Common use of IL CASO Clause in Contracts

IL CASO. La controversia decisa dalla Suprema Corte trae origine dal ricorso per decreto ingiuntivo, con cui la Tizia S.r.l. (appaltatrice) faceva valere il proprio diritto al pagamento del corrispettivo per l’esecuzione di un contratto di appalto concluso con la Caia S.r.l. (committente). Il decreto ingiuntivo emesso nei confronti della committente veniva da questa opposto e l’opposizione, accolta dal giudice di Pace di Verona, era poi confermata dal Tribunale scaligero. In sede d’appello, peraltro, la Caia S.r.l. chiedeva (in via incidentale) e otteneva la condanna della Tizia S.r.l. al risarcimento del danno in proprio favore nella misura di Euro 1.620,00. Dalla lettura della motivazione della pronuncia di secondo grado risultava altresì la risoluzione del contratto di appalto per l’inadempimento della società appaltatrice. E ciò, benché la risoluzione non fosse stata riportata nel dispositivo della sentenza. La Tizia S.r.l., originaria opponente, proponeva, dunque, ricorso per cassazione, articolandolo in più censure che meritano un approfondimento. A norma dell’art. 1655 c.c., «l’appalto è il contratto col quale una parte assume, con organizzazione di mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro». La definizione codicistica, nella sua sinteticità, ne delinea chiaramente gli elementi identitari e funzionali: l’appalto configura un’operazione economica che prende avvio dall’incarico, conferito dal committente a un’impresa, dietro la promessa di un corrispettivo preordinato alla realizzazione di un’opera o di un servizio [x. XXXXXXXX, Appalto, in PERLINGERI (diretto da), Tratt. dir. div. del Consiglio Nazionale del Notariato, Edizioni Scientifiche Italiane, 2015, 6-7]. La conclusione del contratto di appalto produce effetti obbligatori, importando, per l’appaltatore, la prestazione che ha per oggetto il compimento di un’opera o di un servizio, e per il committente, quella che ha per oggetto il pagamento di un corrispettivo in denaro [cfr. XXXXXXXXXXXX, L’appalto, in Tratt. Cicu-Messineo, Xxxxxxx Editore, 1977, 12]. A simili obbligazioni, principali, si aggiungono quelle di carattere accessorio, fra cui – per quanto qui più interessa – l’obbligazione dell’appaltatore di consegnare l’opera finita al committente. La Suprema Corte, nella sentenza in esame, ribadisce un principio ormai pacifico in giurisprudenza, ossia la distinzione tra l’«atto puramente materiale» della consegna e l’atto «negoziale» di accettazione dell’opera. Mentre «la consegna si compie mediante la [mera] messa a disposizione del bene a favore del committente, l’accettazione esige, al contrario, che il committente esprima (anche per facta concludentia) il gradimento dell’opera stessa, con conseguente manifestazione negoziale (…)». Ecco, dunque, che l’accettazione è qualificata come negozio unilaterale recettizio e produce effetti assai rilevanti sul piano del rapporto e, a mo’ di conseguenza, sul piano probatorio. Segnatamente, tale atto esonera l’appaltatore da ogni responsabilità per i vizi e le difformità dell’opera stessa; inoltre, a norma dell’art. 1665, comma 4, c.c., egli ha diritto al pagamento del corrispettivo, salvo diversa pattuizione o uso contrario [x. Xxxx. 31 luglio 2017, n. 19019, in DeJure]. In tema di garanzia per difformità e vizi nell’appalto, l’accettazione segna il discrimine, ai fini della distribuzione dell’onere della prova, nel senso che, sino a quando l’opera non sia stata espressamente o tacitamente accettata, al committente è sufficiente la mera allegazione dell’esistenza dei vizi, gravando sull’appaltatore l’onere di provare di aver eseguito l’opera conformemente al contratto e alle regole dell’arte; diversamente, una volta che l’opera sia stata positivamente verificata, spetta al committente, che l’ha accettata e che ne ha la disponibilità fisica e giuridica, dimostrare l’esistenza dei vizi e delle conseguenze dannose lamentate. A norma dell’art. 1667, comma 2, c.c., il committente è la parte gravata dall’onere di dimostrare la tempestiva denuncia dei vizi dell’opera. E, come pure la stessa Xxxxx aveva precedentemente chiarito, siffatto risultato ermeneutico appare in sintonia col principio della vicinanza al fatto oggetto di prova [x. Xxxx. 9 agosto 2013, n. 19146, in Giust. civ. Mass. 2013]. Nel caso di specie, a fronte della mera consegna dell’opera (solo parzialmente completata) dall’appaltatore al committente, spettava al primo provare l’avvenuto adempimento delle prestazioni a suo carico o l’eventuale causa di oggettiva impossibilità di adempierle. Per contro, la Caia S.r.l. (parte committente) era tenuta solo ad allegare e non certo a dimostrare i difetti lamentati.

