 1970 per essere la Corte territoriale incorsa nel vizio di extrapetizione, giungendo a condannare di ufficio l'ente pubblico al risarcimento del danno benché il lavoratore non avesse proposto domanda risarcitoria ai sensi del d.lgs. n. 165 del 2001, non fosse configurabile nella specie un licenziamento e, di conseguenza, non fosse applicabile la disciplina di cui all'art. 18 l. n. 300 del 1970. Con il terzo secondo motivo denunciano è anche censurata la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 114 c.p.c. nonché degli artt. 1226 e 2697 c.c., per essere la Corte territoriale incorsa nel vizio di extrapetizione, giungendo a condannare di ufficio l'ente pubblico al risarcimento del danno liquidato in via equitativa in assenza di domanda delle parti ex artt. 114 c.p.c. ovvero di liquidazione ai sensi dell'art. 2043 1226 c.c.. e comunque in assenza di domanda risarcitoria del lavoratore ai sensi del d.lgs. n. 165 del 2001 e di benché minima allegazione e prova del danno subito; contraddittorietà della motivazione sul punto (art. 360 c.p.c., n. 5). Con il quarto terzo motivo denunciano è dedotta la violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (artdegli artt. 360 112 e 113 c.p.c., in relazione al d.lgs. n. 3). Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, nei limiti di cui in motivazione165 del 2001, per avere la Corte territoriale violato le ragioni citate norme liquidando di ufficio un danno in via di equità senza specifica domanda in tal senso e riconoscendo una somma maggiore del danno eventualmente sofferto, considerato che seguonoi lavoratori, dopo solo un mese dalla scadenza del termine impugnato, avevano trovato altra occupazione. Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui Infine con il quarto motivo la parti ricorrente lamenta la contraddittoria motivazione della sentenza impugnata su un punto decisivo della controversia per avere la Corte di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare appello riconosciuto la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c.18 l. n. 300 del 1970 in un caso non riconducibile al licenziamento, (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), accogliendo una domanda diversa da quella formulata ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza attribuendo il risarcimento di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato danno non provato né nell'an che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:nel quantum debeatur.

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Motivi della decisione. Preliminarmente1. Posizione dell’ing. M. In assenza di tempestive e specifiche contestazioni ad opera delle parti costituite in ordine all’avvenuta esecuzione, in maniera puntuale e corretta, della prestazione professionale di spettanza dall’ing. X., deve anzitutto essere riconosciuto il diritto dell’attore ad ottenere la remunerazione per l’opera pro- fessionale resa ad oggettivo beneficio dei committenti. Pacifico, dunque, il credito in punto di an debeatur, costituisce oggetto di contestazione l’effettiva titolarità ex latere debitoris della pretesa azionata, avendo i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi dell'artdue convenuti sig.ra P.S. e Podere Cetinaglia Spa eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva, e dovendosi, in forza del potere giudiziale di riqualificazione giuridica delle domande e delle eccezioni, interpretare l’atto di chiamata in causa del terzo arch. 335 c.p.c.. Ricorso principaleL.N. non quale esercizio di azione di garanzia o “manleva”, bensì quale “laudatio actoris” (“nell’interpretazione della doman- da, il giudice del merito, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, non è condizionato dalla formula adottata dalla parte (tra le tante Xxxx. (OMISSIS) Con 8036/04, 259/05, 20912/04, 14682/01, 3370/95, 2922/97), dovendo invece individuare l’effettiva volontà della parte e quindi il secondo motivo denunciano contenuto sostanziale della pretesa in una alle finalità in concreto perseguite, tenendo conto non solo della volontà espressamente formulata ma anche di quella che possa implicitamente o indirettamente essere desunta dalle deduzioni o dalle richieste, dal tipo e dai limiti dell’azione proposta, dal comportamento processuale assunto”: Cass. n. 20610/11). Come condivisibilmente osservato dal precedente giudice istruttore nell’ordinanza riservata depositata in data 26/04/11, invero, l’eccezione di di- fetto di legittimazione passiva sollevata da ambo i convenuti, lungi dal dare vita ad una questione pregiudiziale di rito attinente ad una condizione dell’azione, costituisce, a ben vedere, una contestazione dell’effettiva titolarità passiva del- la violazione e falsa applicazione delle clausole generali della buona fedepretesa creditoria azionata, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti introduce, pertanto, una questione di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (artmerito. 360 c.p.c.Peraltro, n. 3occorre osservare, in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c.). Con il terzo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorietà della motivazione sul punto (art. 360 c.p.c.discostandosi dalla posizione del prece- dente assegnatario del fascicolo, n. 5). Con il quarto motivo denunciano come nonostante la violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione mancata formulazione di alcuna richiesta da parte attrice direttamente nei confronti della giurisprudenza tedesca terza chiamata nelle fasi processuali successive all’estensione del contraddittorio, ben potrà questo giudicante esaminare nel merito la pretesa attorea, ritenendola come ri- ferita alla terza chiamata anziché alla convenuta, senza per questo incorrere nel vizio di ultrapetizione: ciò in materia (art. 360 c.p.c., n. 3). Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, nei limiti di cui in motivazionequanto, per le ragioni che seguono. Costituiscono principii generali effetto della domanda spiegata da parte dei convenuti nei confronti del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti terzo chiamato, ha avuto luogo l’automatica estensione al terzo della domanda attorea, di un rapporto natura contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 12317/11: “Il principio dell’estensione automatica della domanda dell’attore al chiamato in causa da parte del convenuto trova applicazione al- lorquando la chiamata del terzo sia effettuata al fine di ottenere la liberazione dello stesso convenuto dalla pretesa dell’attore, in ragione del fatto che il terzo s’individui come unico obbligato nei confronti dell’attore ed in vece dello stesso convenuto, il che si verifica quando il convenuto evocato in causa estenda il contraddittorio nei confronti di un terzo assunto come l’effettivo titolare passivo della pretesa dedotta in giudizio dall’attore. Il suddetto principio, invece, non opera allorquando il chiamante faccia valere nei confronti del chiamato un rap- porto diverso da quello dedotto dall’attore come “causa petendi” come avviene nell’ipotesi di chiamata di un terzo in garanzia, propria o impropria” (cfr. anche Cass. n. 53485400/13; Cass. 11.6.2008 n. 1547625725/09). Ne consegue Ora, nel richiedere giudizialmente la remunerazione per l’opera prestata con riferimento alla ristrutturazione dell’immobile de quo, l’ing. M., attore principale di entrambe le cause in questa sede riunite, ha individuato, quali soggetti passivi delle proprie spettanze creditorie, la Podere Cetinaglia Sas e la sig.ra P.S., pretendendo di desumere la prova dell’avvenuto conferimento di incarico d’opera professionale da parte di ciascuno dei due convenuti dalla produzione, rispettivamente, di una dichiarazione di notifica preliminare in- viata alla USL 7 ai sensi dell’art. 11, DL n. 494/96 e sottoscritta dalla Sas, qualificatasi come committente, nonché dalla pratica sottoscritta dalla sig.ra P.S., qualificatasi come committente, e presentata all’Ufficio regionale del Genio civile ai sensi della L. n. 64/74. Sennonché, a ben vedere, detta docu- mentazione, la cui sottoscrizione non è stata disconosciuta dai convenuti, fornisce unicamente la prova del fatto, del resto già pacifico, che costoro fos- sero i committenti dei lavori ed i beneficiari dell’opera professionale prestata, ma appare di per sé inidonea a fornire la clausola generale dimostrazione della sussistenza di buona fede una pattuizione intercorsa direttamente tra la committenza e correttezza è operantel’attore ed avente quale specifico oggetto il conferimento dell’incarico professionale, tanto sul piano dei comportamenti nonché la determinazione del debitore e compenso: donde, l’impossibilità di ritenere as- solto, da parte dell’attore, l’onere della prova del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio titolo della pretesa credito- ria ex contracto, su di esso pacificamente incombente (artCass. 1175 codSS.UU. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.n. 13533/01). I principii Come evincibile dalla lettura dei documenti allegati ai due atti di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituiscecitazione, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negozialecomunicazioni inviate agli uffici competenti assolvono all’esclusiva funzione, in funzione ottemperanza alle pertinenti discipline pubblicistiche, di garanzia rendere edotti gli organi preposti ai controlli in tema di sicurezza e di ri- spetto della normativa in tema di tutela del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civileterritorio circa la pendenza di la- vori e l’identità dei committenti, sul puntononché dei soggetti preposti alla progetta- zione, così si esprimeva: (il principio di correttezza alla direzione dei lavori e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fedealla loro esecuzione, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico vista dell’assunzione diretta della responsabilità dei soggetti autoqualificati nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo confronti delle au- torità di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, controllo (si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicativeda, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione l’art. 11, Dl. n. 494/96, nel testo vi- gente ratione temporis all’epoca cui risalgono i lavori, a tenore del quale “il committente o il responsabile dei lavori, prima dell’inizio dei lavori, trasmette all’Azienda unità sanitaria locale e alla Direzione provinciale del lavoro territo- rialmente competenti la notifica preliminare elaborata conformemente all’allegato III nonché gli eventuali aggiornamenti (Cass. 5.3.2009 n. 5348...)”, contenente, tra l’altro, “Committente (i) nome (i) e indirizzo (...) Responsabile (i) dei lavori, (nome (i) e indirizzo (...); Coordinatore (i) per quanto riguarda la sicurezza e la salute durante la progettazione dell’opera (nome (i) e indirizzo (...), al contratto Coor- dinatore (i) per quanto riguarda la sicurezza e la salute durante la realizza- zione dell’opera (nome (i) e indirizzo (...)”). Tuttavia, altro è la prova dell’effettivo svolgimento della prestazione profes- sionale di sale and lease back connesso al divieto coordinatore della sicurezza e di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481)progettista, ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è statoaltro, da ultimoinvece, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza la di- mostrazione diretta dell’avvenuta stipula di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nncontratto d’opera professionale comprensivo di tutti gli elementi essenziali del modello legale di cui all’art. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza2230 c.c.. Dimostrazione, in questa sedeeffetti, impugnatamancata ad opera dell’attore, non essendo emersa la prova della stipulazione da altre risultanze documentali, né tantome- no dalle risultanze delle audizioni testimoniali, dalle quali è evincibile soltanto la conferma dell’effettivo svolgimento di attività nel cantiere da parte dell’ing. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:M. (cfr. deposizione teste A., il quale dichiara di avere ricevuto direttive dall’ing.