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IL CASO. La controversia decisa vicenda giudiziaria, oggetto delle sentenze in commento nn. 531 e 532, del 2 aprile 2019, pronunciate dalla Suprema Corte trae origine dal ricorso Commissione Tributaria Provinciale di Bari – sez. distaccata di Lecce, origina dall’impugnazione di due avvisi di accertamento emessi nei confronti di due società incaricate della raccolta e smaltimento dei rifiuti urbani. Con riferimento al fatto concreto, l’Amministrazione Finanziaria riteneva che le società avessero effettuato il servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti in regime di concessione e che, pertanto, avessero illegittimamente beneficiato delle deduzioni Irap di cui all'art. 11, comma 1, lett. a) nn. 2), 3) e 4) del D.lgs. n. 446/97. Avverso tali atti impositivi, le società contribuenti proponevano due distinti ricorsi innanzi alla competente Commissione Tributaria Provinciale, deducendo di aver operato non in regime di concessione, bensì di contratto d’appalto e di rientrare, quindi, nel novero delle imprese legittimate a beneficiare delle succitate deduzioni Irap. Tanto in virtù del fatto che con l’art. 11, primo comma, lett. a), del D. Lgs. n. 446/1996, sono stati introdotti specifici sgravi per decreto ingiuntivoridurre la base imponibile Irap, in presenza di personale dipendente impiegato a tempo indeterminato, incluse le aziende operanti in regime di appalto e con l’esclusione, tuttavia, delle sole imprese operanti in concessione e a tariffa (c.d. “public utilities”) nei settori dell’energia elettrica, dell’acqua, dei trasporti, delle infrastrutture, delle poste, delle telecomunicazioni, della raccolta e depurazione delle acque di scarico e della raccolta e smaltimento dei rifiuti. Si costituiva in giudizio l’Agenzia delle Entrate, deducendo che le somme in contestazione fossero state erroneamente dedotte, alla luce del fatto che le società affidatarie del servizio avessero operato in regime di concessione e non di appalto. Ebbene, la Commissione Tributaria Provinciale di Lecce – sez. 4º – investita delle controversie, ha accolto le tesi difensive dell’Avvocato tributarista Xxxxxxxx Xxxxxxx. Invero, i giudici tributari, con cui la Tizia S.r.lle sentt. (appaltatrice) faceva valere 02 aprile 2019, nn. 531 e 532, hanno totalmente annullato gli avvisi di accertamento de quibus, rilevando che le società avessero effettuato il proprio diritto al pagamento del corrispettivo per l’esecuzione servizio di un contratto raccolta e smaltimento dei rifiuti urbani in regime di appalto concluso con la Caia S.r.l. (committente). Il decreto ingiuntivo emesso nei confronti della committente veniva da questa opposto e l’opposizione, accolta dal giudice non di Pace di Verona, era poi confermata dal Tribunale scaligero. In sede d’appello, peraltro, la Caia S.r.l. chiedeva (in via incidentale) concessione e otteneva la condanna della Tizia S.r.l. al risarcimento del danno in proprio favore nella misura di Euro 1.620,00. Dalla lettura della motivazione della pronuncia di secondo grado risultava altresì la risoluzione del contratto di appalto per l’inadempimento della società appaltatrice. E ciò, benché la risoluzione non fosse stata riportata nel dispositivo della sentenza. La Tizia S.r.l., originaria opponente, proponeva, dunque, ricorso per cassazione, articolandolo in più censure che meritano un approfondimento. A norma dell’art. 1655 c.c., «l’appalto è il contratto col quale una parte assume, con organizzazione di mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro». La definizione codicistica, nella sua sinteticità, ne delinea chiaramente gli elementi identitari e funzionali: l’appalto configura un’operazione economica che prende avvio dall’incarico, conferito dal committente a un’impresa, dietro la promessa di un corrispettivo preordinato alla realizzazione di un’opera o di un servizio [x. XXXXXXXX, Appalto, in PERLINGERI (diretto da), Tratt. dir. div. del Consiglio Nazionale del Notariato, Edizioni Scientifiche Italiane, 2015, 6-7]. La conclusione del contratto di appalto produce effetti obbligatori, importando, per l’appaltatore, la prestazione che ha per oggetto il compimento di un’opera o di un servizio, e per il committente, quella che ha per oggetto il pagamento di un corrispettivo in denaro [cfr. XXXXXXXXXXXX, L’appalto, in Tratt. Cicu-Messineo, Xxxxxxx Editore, 1977, 12]. A simili obbligazioni, principali, si aggiungono quelle di carattere accessorio, fra cui – per quanto qui più interessa – l’obbligazione dell’appaltatore di consegnare l’opera finita al committente. La Suprema Corte, nella sentenza in esame, ribadisce un principio ormai pacifico in giurisprudenza, ossia la distinzione tra l’«atto puramente materiale» della consegna e l’atto «negoziale» di accettazione dell’opera. Mentre «la consegna si compie mediante la [mera] messa a disposizione del bene a favore del committente, l’accettazione esige, al contrario, che il committente esprima (anche per facta concludentia) il gradimento dell’opera stessa, con conseguente manifestazione negoziale (…)». Ecco, dunque, che l’accettazione è qualificata come negozio unilaterale recettizio e produce effetti assai rilevanti sul piano del rapporto e, a mo’ di conseguenza, sul piano probatorio. Segnatamente, tale atto esonera l’appaltatore da ogni responsabilità per i vizi e le difformità dell’opera stessa; inoltre, a norma dell’art. 1665, comma 4, c.c., egli ha diritto al pagamento del corrispettivo, salvo diversa pattuizione o uso contrario [x. Xxxx. 31 luglio 2017, n. 19019, in DeJure]. In tema di garanzia per difformità e vizi nell’appalto, l’accettazione segna il discrimine, ai fini della distribuzione dell’onere della prova, nel senso che, sino pertanto, nei loro confronti erano state correttamente applicate le deduzioni Irap in presenza di personale dipendente impiegato a quando l’opera non sia stata espressamente o tacitamente accettata, al committente è sufficiente la mera allegazione dell’esistenza dei vizi, gravando sull’appaltatore l’onere di provare di aver eseguito l’opera conformemente al contratto e alle regole dell’arte; diversamente, una volta che l’opera sia stata positivamente verificata, spetta al committente, che l’ha accettata e che ne ha la disponibilità fisica e giuridica, dimostrare l’esistenza dei vizi e delle conseguenze dannose lamentate. A norma dell’art. 1667, comma 2, c.ctempo indeterminato., il committente è la parte gravata dall’onere di dimostrare la tempestiva denuncia dei vizi dell’opera. E, come pure la stessa Xxxxx aveva precedentemente chiarito, siffatto risultato ermeneutico appare in sintonia col principio della vicinanza al fatto oggetto di prova [x. Xxxx. 9 agosto 2013, n. 19146, in Giust. civ. Mass. 2013]. Nel caso di specie, a fronte della mera consegna dell’opera (solo parzialmente completata) dall’appaltatore al committente, spettava al primo provare l’avvenuto adempimento delle prestazioni a suo carico o l’eventuale causa di oggettiva impossibilità di adempierle. Per contro, la Caia S.r.l. (parte committente) era tenuta solo ad allegare e non certo a dimostrare i difetti lamentati.