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Motivi della decisione. PreliminarmenteCon il primo motivo, i ricorsi ricorrenti - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c.. Ricorso principale. (OMISSIS) Con il secondo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle clausole generali della buona fede, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c.). Con il terzo motivo denunciano la denunziando violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorietà della motivazione sul punto (art. 360 113 c.p.c., art. 873 c.c., art. 29 reg. edilizio, art. 14 preleggi, L. n. 5122 del 1989, in generale, nonché vizi di motivazione - rilevano che anche dalla consulenza risultava come i box fossero stati realizzati nella parte retrostante del cortile già realizzato, onde il Giudice a quo avrebbe erroneamente ritenuto applicabile la norma regolamentare di cui all'art. 48, per la quale la distanza è di m. 13,90, anziché quella speciale di cui al precedente art. 29, per la quale nel caso di cortili la distanza minima è di m. 8; che, inoltre, la L. n. 122 del 1989, applicabile nella specie in quanto meno restrittiva ed in assenza di giudicato (come precisato in memoria), pone una deroga al rispetto delle distanze legali relativamente ai parcheggi privati in vista dell'interesse pubblico ad una migliore gestione delle aree di sosta. Con il quarto motivo denunciano secondo motivo, i ricorrenti - denunziando violazione degli artt. 813, 949 e 2653 c.c., nonché omessa motivazione - si dolgono che il Giudice a quo abbia affermato l'opponibilità della sentenza impugnata ad essi terzi acquirenti, nonostante la domanda introduttiva del giudizio promosso dal Xxxxxxx nei confronti dello Xxxxx non fosse stata trascritta, sull'erroneo convincimento, apoditticamente motivato con riferimento ad una sola parte della giurisprudenza in materia non sottoposta a vaglio critico in relazione alla giurisprudenza contraria pur segnalatagli, che la detta domanda non fosse suscettibile di trascrizione. Con il terzo motivo, i ricorrenti - denunziando violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione degli artt. 100 e 111 c.p.c. - si dolgono che il Giudice a quo non abbia ravvisato la natura strumentale della giurisprudenza tedesca lite, tesa al raggiungimento di non meglio precisate utilità diverse dalla riduzione in materia (pristino degli immobili da parte del Xxxxxxx, atteso che questi aveva alienato l'appartamento in corso di causa e che nell'atto pubblico s'era impegnato alla prosecuzione del giudizio con la precisazione che sarebbe andato a suo esclusivo favore "tutto ciò che la parte venditrice riceverà dal predetto giudizio", mentre "l'eventuale risultato di ripristino dell'originaria consistenza dei beni comuni andrà a beneficio dell'immobile venduto". Il secondo dei riportati motivi è fondato ed, atteso l'oggetto degli altri, all'evidenza assorbente. Come già rilevato nell'ordinanza di rimessione, l'indirizzo giurisprudenziale tradizionale, dal quale si escludeva la trascrivibilità ex art. 360 c.p.c2653 c.c., n. 31, delle domande dirette a far valere il rispetto dei limiti legali della proprietà, trova una delle sue prime compiute espressioni nella sentenza di questa Corte 05/05/1960, n. 1029, alle cui tesi si sono, in seguito, acriticamente adeguate, con varianti di scarso rilievo, nonostante le opinioni contrarie formulate al riguardo dalla maggioranza della dottrina, altre pronunzie (e pluribus, Cass. 18/02/1963, n. 392, 29/07/1963 n. 2141, 05/10/1963 n. 2260, 11/06/1965 n. 1185, 31/01/1969 n. 290, 22/04/1980 n. 2592). Il secondorichiamato indirizzo si basa su di une serie di considerazioni che, terzo se pure non tutte suscettibili di puntuale censura, tuttavia, o perché inesatte o perché ininfluenti ai fini della soluzione del problema, non appaiono idonee e quarto motivosufficienti a giustificare la conclusione cui è pervenuto. Con l'iter argomentativo principale, investendo profili si muove dalla premessa che le ipotesi di trascrizione, in quanto normativamente predeterminate, sono tassative; si presentano connessi rileva, poi, che le azioni intese a far valere le limitazioni legali al diritto di proprietà non si risolvono, neppure parzialmente, né in ordine alle questioni prospettateun'azione di revindica, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondatiné in una azione d'accertamento, nei limiti di cui in motivazione, per le ragioni che seguono. Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti così della proprietà come della sussistenza (confessoria servitutis) o della insussistenza (negatoria servitutis) di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (diritto reale di godimento, id est non sono riconducibili ad alcuna delle ipotesi espressamente regolate dall'art. 2653 c.c., n. 1, in quanto, in particolare, i detti limiti non sono servitù né sono ad esse equiparabili, onde all'azione de qua non può essere riconosciuta natura di azione negatoria ex art. 1175 949 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di contratti; si conclude, il principio della buona fede oggettivaquindi, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione edcon l'osservare che, in definitiva, accompagnarlo non essendo espressamente prevista nella norma in ogni esame la trascrizione, oltre che delle domande singolarmente menzionatevi, anche delle diverse domande intese a far valere una violazione dei limiti legali della proprietà, queste sarebbero insuscettibili di trascrizione, giacché in nessun modo riconducibili alle ipotesi espressamente previste ed in ispecie all'azione negatoria. È quest'ultima considerazione, in particolare, che non è esatta e che, pertanto, inficia di per sé la validità dell'intero ragionamento, sebbene anche la prima considerazione, nella sua fase (Cassassolutezza, non resti immune da censura, come meglio in seguito. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che La domanda con la clausola generale quale l'attore fa valere, in proprio favore, i limiti che, ex lege, vincolano le facoltà ricomprese nell'altrui diritto di buona fede e correttezza è operanteproprietà denunziandone la violazione, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituiscenon tende, infatti, un autonomo dovere giuridicoad uno sterile accertamento del regime vincolistico e della sua violazione, espressione bensì - attraverso la contestazione del fatto posto in essere dal convenuto come illegittimamente impositivo sul fondo dell'attore d'un peso non consentito in ragione della sussistenza dei limiti legali e la consequenziale richiesta di condanna all'eliminazione di quanto realizzato o d'inibitoria di quanto si vorrebbe realizzare in violazione degli stessi - tende a salvaguardare il diritto di proprietà dell'attore dalla costituzione d'una servitù avente ad oggetto una situazione di fatto realizzata in contrasto con altra tutelata dal limite violato e, quindi, lesiva del corrispondente diritto al mantenimento della detta situazione qua ante ed al suo ripristino, onde va qualificata come negatoria servitutis e rientra, pertanto, nella previsione dell'art. 2653 c.c., n. 1. In altri termini, quando il proprietario di un generale principio immobile denuncia la violazione di solidarietà socialeun limite legale da parte del vicino, mira non già a far accertare il diritto di proprietà o l'esistenza della tutela vincolistica di essa ma a far valere l'inesistenza di iura in re a carico della detta proprietà suscettibili di dar luogo a una servitù che esoneri il convenuto dal rispetto di tale limite legale, cioè esercita una negatoria servitutis (cfr. già Cass. 07/07/1979 n. 3902). In tale prospettiva, l'automaticità dei limiti legali e la loro reciprocità, con la possibilità da parte di qualsiasi terzo di conoscerli indipendentemente da uno specifico rapporto negoziale, è del tutto irrilevante, in quanto, come già sopra evidenziato, l'oggetto del giudizio non è l'astratta esistenza del limite legale che si assume violato, ma l'inesistenza di una servitù che tale mancato rispetto giustifichi. D'altra parte, la generale conoscibilità dei limiti legali non può essere utilmente invocata in danno del terzo che abbia acquistato facendo affidamento, in buona fede, sulla conformità a diritto, in ispecie alle normative