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IL CASO. La controversia decisa dalla Suprema Corte trae origine vicenda processuale culminata, in primo grado, con la sentenza in epigrafe scaturisce dal ricorso ex art. 447-bis c.p.c. promosso da una moglie avverso il marito e la società di cui quest’ultimo ed il figlio risultano soci amministratori. In breve, i due sposi, coniugati in regime di comunione legale dei beni, sono comproprietari di alcuni immobili, tra i quali un negozio, un laboratorio, un appartamento ed un’autorimessa. Nel negozio e nel laboratorio si è svolta, sin dal 1972, un’attività di pasticceria, che, dopo essere stata esercitata per decreto ingiuntivosvariati anni da un’impresa familiare riconducibile al marito ed alla quale collaborava anche la moglie, è stata proseguita, in concomitanza con il ricorso per separazione proposto dalla donna, da una nuova società di cui sono soci amministratori il marito ed il figlio. Xxxxxxxxx, e questo è l’aspetto che qui rileva, il marito concludeva, all’insaputa della moglie, un contratto di locazione commerciale infranovennale con la Tizia S.r.lsocietà di nuova costituzione, concedendo alla stessa in godimento il negozio ed il laboratorio, beni entrambi in comunione legale. (appaltatrice) faceva valere Venuta a conoscenza della stipulazione, la donna aveva manifestato il proprio diritto dissenso alla locazione, sia perché reputava il canone pattuito troppo esiguo, sia perché tale vincolo negoziale le precludeva la possibilità di una giusta divisione immobiliare conseguente alla separazione; la donna provvedeva peraltro a trattenere, a titolo di acconto dell’indennità da occupazione sine titulo, le somme di denaro nel frattempo pervenutele quale canone locatizio. Nell’atto introduttivo del giudizio, la ricorrente lamentava la violazione del precetto di cui all’art. 180, cpv, c.c., per l’effetto domandando l’annullamento del contratto di locazione ai sensi dell’art. 184 c.c. nonché la condanna all’immediato rilascio dell’immobile illegittimamente occupato. Si noti che, pur rigettando le richieste avanzate dalla moglie, il giudice di prime cure ha preso atto dell’esistenza di un contrasto interpretativo in dottrina, tale da giustificare la decisione di compensazione delle spese. E da questa divergenza di opinioni il Tribunale ha infatti preso le mosse per risolvere il quesito sottoposto alla sua attenzione, concludendo nel senso della piena efficacia e validità del contratto contestato e rinvenendo sul terreno meramente risarcitorio l’unica forma di tutela della moglie estromessa dalla stipulazione. Peraltro, stante il difetto di una espressa domanda di risarcimento dei danni da parte della ricorrente, il Tribunale non ha potuto, nella specie, accordare neppure questo residuale strumento di protezione. Il percorso motivazionale della sentenza è scandito da un pluralità di argomenti giuridici, i quali, se da un lato evidenziano il tentativo di risolvere il caso concreto in modo quanto più conforme alle prescrizioni normative ed alla più recente evoluzione giurisprudenziale, dall’altro prestano il fianco a taluni rilievi critici, che rendono la conclusione a cui è approdato il giudice di merito non del tutto condivisibile. Nell’ordine seguito in sentenza, le argomentazioni sviluppate sono le seguenti. In primis, si è ritenuto che la sanzione dell’annullamento contemplata dall’art. 184 c.c. per gli atti di straordinaria amministrazione compiuti da un coniuge senza il consenso dell’altro “si applica solo agli atti di disposizione, ossia agli atti che comportano la fuoriuscita di un bene dal patrimonio familiare, non invece ai contratti che ne costituiscano modalità di gestione”. Si è all’uopo valorizzato il comma 3 della medesima disposizione, il quale, nell’ipotesi di atti relativi ai beni mobili non registrati, impone al pagamento coniuge che abbia posto in essere l’atto abusivo l’obbligo di ricostituire la comunione o di pagare l’equivalente del corrispettivo per l’esecuzione bene, “forme di reintegrazione del patrimonio familiare che sembrano presupporre che il bene non ne faccia più parte”. In secondo luogo, come desumibile dalla citata sentenza n. 25984 del 2008 della Corte di Cassazione, secondo il Tribunale sarebbe persino dubitabile che, a monte, la stipulazione di un contratto di appalto concluso con la Caia S.r.l. (committente). Il decreto ingiuntivo emesso nei confronti locazione infranovennale di un immobile parte della committente veniva da questa opposto e l’opposizionecomunione legale rientri effettivamente nel novero degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, accolta dal giudice per i quali è prescritto il consenso congiunto di Pace di Verona, era poi confermata