edilizie dettate dai regolamenti locali, della situazione di fatto ove la costituzione della stessa non sia stata inibita dalla competente P.A., preposta al controllo del territorio in materia urbanistica ed edilizia ed, a maggior ragione, ove da quest'ultima sia stata consentita con il rilascio d'una concessione, attesa la presunzione di legittimità che assiste l'attività amministrativa, nel senso della conformità alla normativa generale e/o locale in riferimento alla materia ricompresa nell'attribuzione di funzioni dell'organo agente. Per altro verso, la giurisprudenza tradizionale sostiene anche che, stante l'automaticità del limite legale e del suo sorgere e considerata anche la reciprocità delle limitazioni stesse, attinenti alle singole situazioni in cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. reciprocamente si trovano le proprietà immobiliari, sarebbe completamente inutile fissare il momento della produzione degli effetti della domanda e del giudizio in corso nei confronti del successore a titolo particolare del convenuto, non risultando necessario fissare il rapporto tra l'acquisto da parte di quest'ultimo e la domanda giudiziale proposta dall'attore, in quanto in questo sensocampo, fra le altrein realtà, Cassacquisto nel vero senso della parola del diritto contestato non c'è, dacché non si acquista il diritto a far valere il limite legale, come non si acquista il limite stesso, che discende dalla situazione dei fondi e dalla normativa in materia, onde appare sufficiente la disposizione dell'art. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale111 c.p.c., poiu.c.. Al riguardo è stato rilevato, il principio deve essere inteso in contrario, come detta tesi si basi su di una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti funzione sostanziale della trascrizione delle domande previste dall'art. 2 Cost2653 c.c., e n. 1, mentre, secondo la sua rilevanza si esplica nell'imporrestessa giurisprudenza di questa S.C., a ciascuna gli effetti delle parti del rapporto obbligatoriotrascrizioni ex art. 1653 c.c., il dovere di agire n. 1, hanno natura meramente processuale, giacché, in modo da preservare gli interessi dell'altradifformità dal disposto generale dell'art. 111 c.p.c., a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettivaxxxxx 4, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumentoprima ipotesi, per il giudicequale la successione a titolo particolare nel diritto controverso determina l'efficacia nei confronti dell'avente causa della sentenza emessa in favore o contro il suo dante causa, atto ed in attuazione della deroga espressamente prevista dallo stesso art. 111 c.p.c., comma 4, seconda ipotesi, la sentenza sulla domanda trascritta è efficace nei confronti del successore a controllaretitolo particolare solo ove questi abbia trascritto il proprio acquisto successivamente alla trascrizione della domanda e viceversa; ond'è che l'effetto d'utile opponibilità della sentenza che accolga la domanda anche nei confronti dell'avente causa dal convenuto, il quale abbia trascritto il proprio titolo d'acquisto, si verifica solo ove la trascrizione della domanda medesima sia stata non solo a sua volta trascritta ma anche in senso modificativo od integrativotrascritta antecedentemente alla trascrizione del contrapposto titolo del terzo acquirente. Si argomenta ancora, lo statuto negozialenella sentenza 04/04/1978 n. 1523, non potersi sostenere, in funzione favore di garanzia chi costruisce non rispettando le distanze legali, l'acquisto, con il decorso del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civiletempo necessario ad usucapire, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto di servitù attiva a carico del fondo del vicino - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui l'azione promossa da quest'ultimo affinché sia rispettata la distanza legale debba essere considerata come diretta ad impedire la costituzione di tale servitù, id est, in definitiva, a negare l'esistenza di essa - dacché un atto processuale teso ad impedire la produzione di un effetto infierì non potrebbe essere identificato con un atto processuale diretto a negare un effetto da altri vantato come esistente; riprendendo, poi, le mosse dalla differenza tra limiti legali e servitù, vi si ribadisce che, non affermandosi con l'azione per il rispetto dei limiti legali un proprio diritto reale sull'immobile altrui né negandosi un diritto reale altrui sull'immobile proprio, la domanda, in quanto non intesa all'accertamento positivo o negativo d'un diritto reale di godimento, non sarebbe equiparabile alla nega-toria, considerato anche che ne abusava era considerato meritevole di biasimola libertà del fondo dell' attore da vincoli correlati al fatto del convenuto non è materia né d'azione né d'eccezione, ma rappresenta il presupposto della domanda. Ora, la prima delle riportate argomentazioni non tiene, evidentemente, conto del fatto, già sopra sottolineato, che l'azione diretta al rispetto di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -un limite legale della proprietà tende, in considerazione effetti, non alla semplice affermazione dell'esistenza d'un limite legale violato dal proprietario del fondo finitimo a quello dell'attore, bensì ad impedire, al pari dell'actio negatoria tipica, non solo l'acquisto, con il decorso del tempo necessario per usucapire, ma anche l'esercizio attuale d'una servitù di contenuto contrario al limite legale stesso. L'allegazione, poi, della grande latitudine libertà del fondo dell'attore da vincoli correlati al fatto posto in essere dal convenuto in funzione dell'azionata contestazione della legittimità del fatto medesimo non rappresenta affatto un semplice presupposto della domanda, bensì l'oggetto stesso di potere che una clausola generaleessa, come quella dell'abuso del dirittola cui causa petendi è la violazione d'una situazione preesistente tutelata dalla normativa vincolistica ed il cui petitum immediato è la pronunzia richiesta, avrebbe attribuito al giudiceid est l'ordine di restituzione in pristino o l'inibitoria, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generalimentre il petitum mediato, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenticostituisce l'oggetto essenziale della domanda, ad es. tedescoè, svizzero e spagnolo); preferendoappunto, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio la salvaguardia del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potereproprietà dell'attore dalla costituzione d'una servitù in favore del convenuto e ciò per mezzo d'un'azione che ha, ritenendo principio generale del nostro ordinamentoevidentemente, anche al di fuori del campo societariotutte le caratteristiche dell'actio negatoria. Ed è precisamente la sussumibilità dell'azione de qua nel paradigma dell'actio negatoria ad inficiare l'idoneità persuasiva della seconda delle riportate argomentazioni, quello di con la quale, a ben vedere, non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale s'intende negare la correttezza e buona fede (contrattuale)trascrivibilità ex art. In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c2653 x.x., la cui funzione è integrativa del contratto socialex. 0, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della deliberaxxxxx xxxxxx actio negatoria - che viene, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri socianzi, ovvero risulti implicitamente affermata, così come risulta essere già data per acquisita da numerose decisioni in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi materia (Cass. 12.12.2005 28/06/1960 n. 273871693, 22/07/1963 n. 2033, 06/04/1966 n. 918, 11/10/1977 n. 4327, 04/04/1978 n. 1523 riprese da Cass. 10/01/1994 n. 213). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società compresa quella (Cass. 19.12.2008 05/05/1960 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, 1029 in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privatamotivazione) precedentemente esaminata, e valutare le condotte che, nell'ambito che non sembra più allo stato revocabile in dubbio - ma l'estensibilità della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della norma anche all'ipotesi in esame in quanto nella stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:espressamente prevista.

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Motivi della decisione. PreliminarmenteAl fine di ricostruire i fatti di causa bisogna rammentare che la ricorrente è dipendente a tempo inde- terminato della casa di riposo come operatore socio-sanitario, i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c.. Ricorso principale. (OMISSIS) Con il secondo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle clausole generali della buona fede, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (art. 360 c.p.c., n. 3categoria B2, in relazione agli arttregime di part-time a tempo indeterminato al 70%. 1175 e 1375 c.c.il part-time a tempo indetermina- to al 70% le era stato concesso, dietro sua richiesta (doc. 3 di parte conve- nuta), con decorrenza dal 7.5.2005, mediante determina direttoriale n. 78/2005 del 26.5.2005 (doc. 2). Con Successivamente, in considera- zione dell’entrata in vigore dell’art. 16 della legge 183/2010 (c.d. colle- gato lavoro), che ha consentito agli enti pubblici di sottoporre a revisione le situazioni di trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale già realizzatesi alla data di entrata in vigore del D.l. 112/2008, convertito in legge 133/2008, l’Amministrazione dato- xxxxx chiedeva alla dipendente, con nota prot. n. 6232 del 17.12.2010 (doc. 4), di compilare un apposito modello recante l’orario di lavoro a tempo parziale fruito e le eventuali variazioni proposte. la dipendente rispondeva in data 23.12.2010 (doc. 5) domandan- do che l’articolazione del proprio orario di lavoro fosse, a partire dal 1.1.2011: lunedì pomeriggio, mar- tedì pomeriggio, mercoledì riposo, giovedì mattino, venerdì mattino e domenica/un festivo; al contempo la ricorrente si rendeva disponibile, compatibilmente con le limitazioni previste dal D.lgs. 81/2008, ad effettuare nell’arco del mese un massimo di: due turni festivi, un turno nella giornata di sabato e un turno notturno. A tale richiesta non faceva se- guito alcun atto di accettazione o concessione da parte dell’ente. con nota prot. n. 1474 in data 16.03.2015 (doc. 6), l’Amministra- zione comunicava alle dipendenti in part-time a tempo indeterminato l’intenzione di procedere con una variazione della pianta organica, con l’inserimento nella stessa di n. 11 posti part-time relativi alla qualifica di O.S.S. cat. B2, al fine di procedere all’assunzione, sempre a tempo indeterminato, delle relative integrazioni. poiché a seguito di tale variazione sarebbe venuta meno per le dipendenti in questione la possibi- lità di rientrare in organico a tempo pieno, prima di mettere in atto tale decisione l’ente chiedeva alle stesse di comunicare le loro determinazioni in merito. nulla perveniva da parte della ricorrente. in seguito, per ragioni organiz- zative (ottimizzazione del lavoro) l’Amministrazione datoriale, con determina del Direttore n. 24 del 16.3.2016 (doc. 7), disponeva: di confermare alla ricorrente e ad altre dipendenti la percentuale di ridu- zione del lavoro in godimento, di richiedere alle stesse di esplicitare le ragioni per le quali avevano a suo tempo richiesto il terzo motivo denunciano part-time, di revocare l’orario di lavoro in corso con decorrenza dal 1.4.2016 e di ricontrattare l’orario lavorativo in accordo con le esigenze organizza- tive dell’ente. Del provvedimento l’ente dava informazione alle organizzazioni Sindacali e alle dipendenti interes- sate. in particolare, con nota prot. n. 1455 del 16.3.2016 (doc. 8), l’Am- ministrazione comunicava la violazione revoca assunta alla ricorrente, chiedendole di specificare le motivazioni del suo part-time e falsa applicazione dell'artconvocandola per la data del 23.3.2016. 2043 c.c.; contraddittorietà in seguito, con determina del Direttore n. 26 del 25.3.2016 (doc. 9), ritenuto di disporre di maggior tempo per le valutazioni del caso, come per altro da richiesta verbale delle dipendenti interessate, l’ente differiva la decorrenza della motivazione sul punto revo- ca dell’orario di lavoro in xxxxx xx 0.0.0000. Dopo l’incontro del 23.3.2016, non avendo ricevuto da parte della ricorrente né l’esplicitazione delle ragioni del part-time né alcuna altra comunicazione, l’Amministrazio- ne, con nota prot. n. 2212 in data 26.4.2016, ricevuta dalla dipendente in pari data (artdoc. 360 c.p.c.10), n. 5nel confermar- le la percentuale del part-time a suo tempo richiesto, le determinava il nuovo orario lavorativo con inizio dal 1.5.2016, come da prospetto allegato (doc.11). Con il quarto motivo denunciano con pec in data 27.4.2016 (doc. 12), la violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (art. 360 c.p.c., n. 3). Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, nei limiti di cui in motivazionericorrente, per le il tramite dell’organizzazione Sindacale di appartenenza, comunicava di aver chiesto a suo tempo (dal 7.5.2005) il part-time per l’esigenza di conciliare l’orario di lavoro con quelle della famiglia, dichiarate come immutate, e contestava la variazione assunta dall’Amministrazione datoriale. Seguiva la pec in data 26.5.2016 (doc. 13) con la quale i legali della ricorrente contestavano la validità della modifica unilaterale dell’orario di lavoro. l’Amministrazione datoriale replicava (con nota prot. n. 3262 del 17.6.2016 - doc. 14), dichiarandosi comunque disponibile a concordare nuovamente l’orario di lavoro, sulla base della sopravvenuta comunica- zione delle motivazioni delle ragioni che seguono. Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contrattopart-time, così come avvenuto per altre dipendenti. la ricorrente però decideva di introdurre il giudizio. come si evince dalle conclusioni sopra riportate, lamentava che con inizio dal mese di aprile 2016 le era stato illegittimamente modificato l’orario del part-time, con una va- riazione unilateralmente assunta e senza che lei vi avesse prestato il consenso, si opponeva alla nota prot. n. 1455 del 16 marzo 2016 e ne chie- deva la revoca e/o l’annullamento, con la condanna dell’Amministra- zione datoriale al ripristino dell’ora- rio di lavoro precedente, così come articolato nel modulo a sua formazione ed alla sua interpretazione edfirma in data 23.12.2010 (lunedì pomerig- gio, in definitivamartedì pomeriggio, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348mercoledì riposo, giovedì mattino, venerdì mattino e domenica/un festivo; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che la clausola generale con disponibilità ad effettuare nell’arco del mese, un massimo di: due turni festivi, un turno nella giornata di buona fede sabato e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.un turno notturno), quanto sul piano e con la condanna al risarcimento del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (artdanno per i disagi asseritamente patiti in relazione a tale modifica, danno da liquidarsi in via equitativa. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, primo Giudice respingeva il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguentievidenziando che: 1) la titolarità dalla disamina della documentazione ci- tata si evinceva che non vi era stata alcuna pattuizione scritta riguardo alla cadenza temporale delle presta- zioni, peraltro originariamente (anno 2005) indicata in modo diverso rispetto a quella, di un diritto soggettivo in capo ad un soggettofatto, successiva- mente osservata; 2) la possibilità ricorrente non si era nemmeno peritata di indicare per iscritto, nel pur congruo termine assegnatole, quali fossero le motiva- zioni sulla base delle quali voleva fruire del part time, sottraendosi a una pattuizione che il concreto esercizio avrebbe avuto carattere originario, stante l’assenza di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminateprecedenti scritti; 3) in assenza di pattuizioni rese per iscritto, in ordine alla cadenza temporale dell’orario di lavoro, la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva ricorrente non aveva alcun diritto a vedersi conservato l’orario in via di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridicomero fatto osservato; 4) tenuto conto della attività esercitata dal datore di lavoro (assistenza ad anziani tendenzialmente non au- tosufficienti) la circostanza che, turnistica stabilita (basata su un periodo di 16 settimane con comunicazione entro il 20 del mese del turno da applicare al mese successivo) non corrispondeva al richiedere illegittimamente al di- pendente part time una prestazione a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la contropartecomando. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed Fonda il suo atto di esercizio, risulti alterata appello la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula Difesa della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i lavoratrice sui seguenti passaggi logicimo- tivi:

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Motivi della decisione. PreliminarmenteCon l'unico mezzo di doglianza la ricorrente censura la denunciata sentenza per vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia e per violazione delle norme di cui alla L. n. 253 del 1950, i ricorsi - principale art. 21, artt. 1453, 1455 e 1571 cod. civ. e, con il quesito di diritto, chiede a questa Corte di stabilire "se l'ospitalità concessa dal conduttore a soggetti ricompresi nel novero delle persone di servizio e/o dei parenti o affini entro il 4^ grado concreta presunzione iuris et de iure volta ad escludere la ricorrenza della fattispecie della sublocazione e/o del comodato, fatta salva la eventuale prova di segno contrario, incombente in capo al locatore il quale, senza che possa assumere rilievo alcuno la durata, in concreto, del rapporto di ospitalità e/o del concesso diritto di utilizzazione, è tenuto a fornire prova certa ed incidentale - vanno riuniti univoca degli elementi conducenti ai fini della configurazione di un diverso rapporto sinallagmatico, tale da condurre alla declaratoria di inadempimento del contratto di locazione: nel caso di specie, devono ritenersi alla stregua di elementi conducenti di segno contrario, rispetto al prospettato inadempimento, la circostanza che la conduttrice ha provveduto ad onorare le obbligazioni derivanti dal contratto di locazione nonchè la circostanza che non è emerso alcun elemento, neppure a livello indiziario e/o presuntivo, idoneo a far ritenere sussistente la cessione del godimento in favore del terzo". Il motivo è fondato. Deve, anzitutto, premettersi che questa Corte (Cass., n. 5690/1993) ha già stabilito che la L. 17 luglio 1978, n. 392, che, all'art. 2 detta nuove disposizioni sulla sublocazione, ha implicitamente abrogato, ai sensi dell'art. 335 c.p.c.. Ricorso principale84 della medesima legge, le precedenti norme in materia alla L. 23 maggio 1950, n. 253, artt. 20, 23 e 24 ma non anche l'art. 21, che, prevedendo la presunzione di sublocazione nei casi in cui l'immobile sia occupato da persone che non sono al servizio o ospiti del conduttore nè a questo legate da vincoli di parentela o affinità entro il quarto grado, determina solo una inversione dell'onere della prova a favore del locatore, giustificata dalla generale difficoltà di prova della