dal Tribunale scaligero. In sede d’appello, peraltro, la Caia S.r.l. chiedeva (in via incidentale) e otteneva la condanna della Tizia S.r.l. al risarcimento del danno in proprio favore nella misura di Euro 1.620,00. Dalla lettura della motivazione della pronuncia di secondo grado risultava altresì la risoluzione del contratto di appalto per l’inadempimento della società appaltatrice. E ciò, benché la risoluzione non fosse stata riportata nel dispositivo della sentenza. La Tizia S.r.l., originaria opponente, proponeva, dunque, ricorso per cassazione, articolandolo in più censure che meritano un approfondimento. A norma ambedue i coniugi ai sensi dell’art. 1655 c.c., «l’appalto è il contratto col quale una parte assume, con organizzazione di mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro». La definizione codicistica, nella sua sinteticità, ne delinea chiaramente gli elementi identitari e funzionali: l’appalto configura un’operazione economica che prende avvio dall’incarico, conferito dal committente a un’impresa, dietro la promessa di un corrispettivo preordinato alla realizzazione di un’opera o di un servizio [x. XXXXXXXX, Appalto, in PERLINGERI (diretto da), Tratt. dir. div. del Consiglio Nazionale del Notariato, Edizioni Scientifiche Italiane, 2015, 6-7]. La conclusione del contratto di appalto produce effetti obbligatori, importando, per l’appaltatore, la prestazione che ha per oggetto il compimento di un’opera o di un servizio, e per il committente, quella che ha per oggetto il pagamento di un corrispettivo in denaro [cfr. XXXXXXXXXXXX, L’appalto, in Tratt. Cicu-Messineo, Xxxxxxx Editore, 1977, 12]. A simili obbligazioni, principali, si aggiungono quelle di carattere accessorio, fra cui – per quanto qui più interessa – l’obbligazione dell’appaltatore di consegnare l’opera finita al committente. La Suprema Corte, nella sentenza in esame, ribadisce un principio ormai pacifico in giurisprudenza, ossia la distinzione tra l’«atto puramente materiale» della consegna e l’atto «negoziale» di accettazione dell’opera. Mentre «la consegna si compie mediante la [mera] messa a disposizione del bene a favore del committente, l’accettazione esige, al contrario, che il committente esprima (anche per facta concludentia) il gradimento dell’opera stessa, con conseguente manifestazione negoziale (…)». Ecco, dunque, che l’accettazione è qualificata come negozio unilaterale recettizio e produce effetti assai rilevanti sul piano del rapporto e, a mo’ di conseguenza, sul piano probatorio. Segnatamente, tale atto esonera l’appaltatore da ogni responsabilità per i vizi e le difformità dell’opera stessa; inoltre, a norma dell’art. 1665, comma 4, c.c., egli ha diritto al pagamento del corrispettivo, salvo diversa pattuizione o uso contrario [x. Xxxx. 31 luglio 2017, n. 19019, in DeJure]. In tema di garanzia per difformità e vizi nell’appalto, l’accettazione segna il discrimine, ai fini della distribuzione dell’onere della prova, nel senso che, sino a quando l’opera non sia stata espressamente o tacitamente accettata, al committente è sufficiente la mera allegazione dell’esistenza dei vizi, gravando sull’appaltatore l’onere di provare di aver eseguito l’opera conformemente al contratto e alle regole dell’arte; diversamente, una volta che l’opera sia stata positivamente verificata, spetta al committente, che l’ha accettata e che ne ha la disponibilità fisica e giuridica, dimostrare l’esistenza dei vizi e delle conseguenze dannose lamentate. A norma dell’art. 1667180, comma 2, c.c.. Da ultimo, il committente è giudice xxxxxxxxx ha altresì escluso che la parte gravata dall’onere sanzione applicabile potesse essere l’inefficacia del contratto per difetto di dimostrare legittimazione a disporre, a ciò ostando la tempestiva denuncia dei vizi dell’operarecente sentenza della Corte di Cassazione a SS.UU. En. 11135/2012, come pure con la stessa Xxxxx aveva precedentemente chiarito, siffatto risultato ermeneutico appare in sintonia col principio della vicinanza al fatto oggetto di prova [x. Xxxx. 9 agosto 2013, n. 19146quale il collegio allargato ha statuito che, in Giust. civ. Mass. 2013]. Nel caso di specie, a fronte della mera consegna dell’opera (solo parzialmente completata) dall’appaltatore al committente, spettava al primo provare l’avvenuto adempimento delle prestazioni a suo carico o l’eventuale causa di oggettiva impossibilità di adempierle. Per controcomunione ordinaria, la Caia S.r.l. (concessione in locazione di un immobile da parte committente) era tenuta solo ad allegare di un comproprietario in assenza del consenso dell’altro, e non certo a dimostrare i difetti lamentatisenza il preventivo dissenso dello stesso, costituisce gestione di affari altrui.