sublocazione, non essendo tale norma incompatibile con la nuova disciplina in materia di sublocazione stabilita dalla L. n. 392 del 1978, ancorchè in questa legge analoga presunzione è prevista, dall'art. 59, n. 7, solo ai fini dell'azione di recesso dai rapporti di locazione in regime transitorio, atteso che la ratio della detta norma, che è quella di agevolare la posizione del locatore, senza essere strumentale alla disciplina specifica dei soli contratti in regime transitorio, è comune ai contratti soggetti al regime ordinario. Occorre, inoltre, aggiungere che questa Corte ha anche ritenuto che è nulla la clausola di un contratto di locazione nella quale, oltre alla previsione del divieto di sublocazione, sia contenuto il riferimento al divieto di ospitalità non temporanea di persone estranee al nucleo familiare anagrafico, siccome confliggente proprio con l'adempimento dei doveri di solidarietà che si può manifestare attraverso l'ospitalità offerta per venire incontro ad altrui difficoltà, oltre che con la tutela dei rapporti sia all'interno della famiglia fondata sul matrimonio sia di una convivenza di fatto tutelata in quanto formazione sociale, o con l'esplicazione di rapporti di amicizia (OMISSIS) Con il secondo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle clausole generali della buona fede, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (art. 360 c.p.cXxxx., n. 314343/2009). Xxxxxx, se la ospitalità - anche non temporanea e protratta nel tempo - non concreta ipotesi di presunzione di sublocazione e se da essa neppure è dato presumere una detenzione autonoma dell'immobile locato derivante da un concesso comodato, devesi necessariamente ritenere che la semplice durata di tale permanenza, in relazione agli arttassenza di altre circostanze, non poteva essere assunta ad indizio grave e determinante idoneo a provare che ai suoi congiunti la conduttrice B. avesse accordato diritti propri del comodatario. 1175 Appare, di conseguenza, carente la statuizione del giudice del merito, che ha assunto a base del preteso comodato a favore della sorella e 1375 c.c.). Con il terzo motivo denunciano del nipote della B. la violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorietà della motivazione sul punto (art. 360 c.p.c.sola durata dell'accertata ospitalità, n. 5). Con il quarto motivo denunciano neppure accertando se la violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (art. 360 c.p.c., n. 3). Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, nei limiti di cui in motivazionedetenzione derivante dal comodato abbia riguardato la totalità dell'immobile, per le ragioni che seguono. Costituiscono principii generali avvenuto abbandono del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti conduttore, ovvero una parte soltanto di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezzaesso, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano conduttore abbia continuato ad abitare la restante parte. L'impugnata sentenza deve, perciò, essere cassata con rinvio per nuovo esame alla medesima Corte d'appello di omissis in contrasto con altri ordinamentidiversa composizione, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (artaderenza a quanto innanzi esposto, procederà a rinnovata valutazione del materiale probatorio raccolto. 1375 cod. civAl giudice del rinvio è rimessa anche la statuizione delle spese del presente giudizio di legittimità.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:

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Motivi della decisione. Preliminarmente1. Col primo dei tre motivi di ricorso, i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c.. Ricorso principale. (OMISSIS) Con il secondo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle clausole generali della buona fede, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c.). Con il terzo motivo denunciano la deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 102 c.p.c., art. 112 c.p.c., art. 163 c.p.c., nn. 3 e 4, nonchè artt. 2932 e 1350 c.c., in riferimento all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, M.E. si duole del fatto che i giudici d'appello abbiano ritenuto ammissibile la domanda di pronuncia dichiarativa dell'avvenuto trasferimento della proprietà del terreno in questione proposta nella memoria autorizzata ai sensi dell'art. 183 c.p.c., benchè essa fosse da ritenersi diversa rispetto alla domanda di pronuncia costitutiva ai sensi dell'art. 2932 c.c., proposta nell'atto di citazione con riguardo al medesimo immobile, e chiede pertanto a questo giudice di dire: se sia ammissibile la proposizione, nella memoria di cui all'art. 183 c.p.c., comma 5, di domanda diretta ad ottenere l'accertamento del trasferimento della proprietà di un immobile dopo che era stata proposta con l'atto di citazione domanda diretta ad ottenere l'esecuzione specifica dell'obbligo di contrarre relativamente al medesimo immobile; contraddittorietà se le due domande siano diverse per petitum e causa petendi; se il passaggio dall'una all'altra delle domande costituisca emendatio libelli ovvero mutatio libelli. Il collegio della motivazione sul punto (artseconda sezione civile di questa Corte, dinanzi al quale la causa è stata chiamata, considerato che il sopra esposto motivo richiede la soluzione di una questione di diritto sulla quale è riscontrabile un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte, ha, con ordinanza interlocutoria n. 2096 del 2014, sollecitato l'intervento compositivo di queste sezioni unite ai sensi dell'art. 374 c.p.c., comma 2. Tanto premesso, è innanzitutto da evidenziare che, come risulta dalla esposizione che precede, il motivo in esame, pur recando nell'epigrafe un chiaro riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 5), non contiene censure riguardanti la motivazione in fatto della sentenza nè tanto meno riporta - giusta la previsione di cui all'ultima parte dell'art. Con il quarto motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (art. 360 366 bis c.p.c., n. 3). Il secondo(applicabile nella specie, terzo e quarto motivoessendo stata la sentenza impugnata depositata il 19 marzo 2007) - la chiara indicazione di un fatto controverso rispetto al quale la motivazione si assuma in ipotesi viziata, investendo profili essendo peraltro appena il caso di evidenziare che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, nei limiti il motivo di cui in motivazioneall'art. 360, per le ragioni che seguono. Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.)5, non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari riguarda (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio testo applicabile ratione temporis nè di quello attualmente vigente) ipotetici "vizi" della buona fede nella esecuzione del contrattomotivazione in diritto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto Non vi è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la pertanto necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora valutare la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o sussistenza di alcuni limiti esterni eventuali deficienze della motivazione prima di procedere all'esame del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:problema giuridico proposto.

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Motivi della decisione. PreliminarmenteL'ordinanza a seguito della quale la causa è stata assegnata a queste sezioni unite pone la questione se la costituzione del fondo patrimoniale sia o meno una convenzione matrimoniale. L'ordinanza, i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c.. Ricorso principale. (OMISSIS) Con il secondo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle clausole generali della buona fede, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti pur prendendo atto dell'assenza di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c.). Con il terzo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorietà della motivazione sul punto (art. 360 c.p.c., n. 5). Con il quarto motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (art. 360 c.p.c., n. 3). Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, nei limiti un contrasto all'interno dell'orientamento giurisprudenziale di cui in motivazione, per le ragioni che seguono. Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli questa Corte secondo cui la parti costituzione del fondo patrimoniale è una convenzione matrimoniale, invita ad una rimeditazione del problema. Osserva l'ordinanza che l'atto con il quale viene costituito il patrimonio familiare non è una convenzione matrimoniale come si rileva dalla constatazione che lo stesso è disciplinato autonomamente nel capo 6^ Libro 1^ del c.c. e menzionato nell'art. 2647 c.c., comma 1. Rileva inoltre l'ordinanza che la stessa natura dell'atto in questione "parrebbe escludere la riconducibilità dello stesso alle convenzioni matrimoniali". Prosegue l'ordinanza che per aderire all'interpretazione fatta propria dalla corte di appello nella sentenza impugnata si dovrebbe accedere "ad una interpretazione estensiva dell'art. 162 c.c. al fine di ricomprendervi qualsiasi negozio che ponga beni appartenenti a persone coniugate in una condizione giuridica diversa da quella propria del regime patrimoniale legale, con conseguente funzione di pubblicità notizia della trascrizione, in quanto il considerare convenzione matrimoniale un atto unilaterale, in ipotesi posto in essere da un terzo, comporterebbe una interpretazione analogica (vietata) e non semplicemente estensiva dell'art. 162 c.c., comma 4". Afferma invece l'ordinanza che l'opponibilità ai terzi dell'atto di costituzione del fondo patrimoniale, "avente natura dichiarativa", non può che discendere dalla trascrizione ex art. 2647 c.c. e non dall'annotazione a margine dell'atto di matrimonio ex quarto comma art. 162 c.c.. Diversamente, precisa l'ordinanza, non potrebbe non essere rilevata l'incongruità di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo sistema pubblicitario nel quale al terzo acquirente, pur a conoscenza del vincolo gravante sul bene in virtù del controllo nei registri immobiliari, tale vincolo non sarebbe opponibile in quanto non annotato a margine dell'atto di matrimonio. Devono quindi essere esaminate le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguentiseguenti questioni: 1) la titolarità se l'atto di un diritto soggettivo in capo ad un soggettocostituzione del fondo patrimoniale di cui all'art. 167 c.c. sia o meno una convenzione matrimoniale ai fini dell'applicabilità della disposizione dell'art. 162 c.c., comma 4; 2) se, data risposta positiva al quesito che precede, l'opponibilità ai terzi dell'atto di costituzione del fondo patrimoniale - avente ad oggetto beni immobili - sia subordinata all'annotazione a margine dell'atto di matrimonio a prescindere dalla trascrizione del medesimo atto imposta dall'art. 2647 c.c.. Ai detti quesiti la possibilità corte di merito ha dato risposta positiva con sentenza che queste sezioni unite devono confermare confermando in tal modo i principi recentemente affermati da questa Corte con la sentenza 25/3/2009 n. 7210 pronunciata dopo la pubblicazione della citata ordinanza delle seconda sezione civile (richiamata ed esaminata nella detta sentenza) e con la quale è stato deciso un ricorso promosso dai coniugi F.