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IL CASO. La controversia decisa dalla Suprema Corte trae origine dal ricorso per decreto ingiuntivosentenza in commento ha deciso un contenzioso in fatto alquanto ingarbugliato e di notevole portata economica. L’impresa Alfa è mandataria dell’ATI assegnataria dei lavori, e sottoscrive con cui la Tizia S.r.l. (appaltatrice) faceva valere il proprio diritto al pagamento del corrispettivo per l’esecuzione di un Xxxxxxxx ceduto il contratto di appalto concluso del 5 febbraio 2003. Vengono apposte nel registro ufficiale di contabilità di cantiere, in calce agli Stati di Avanzamento Lavori, numerose riserve dell’appaltatore relative a crediti per adeguamento del corrispettivo derivante da maggiori oneri e mezzi impiegati rispetto a quelli previsti alla luce delle prescrizioni dei documenti contrattuali e di gara. Interviene a questo punto la finanziaria Beta, che si rende cessionaria della gran parte dei crediti da riserva, con atto di cessione del 14 marzo 2008, regolarmente notificato al Debitore ceduto tramite Ufficiale giudiziario. Successivamente, il 23 novembre 2010, Xxxx è dichiarata fallita dal Tribunale di Milano. Ma l’apertura della procedura non chiude la Caia S.r.lvicenda. Il Collegio dei Curatori, in sede di Conto finale e collaudo tecnico – amministrativo, conferma le riserve apposte dall’appaltatore (committentecome ricordato, non tutte oggetto di cessione in favore di Alfa). Il decreto ingiuntivo emesso nei confronti della committente veniva da questa opposto e l’opposizioneInterviene a questo punto un ulteriore soggetto, accolta dal giudice la società Gamma, che presenta una proposta di Pace di Veronaconcordato fallimentare, era poi confermata accettata dai creditori ed omologata dal Tribunale scaligerodi Milano il 31 dicembre 2014. In sede d’appelloGamma, peraltrodivenuta cessionaria sulla base della proposta approvata di tutto l’attivo fallimentare, rivendica quindi la Caia S.r.ltitolarità dei crediti da riserva non ceduti a Beta. chiedeva Il Tribunale di Milano, sezione imprese (competente in via incidentale) e otteneva la condanna della Tizia S.r.ltema di lavori pubblici di rilevanza comunitaria ex art. al risarcimento del danno in proprio favore nella misura di Euro 1.620,00. Dalla lettura della motivazione della pronuncia di secondo grado risultava altresì la risoluzione del contratto di appalto per l’inadempimento della società appaltatrice. E ciò, benché la risoluzione non fosse stata riportata nel dispositivo della sentenza. La Tizia S.r.l., originaria opponente, proponeva, dunque, ricorso per cassazione, articolandolo in più censure che meritano un approfondimento. A norma dell’art. 1655 c.c., «l’appalto è il contratto col quale una parte assume, con organizzazione di mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro». La definizione codicistica, nella sua sinteticità, ne delinea chiaramente gli elementi identitari e funzionali: l’appalto configura un’operazione economica che prende avvio dall’incarico, conferito dal committente a un’impresa, dietro la promessa di un corrispettivo preordinato alla realizzazione di un’opera o di un servizio [x. XXXXXXXX, Appalto, in PERLINGERI (diretto da), Tratt. dir. div. del Consiglio Nazionale del Notariato, Edizioni Scientifiche Italiane, 2015, 6-7]. La conclusione del contratto di appalto produce effetti obbligatori, importando, per l’appaltatore, la prestazione che ha per oggetto il compimento di un’opera o di un servizio, e per il committente, quella che ha per oggetto il pagamento di un corrispettivo in denaro [cfr. XXXXXXXXXXXX, L’appalto, in Tratt. Cicu-Messineo, Xxxxxxx Editore, 1977, 12]. A simili obbligazioni, principali, si aggiungono quelle di carattere accessorio, fra cui – per quanto qui più interessa – l’obbligazione dell’appaltatore di consegnare l’opera finita al committente. La Suprema Corte, nella sentenza in esame, ribadisce un principio ormai pacifico in giurisprudenza, ossia la distinzione tra l’«atto puramente materiale» della consegna e l’atto «negoziale» di accettazione dell’opera. Mentre «la consegna si compie mediante la [mera] messa a disposizione del bene a favore del committente, l’accettazione esige, al contrario, che il committente esprima (anche per facta concludentia) il gradimento dell’opera stessa, con conseguente manifestazione negoziale (…)». Ecco, dunque, che l’accettazione è qualificata come negozio unilaterale recettizio e produce effetti assai rilevanti sul piano del rapporto e, a mo’ di conseguenza, sul piano probatorio. Segnatamente, tale atto esonera l’appaltatore da ogni responsabilità per i vizi e le difformità dell’opera stessa; inoltre, a norma dell’art. 16653, comma 43, c.c., egli ha diritto al pagamento lett. f) del corrispettivo, salvo diversa pattuizione o uso contrario [x. Xxxxd. lgs. 31 luglio 201727 giugno 2003, n. 19019, in DeJure]. In tema di garanzia per difformità 168 e vizi nell’appalto, l’accettazione segna il discrimine, ai fini della distribuzione dell’onere della prova, nel senso che, sino successive modifiche) è quindi chiamato a quando l’opera non sia stata espressamente o tacitamente accettata, al committente è sufficiente sbrogliare la mera allegazione dell’esistenza dei vizi, gravando sull’appaltatore l’onere di provare di aver eseguito l’opera conformemente al contratto e alle regole dell’arte; diversamente, una volta che l’opera sia stata positivamente verificata, spetta al committente, che l’ha accettata e che ne ha la disponibilità fisica e giuridica, dimostrare l’esistenza dei vizi e delle conseguenze dannose lamentate. A norma dell’art. 1667, comma 2, c.cmatassa., il committente è la parte gravata dall’onere di dimostrare la tempestiva denuncia dei vizi dell’opera. E, come pure la stessa Xxxxx aveva precedentemente chiarito, siffatto risultato ermeneutico appare in sintonia col principio della vicinanza al fatto oggetto di prova [x. Xxxx. 9 agosto 2013, n. 19146, in Giust. civ. Mass. 2013]. Nel caso di specie, a fronte della mera consegna dell’opera (solo parzialmente completata) dall’appaltatore al committente, spettava al primo provare l’avvenuto adempimento delle prestazioni a suo carico o l’eventuale causa di oggettiva impossibilità di adempierle. Per contro, la Caia S.r.l. (parte committente) era tenuta solo ad allegare e non certo a dimostrare i difetti lamentati.

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IL CASO. La controversia decisa dalla Suprema Corte trae origine dal ricorso L’avv. L.S. ed il calciatore professionista S.A., stipu- larono il 24 giugno 1999 un contratto in virtù del quale il primo assunse l’incarico di rappresentare ed assistere il secondo, in via esclusiva e per decreto ingiuntivola durata di cinque anni, nell’attività diretta alla definizione della durata e del compenso del contratto di prestazione sportiva con so- cietà di calcio professionistico, all’assistenza nel rapporto con la società, alla cessione, anche a favore di soggetti diversi dalle società di calcio, dell’utilizzo dell’immagine, del nome o di quant’altro consimile del predetto calcia- tore professionista e, comunque, alla redazione e stipula di tutti i relativi contratti. scia Calcio S.p.a. L’avv. L.S., quindi, con cui atto di citazione notificato il 10 gennaio 2003 conveniva dinnanzi al Tribunale di Udine il calciatore S.A., chiedendone la Tizia S.r.l. (appaltatrice) faceva valere il proprio diritto condanna al pagamento pa- gamento sia del corrispettivo saldo del compenso spettantegli per l’esecuzione di un la conclusione del primo contratto di appalto concluso con la Caia S.r.lH.V. S.p.a. (committente)grazie alla sua opera di mediazione, che della pena- le prevista nel contratto del 24 giugno 1999. Si costituiva il convenuto contestando la fondatezza della pretesa at- torea richiamandosi, in linea di diritto, alle norme del- l’ordinamento sportivo ed in particolare a quanto previ- sto dall’allora vigente «Regolamento dell’attività di pro- curatore sportivo», all’interno del quale erano previste, a pena di nullità, specifiche norme formali e procedimen- tali per il conferimento di un mandato valido ed efficace al procuratore sportivo. Il decreto ingiuntivo emesso nei confronti della committente veniva convenuto osservava, inoltre, che sebbene la nullità fosse prevista non da questa opposto una legge, bensì da un mero «contratto normativo» (1) vincolante per entrambe le parti, in quanto appartenenti all’ordina- mento sportivo, tali formalità costituivano forme con- venzionali regolate dall’art. 1352 Codice civile; che inol- tre, in base alle successive norme del regolamento, che imponevano formalità di deposito, gli incarichi non de- positati o non spediti dovevano considerarsi irrilevanti e l’opposizioneprivi di giuridica efficacia per l’ordinamento federale e quindi anche per l’ordinamento statale. Ciò premesso il convenuto rilevava che il contratto sul quale l’attore aveva fondato le sue pretese di condan- na, accolta dal giudice di Pace di Veronapur essendo stato stipulato tra soggetti dell’ordina- mento sportivo, e pur perseguendo lo scopo pratico dei modelli predisposti