- S. sulla base degli stessi quattro motivi prospettati con il ricorso in esame relativo ad una analoga fattispecie. Per quel che riguarda il primo motivo di ricorso va innanzitutto rilevata l'inammissibilità - puntualmente eccepita dalla società resistente - della censura con la quale i menzionati coniugi prospettano per la prima volta in questa sede di legittimità la tesi secondo cui nella specie sarebbe da escludere la sussistenza di una "convenzione matrimoniale" in quanto "nell'atto costitutivo del fondo la presenza dell'altro coniuge sig. F.G. è richiesta per la sola accettazione". Deducono in proposito i ricorrenti che il concreto esercizio fondo patrimoniale in questione è stato costituito "con atto unilaterale di quel diritto possa essere effettuato uno solo dei coniugi e con beni che rientravano nella sua proprietà esclusiva sicché alla costituzione per atto unilaterale non possono applicarsi sic et simpliciter le norme speciali della pubblicità". Al riguardo è appena il caso di osservare che la detta censura si basa su una questione - costituzione del fondo patrimoniale in esame da parte di uno solo e di entrambi i coniugi - non prospettata nei giudizi di merito. Della detta questione non si fa infatti alcun cenno nella sentenza impugnata nella quale, anzi, nella esposizione in fatto si da atto che i coniugi F.- S. nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado avevano dedotto di aver costituito, con atto del 20/4/1990, un fondo patrimoniale e, nella parte motiva, si premette che con il detto atto S.R. "con l'assenso del marito" aveva costituito il fondo patrimoniale. Sul punto va ribadito il principio pacifico nella giurisprudenza di legittimità secondo una pluralità cui nel giudizio di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza checassazione, a causa parte le questioni rilevabili di una tale modalità di esercizio, ufficio (sulle quali non si verifichi una sproporzione ingiustificata tra sia formato il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.giudicato), non può escludersi è consentita la proposizione di doglianze che, modificando la precedente impostazione difensiva, pongano a fondamento delle domande e delle eccezioni titoli diversi da quelli fatti valere nel pregresso giudizio di merito e prospettino comunque questioni fondate su elementi di fatto nuovi e difformi da quelli ivi proposti. I motivi del ricorso per cassazione devono infatti investire, a pena di inammissibilità, statuizioni e problematiche che abbiano formato oggetto del giudizio di appello per cui non possono essere prospettate questioni nuove o nuovi temi di indagine involgenti accertamenti non compiuti perché non richiesti in sede di merito. Pertanto ove il recesso ricorrente in sede di legittimità proponga una banca dal rapporto questione non trattata nella sentenza impugnata, al fine di apertura evitare una statuizione di creditoinammissibilità per novità della censura, benchè pattiziamente consentito ha l'onere (nella specie non rispettato) non solo di allegare l'avvenuta deduzione della questione avanti al giudice del merito, ma anche di indicare in difetto quale atto del precedente giudizio lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di giusta causacassazione di controllare "ex actis" la veridicità di tale asserzione, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cassprima di esaminarne il merito. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, Nella specie tale onere non è stato ritenuto che, rispettato: nel ricorso non si afferma che essi coniugi nei giudizi di merito avevano sostenuto l'impossibilità di ravvisare nella specie una "convenzione matrimoniale" per essere stato costituito il fondo patrimoniale con atto unilaterale della sola S.. La riportata tesi esposta dai ricorrenti con la parte non è quindi deducibile in presenza questa sede di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare legittimità perché introduce per la compensazione tra i saldi attivi prima volta un autonomo e passivi dei diversi conti intrattenuti diverso sistema difensivo che postula indagini e valutazioni non compiute dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.cappello perché non richieste., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:

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Motivi della decisione. PreliminarmenteCon il primo motivo di ricorso si deduce violazione degli artt. 1363, 1364 e 1378 c.c., e relativo difetto di motivazione; si censura la sentenza impugnata là dove “la Corte di Messina ha escluso la garanzia assicurativa fatta valere dal (C) nei confronti di (D) sul presupposto dell’applicabilità alla specie della causa di esclusione di responsabilità di cui l’art. 3 lett. q delle condizioni generali contenute nella polizza da (D) “ (ove era previsto l’esclusione della garanzia per i ricorsi - principale “danni a condutture ed incidentale - vanno riuniti ai sensi dell'artimpianti sotterranei in genere, fabbricati ed a cose in genere dovuti ad assestamento, cedimento, franamento o vibrazioni del terreno da qualsiasi causa determinati”). 335 c.p.c.. Ricorso principaleSi aggiunge che “il Consulente Tecnico d’Ufficio (CTU) Xxxxxxx non aveva fatto riferimento a franamenti o a cedimenti del terreno aveva, invece, individuato la causa scatenante dell’evento nella demolizione del fabbricato, congiuntamente con lo scavo di sottomurazione per la posa delle fondazioni del nuovo edificio”. (OMISSIS) Con il secondo motivo denunciano la si deduce violazione degli artt. 1341, 1342 c.c., e falsa applicazione delle clausole generali della buona fede, ed relativo difetto di motivazione in relazione alla suddetta clausola n.3 del contratto; in particolare si osserva che “la soluzione della Corte di Messina non sembra coerente con il tenore del dato testuale del contratto”. Si aggiunge che ha errato la Corte territoriale nel considerare non vessatoria la clausola in questione solo perché non sottoscritta ai sensi dell’art. 1341 c.c Il ricorso merita accoglimento in relazione ad entrambe le suddette censure. La ratio decidendi dell’impugnata decisione si basa, infatti, da un lato, sull’affermazione che le clausole limitative del rischio assicurato costituiscono delimitazione dell’oggetto del contratto di assicurazione e non limitazione di responsabilità, e, dall’altro, sulla pretesa insindacabilità degli atti negazione della vessatorietà di autonomia privata e della conseguente detta clausola n.3 lett. q in in quanto non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (specificatamente approvata per iscritto ex art. 360 c.p.c.1341, comma 2, c.c. Entrambi tali aspetti argomentativi sono censurabili. Innanzitutto deve rilevarsi, sulla base di quanto già statuito da questa Corte (tra le altre, n. 3395/2007), in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c.). Con il terzo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorietà che nel contratto di assicurazione sono da considerare clausole limitative della motivazione sul punto (art. 360 c.p.c., n. 5). Con il quarto motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (art. 360 c.p.c., n. 3). Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, nei limiti di cui in motivazioneresponsabilità, per gli effetti dell’art. 1341 cod. civ. (con conseguente sottoposizione delle stesse alla necessaria e specifica approvazione preventiva per iscritto), quelle clausole che limitano le ragioni conseguenze della colpa o dell’inadempimento o che seguono. Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di contratti, escludono il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione rischio garantito mentre attengono all’oggetto del contratto, così come alla sua formazione e non sono perciò, assoggettate al regime previsto dal secondo comma di detta norma, le clausole che riguardano il contenuto ed alla sua interpretazione edi limiti della garanzia assicurativa, in definitivae, accompagnarlo in ogni sua fase (Cassdunque, specificano il rischio garantito. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.)Ancora, quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezzaal secondo motivo, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte collegarsi all’ulteriore argomentazione della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Cosìmerito sulla ritenuta validità di detta clausola, in materia societaria censurabile è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da altresì la statuizione secondo cui per ritenersi vessatoria una clausola generale quale contrattuale (vale a dire tale da costituire un disequilibrio nel rapporto tra contraenti, dando luogo ad un indebito “privilegio” a favore di uno di essi) è necessario il dato formale della sua specifica approvazione per iscritto, prescindendo dal contenuto. Ne consegue, a seguito della cassazione dell’impugnata decisione, che deve enunciarsi il seguente principio di diritto: configura una non consentita limitazione di responsabilità, ex art. 1229 c.c. la correttezza e buona fede clausola di contratto assicurativo che, nell’escludere l’assicurazione del relativo rischio, ipotizza (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciprocicome nel caso di specie, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., con l’espressione testuale “da qualsiasi causa determinati”) in modo ampio ed indiscriminato la cui funzione è integrativa non comprensione dei danni nell’oggetto del contratto sociale, nel senso di imporre stesso. lnoltre l’esame e il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza giudizio sulla vessatorietà di una clausola negoziale chedebbono prescindere da dati meramente formali, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto come quelli in tema di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio sottoscrizione ex art. 2744 1341, comma 2, c.c.. (fermo restando che tale norma, (Cass. 16.10.1995 dopo l’entrata in vigore della nuova disciplina delle clausole vessatorie, di cui alla legge n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481)52/96 prima e al Codice del consumo poi, ed non è applicabile all’attualità, indipendentemente dalla presente controversia, al contratto autonomo rapporto professionista/imprenditore-consumatore, ma solo a quello riguardante soggetti in posizione di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273“parità” contrattuali, vale a dire contraenti o entrambi persone fisiche o entrambi professionisti-imprenditori). Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche La Corte accoglie il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, ricorso; cassa l’impugnata decisione e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle partirinvia, anche per le spese della presente fase, alla Corte di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico Appello di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, Messina in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:diversa composizione.

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Samples: Contratto Di Assicurazione Illegittime Le Clausole Troppo Generiche

Motivi della decisione. Preliminarmenteon il primo motivo la ricorrente lamenta viola- zione e falsa applicazione dell’art. 1304 Codice civile in relazione all’art. 360 Codice procedura civile, i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti nn. 3 e 5; avuto riguardo alla somma pretesa, il contratto di transazione deve essere considerato la «cau- sa petendi» della domanda; in base ai sensi dell'artcriteri di ordinaria applicazione la transazione ha natura novativa con l’ef- fetto che il precedente rapporto obbligatorio si è estinto e ad esso se ne è sostituito un altro che in tanto sarebbe stato efficace nei confronti della condebitrice solidale in quanto essa avesse dichiarato di volere profittare della transazione. 335 c.p.c.. Ricorso principale. (OMISSIS) Con il secondo motivo denunciano la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione delle clausole generali della buona fede, ed dell’art. 112 Codice procedura civile in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (artrelazione all’art. 360 c.p.c.Codice procedura civile, n. 3nn. 3 e 5; sia in primo che in secondo grado è stato chiesto il pagamento della som- ma di L. 11.000.000 corrispondente all’esatta metà del- l’obbligazione assunta con la transazione, mentre la cor- te di merito ha condannato al pagamento di L. 6.944.740 pari ad Euro 3.506,66 e, cioè, della metà del- l’obbligazione originaria; si è, pertanto, verificato muta- mento della «causa petendi» e del «petitum» o quanto meno ultrapetizione; la corte di merito non si è inoltre pronunciata sul moti- vo dell’appello incidentale secondo il quale nella specie difetta il rapporto di solidarietà; rapporto in relazione agli artteffetti esclu- so alla stregua della documentazione prodotta. 1175 I motivi sono connessi e 1375 c.c.)possono essere esaminati con- giuntamente. Con La Corte di merito ha ritenuto che nella specie la R., condebitrice solidale, ha proposto azione di regresso nei confronti dell’altra condebitrice, la D.A., chiedendo la quota di debito rapportata non già all’obbligazione origi- naria, ma a quella assunta con la transazione. Secondo la corte la transazione non vincola la condebi- trice che non vi ha partecipato e non ha dichiarato di volerne profittare tanto nei rapporti interni che in quel- li esterni, rimanendo essa obbligata sia negli uni come negli altri per l’obbligazione originaria. Sostiene la ricorrente che la transazione intervenuta nella specie ha natura novativa con l’effetto che l’obbli- gazione originaria si è estinta e la nuova non vincola la condebitrice che non l’ha stipulata e non ha dichiarato di volerne profittare. Va rilevato in proposito che l’art. 1304, primo comma, Codice civile («La transazione fatta dal creditore con uno dei debitori in solido non produce effetto nei con- fronti degli altri, se questi non dichiarano di volerne pro- fittare») disciplina gli effetti della transazione stipulata da uno solo dei debitori solidali e si riferisce alla transa- zione concernente l’intero debito solidale; quando, inve- ce, è limitata alla quota interna del debitore che la stipu- la, la transazione riduce il terzo motivo denunciano la violazione debito originario dell’importo corrispondente alla quota transatta e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorietà della motivazione sul punto (art. 360 c.p.c.scioglie il vincolo solidale fra lo stipulante e gli altri condebitori senza in- terferire sulla quota interna di essi, n. 5). Con che rimangono ob- bligati verso il quarto motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (art. 360 c.p.c., n. 3). Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, creditore nei limiti di cui in motivazione, per le ragioni che seguono. Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase loro quota (Cass. 5.3.2009 27 marzo 1999, n. 53482931; Cass. 11.6.2008 19 dicembre 1991, n. 1547613701). Ne consegue L’inefficacia della transazione nei confronti dei debito- ri che non vi hanno partecipato e non hanno dichiara- to di volerne profittare riguarda sia i rapporti esterni fra costoro ed il comune creditore che quelli interni fra il debitore che ha stipulato la clausola generale di buona fede transazione e correttezza gli altri debi- tori. In particolare, se la transazione ha ridotto o aumentato l’ammontare del debito originario, la misura del regresso va determinata applicando le percentuali delle quote in- terne all’ammontare originario e non a quello ridotto o aumentato. Se la transazione è operantenovativa della originaria obbligazio- ne solidale, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.)come quando non si limita a ridurre l’am- montare della prestazione controversa, quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezzama la sostituisce con un’altra, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio in caso di solidarietà socialepassiva, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo sensosecondo un orientamento dottrinale, fra le altre, Cassnon si applica l’art. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice 1304 Co- dice civile, sul puntobensì l’art. 1300, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore"primo comma, operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico moraleCodice ci- vile, con la conseguenza che colui i condebitori sono auto- maticamente liberati nei rapporti con il creditore senza bisogno che ne abusava era considerato meritevole dichiarino di biasimovolere profittare della transa- zione, ma non salva l’ipotesi di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità un effetto novativo limitato «pro quota» che comporta solo una proporzionale riduzione del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con debito solidale degli altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo)condebitori; preferendonei rapporti interni, invece, ad una norma di carattere i condebitori non rimangono necessa- riamente liberati, a questo fine occorrendo che il con- debitore che stipula la transazione rinunci al regresso; ciò perché la liberazione avviene mediante il sacrificio al quale esso si sobbarca per un ammontare superiore al- la sua quota. Secondo altro orientamento l’art. 1304 Codice civile si applica in quanto transazione e novazione non sono fat- tispecie identiche o assimilabili, cosicché la disciplina dell’una non si comunica a quella dell’altra. A questo secondo orientamento aderisce il Collegio, considerando che l’estinzione dell’obbligazione solida- le in conseguenza della transazione novativa ha un co- sto nelle concessioni fatte dal condebitore che la sti- pula e non è possibile imporre questo costo ai conde- bitori che non lo accettino mediante adesione al ne- gozio transattivo, ritenendolo sproporzionato o non conveniente rispetto all’estinzione; in questo caso si applica la regola generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale secondo la quale la correttezza transa- zione è inefficace nei confronti del condebitore che non vi ha partecipato e buona fede (contrattuale)non ha dichiarato di volerne profittare per quanto concerne sia i rapporti esterni che quelli interni. In Nella specie la natura novativa della transazione risulta dedotta per la prima volta in questa ottica i soci debbono eseguire sede ed, implicando il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso relativo accertamento valutazioni di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi fatto (Cass. 12.12.2005 19 maggio 2003, n. 273877830). Ancora, sempre nell'ambito societarioi motivi sono inammissibili per la parte che la concernono; è appena il caso di aggiunge- re che, se non fossero inammissibili, sarebbero infondati in quanto, come già detto, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità transazione anche se nova- tiva non vincola i debitori solidali che non la stipulino o non dichiarino di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione volerne profittare, come la D.A., se- condo quanto incensuratamente ritenuto dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso corte di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assolutimerito. In questa prospettiva risulta palese l’infondatezza delle censure mosse alla corte di merito per avere mutato «causa petendi» e «petitum», dovendosi riconoscere che la corte stessa si è limitata a qualificare la domanda ed in- dividuare la disciplina giuridica, facendone corretta ap- plicazione, senza travalicare i due principii limiti fissati alla sua atti- vità. La censura di omessa pronuncia sull’appello incidenta- le trova smentita nella sentenza impugnata, nella qua- le si integrano a vicendalegge «la scrittura 4 marzo 1989, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta sottoscritta anche dalla D.A., non è stata tempestivamente e ritualmente disconosciuta dalla parte, sicché, operando il principio del riconoscimento tacito ex art. 215 Codice procedu- ra civile, l’atto ha acquistato l’efficacia di prova legale sulla questione dell’esistenza dell’obbligazione solidale delle partiacquirenti per il pagamento del saldo del prezzo»; mentre non risulta dedotto come vizio di motivazione, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata bensì corno omessa pronuncia e, prospettando l'abusoperciò, la necessità inammissibil- mente il fatto che alla luce della documentazione ver- sata in atti non può ritenersi provata l’obbligazione so- lidale. I motivi sono, pertanto, infondati ed il ricorso è rigetta- to con condanna della ricorrente alle spese del giudizio di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:Cassazione.

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Samples: Contratto Di Endorsement

Motivi della decisione. Preliminarmente, i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c.. Ricorso principale. (OMISSIS) Con il secondo primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione delle clausole generali l'illegittimità della buona fede, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (pronuncia ex art. 360 c.p.c., n. 33 per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1346 - 1419 c.p.c. (rectius c.c.) in relazione alla clausola contrattuale determinativa del tasso di interesse ed alla clausola contrattuale di previsione dell'onere di rischio cambio a carico della parte mutuataria. Il motivo non è fondato. La Corte di legittimità, con la sentenza 25.11.2002 n. 16568, ha affermato che, in relazione agli materia di contratti bancari, ai sensi del combinato disposto della L. n. 154 del 1992, artt. 1175 6 e 1375 4 e D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 118, in ipotesi di variazioni delle condizioni contrattuali in senso sfavorevole per il cliente, l'obbligo di comunicazione al cliente medesimo sussiste per la banca solamente se ed in quanto essa abbia esercitato il diritto, contrattualmente previsto, di variare unilateralmente, ed in senso sfavorevole alla controparte, talune condizioni del contratto medesimo. Diversamente, se si tratta di variazione determinata da fattori (ad esempio, l'ammortamento semestrale del rateo di mutuo in correlazione con la variazione dell'ECU rispetto alla lira) di carattere oggettivo e natura aleatoria, già previsti i nel contratto; come nella specie. In tal caso, infatti, non può parlarsi di modifica unilaterale del contratto, e di essa il cliente risulta essersi, in ogni caso, già preventivamente assunto il relativo rischio. Sotto questo profilo, infatti, deve evidenziarsi che le parti, nel loro potere di autonomia negoziale, ben possono prefigurarsi la possibilità di sopravvenienza del rischio ed assumersene reciprocamente o unilateralmente lo stesso, modificando, in tal modo, lo schema tipico del contratto commutativo, mediante l'aggiunta di un rischio che a quello schema sarebbe estraneo rendendolo, per tale aspetto aleatorio, con l'effetto di escludere, nel caso del verificarsi delle sopravvenienze, l'applicabilità dei meccanismi riequilibratori previsti nell'ordinaria disciplina del contratto. In questo senso si è anche pronunciata la Corte Costituzionale che, prendendo in esame la norma del D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 118 (che ha apportato alcune modifiche non sostanziali alla precedente disciplina della L. n. 154 del 1992, art. 6), ha, con ordinanza n. 256 del 23 giugno 1999, dichiarato l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale di tale norma, ponendo in luce come non possa essere qualificata come modifica unilaterale del contratto "la determinazione oggettiva, contrattualmente e preventivamente stabilita dalla parti, dell'ammontare del debito in una moneta il cui valore, ragguagliato in lire, può variare nel tempo". Nel caso in esame, la Corte di merito ha preso in esame -diversamente da quel che affermano i ricorrenti - il motivo di impugnazione, con il quale gli appellanti avevano dedotto l'erroneità della decisione di primo grado nel ritenere che l'alterazione del cambio lira/ECU costituisse un evento rientrante, per espressa e comune previsione negoziale, nell'alea normale del contratto. Ed a tal fine, riconoscendolo infondato "per le stesse ragioni già esposte dal primo giudice e rispetto alle quali gli appellanti non hanno proposto motivi diversi da quelli già esposti nelle originarie difese", la stessa Corte ha richiamato la giurisprudenza della Corte di legittimità di cui si è dato conto più sopra, dichiarando di condividerla. Ne deriva l'infondatezza della censura, avanzata con il primo motivo di ricorso per cassazione, con il quale i ricorrenti hanno denunciato il mancato relativo esame, da parte della Corte di merito, che avrebbe aderito "pedissequamente a quanto statuito dal primo giudice", non riconoscendo la invocata nullità del negozio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1346 e 1419 c.c.), derivante da una supposta "clausola impossibile". Con il terzo secondo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorietà si denuncia l'illegittimità della motivazione sul punto (pronuncia ex art. 360 c.p.c., n. 5). Con il quarto motivo denunciano la 3 per violazione e e/o falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione dell'art. 342 c.p.c. - Ammissibilità del motivo di appello sulla dedotta indeterminatezza della giurisprudenza tedesca in materia (art. 360 c.p.c., n. 3). Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, nei limiti clausola determinativa degli interessi nel contratto di cui in motivazione, per le ragioni che seguono. Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto mutuo stipulato - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione omesso rilievo d'ufficio da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni Appello di Milano della intervenuta pronuncia della Cassazione a SS.UU. 12639/08 che ha stabilito gli effetti della risoluzione del contratto a seguito della notifica dell'atto di precetto. Il motivo non è fondato. Il principio della specificità dei motivi di impugnazione - richiesta dagli artt. 342 e 434 c.p.c. per la individuazione dell'oggetto della domanda d'appello e per stabilire l'ambito entro il quale deve essere effettuato il riesame della sentenza impugnata - impone all'appellante di individuare, con chiarezza, le statuizioni investite dall'impugnazione e le censure in Cassconcreto mosse alla motivazione della sentenza di primo grado, accompagnandole con argomentazioni che contrastino le ragioni addotte dal primo giudice, così da incrinarne il fondamento logico-giuridico. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). CosìPeraltro, in materia societaria è stato sindacatoprincipio pacifico che la verifica dell'osservanza dell'onere di specificazione non è direttamente effettuabile dal giudice dì legittimità, in una deliberazione assembleare di scioglimento poichè l'interpretazione della societàdomanda - e, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamentodunque, anche al della domanda di fuori appello - è compito del campo societariogiudice di merito, quello ed implica valutazioni di non abusare dei propri diritti fatto che la Corte di Cassazione - con approfittamento di una posizione di supremazia così come avviene per ogni operazione ermeneutica - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che ha il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione controllare soltanto sotto il profilo della giuridica correttezza del canone generale di buona fede nell'esecuzione relativo procedimento e della logicità del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo esito (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nnCass. 30055, 30056, 300571.2.2007 n. 2217). Il breve excursus esemplificativo consenteInoltre, perchè un capo di sentenza possa ritenersi validamente impugnato non è sufficiente che nell'atto d'appello sia manifestata una volontà in tal senso, ma è necessario che sia contenuta una parte argomentativa che, contrapponendosi alla motivazione della sentenza impugnata, con espressa e motivata censura, miri ad incrinarne - come già detto - il fondamento logico-giuridico (S.U. 9.11.2011 n. 23299). Ora, nella specie, la Corte di merito ha riprodotto in sentenza il secondo motivo dell'appello proposto come segue: "Ha errato il giudicante dal momento che ha statuito solamente riguardo al superamento del tasso soglia degli interessi convenuti e applicati tralasciando di esaminare quanto richiesto in merito alla clausola determinativa degli interessi in relazione al contratto inter-partes; agli interessi di mora alla differenza cambi, alle commissioni bancarie e gli eventuali oneri e spese accessorie (escluse imposte e tasse) componenti determinative per determinare il tasso effettivo globale applicato dalla banca. Invero per quanto riguarda gli interessi di mora a valere sugli interessi di mutuo il Giudicante si è riportato alla CTU tralasciando di esaminare le Note da far parte integrante del verbale di udienza 17/12/2002. Richiamato anche sia nella Comparsa Conclusionale che nella Memoria di Replica 30/09/2003. Si ripropongono tutte le domande, eccezioni, atti e istanze dì cui al 1^ GRADO da intendersi qui integralmente riportate". Ha, quindi, affermato che il motivo non soddisfaceva il requisito della specificità richiesto dall'art. 342 c.p.c. "limitandosi gli appellanti a fare mero e generico riferimento per relationem alle argomentazioni e agli atti difensivi del precedente grado di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso giudizio, senza muovere specifiche censure alla sentenza", concludendo "sicchè, in definitiva, la Corte non è posta in grado di identificare e vagliare, sulla base dell'atto di impugnazione, le ragioni per cui viene chiesta la riforma della sentenza; nè la controparte ha la possibilità di difendersi prendendo posizione su motivi di cui non conosce l'oggetto e le ragioni". L'indicazione testuale del diritto è uno dei criteri di selezionemotivo, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privatacosì come proposto, e valutare le condotte che, nell'ambito gli argomenti posti alla base della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso sua declaratoria di inammissibilità rendono evidente la correttezza del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - procedimento seguito dalla Corte di merito e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assolutilogicità del suo esito. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle partiD'altra parte, anche la formulazione del secondo motivo del ricorso per cassazione difetta dello stesso vizio originario di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita genericità non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenzaprecisandosi, in questa sede, impugnatase i rilievi che i ricorrenti muovono alla sentenza impugnata siano stati già avanzati nei precedenti gradi di merito, riportandone in ricorso il loro contenuto, con l'individuazione dello sede processuali in cui sarebbero stati proposti; violando, sia il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sia le norme dell'art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4. Nessuna influenza, da ultimo, riveste il denunciato "omesso rilievo d'ufficio da parte della Corte di Appello di Milano della intervenuta pronuncia della Cassazione a SS.UU. 12639/08 che ha stabilito gli effetti della risoluzione del contratto a seguito della notifica dell'atto di precetto", in quanto il suo esame è stato chiaramente assorbito dalla pregiudiziale declaratoria di inammissibilità del motivo. Conclusivamente, il ricorso è rigettato. Non può essere esaminata l'istanza, correttamente avanzata alla Corte di cassazione dalla resistente, - di liquidazione delle spese sostenute, davanti al giudice di appello, per lo svolgimento della procedura di sospensione dell'esecuzione della sentenza ai sensi dell'art. 373 c.p.c.. Infatti, perchè sia rispettato il principio del contraddittorio, tale richiesta è esaminabile a condizione che l'interessato produca, nei termini di cui all'art. 372 c.p.c., comma 2, una specifica e documentata istanza, comprensiva dei relativi atti, in modo da offrire alla controparte la possibilità di interloquire sul punto (Cass. 11.2.2009 n. 3341; v. anche Xxxx. 22.7.2011 n. 16121). Ciò che nella specie non è avvenuto, essendosi la resistente limitata ad avanzare la domanda soltanto nella memoria presentata ai sensi dell'art. 378 c.p.c.. Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e, liquidate come in dispositivo, sono poste a carico solidale dei ricorrenti. La struttura argomentativa Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese che liquida in complessivi Euro 3.500,00, di cui Euro 3.300,00 per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:Terza Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 12 aprile 2012.

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