dalla F.I.G.C., era poi confermata dal Tribunale scaligero. In sede d’appellostato stipulato in dispregio sia della «forma in senso stretto» che della «forma in senso lato», peraltrononché conteneva una serie di clausole in contrasto con i regolamenti federali (quella relativa al compenso, la Caia S.r.l. chiedeva (in via incidentaledurata e la penale) e otteneva la condanna della Tizia S.r.l. al risarcimento del danno in proprio favore nella misura di Euro 1.620,00. Dalla lettura della motivazione della pronuncia di secondo grado risultava altresì la risoluzione del contratto di appalto che per l’inadempimento della società appaltatrice. E ciò, benché la risoluzione non fosse stata riportata nel dispositivo della sentenza. La Tizia S.r.l., originaria opponente, proponeva, dunque, ricorso per cassazione, articolandolo in più censure che meritano un approfondimento. A norma dell’art. 1655 c.c., «l’appalto è questi motivi il contratto col quale una parte assume, con organizzazione non era idoneo a realizzare in- teressi meritevoli di mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro»tutela secondo l’ordinamento giuri- dico ex art. La definizione codicistica, nella sua sinteticità, ne delinea chiaramente gli elementi identitari e funzionali: l’appalto configura un’operazione economica che prende avvio dall’incarico, conferito dal committente a un’impresa, dietro la promessa di un corrispettivo preordinato alla realizzazione di un’opera o di un servizio [x. XXXXXXXX, Appalto, in PERLINGERI (diretto da), Tratt. dir. div. del Consiglio Nazionale del Notariato, Edizioni Scientifiche Italiane, 2015, 6-7]. La conclusione del contratto di appalto produce effetti obbligatori, importando, per l’appaltatore, la prestazione che ha per oggetto il compimento di un’opera o di un servizio, e per il committente, quella che ha per oggetto il pagamento di un corrispettivo in denaro [cfr. XXXXXXXXXXXX, L’appalto, in Tratt. Cicu-Messineo, Xxxxxxx Editore, 1977, 12]. A simili obbligazioni, principali, si aggiungono quelle di carattere accessorio, fra cui – per quanto qui più interessa – l’obbligazione dell’appaltatore di consegnare l’opera finita al committente. La Suprema Corte, nella sentenza in esame, ribadisce un principio ormai pacifico in giurisprudenza, ossia la distinzione tra l’«atto puramente materiale» della consegna e l’atto «negoziale» di accettazione dell’opera. Mentre «la consegna si compie mediante la [mera] messa a disposizione del bene a favore del committente, l’accettazione esige, al contrario, che il committente esprima (anche per facta concludentia) il gradimento dell’opera stessa, con conseguente manifestazione negoziale (…)». Ecco, dunque, che l’accettazione è qualificata come negozio unilaterale recettizio e produce effetti assai rilevanti sul piano del rapporto e, a mo’ di conseguenza, sul piano probatorio. Segnatamente, tale atto esonera l’appaltatore da ogni responsabilità per i vizi e le difformità dell’opera stessa; inoltre, a norma dell’art. 1665, comma 4, c.c., egli ha diritto al pagamento del corrispettivo, salvo diversa pattuizione o uso contrario [x. Xxxx. 31 luglio 2017, n. 19019, in DeJure]. In tema di garanzia per difformità e vizi nell’appalto, l’accettazione segna il discrimine, ai fini della distribuzione dell’onere della prova, nel senso che, sino a quando l’opera non sia stata espressamente o tacitamente accettata, al committente è sufficiente la mera allegazione dell’esistenza dei vizi, gravando sull’appaltatore l’onere di provare di aver eseguito l’opera conformemente al contratto e alle regole dell’arte; diversamente, una volta che l’opera sia stata positivamente verificata, spetta al committente, che l’ha accettata e che ne ha la disponibilità fisica e giuridica, dimostrare l’esistenza dei vizi e delle conseguenze dannose lamentate. A norma dell’art. 16671322, comma 2, c.c.Codice civile. Osservava an- cora il convenuto che entrambe le parti (il calciatore col tesseramento e l’attore con l’iscrizione nell’apposito al- bo), il committente è si erano obbligate a stipulare i futuri contratti (nel- l’ambito considerato), rispettando le forme previste dal- l’ordinamento sportivo cui avevano spontaneamente aderito e quindi al «contratto normativo» che quest’ul- timo aveva predisposto e che vincolava i soggetti di ap- partenenza. Il convenuto concludeva chiedendo la parte gravata dall’onere reie- zione della domanda attorea per la radicale inefficacia ed invalidità del contratto «azionato». A fronte dell’eccepita inefficacia e/o nullità del contratto di dimostrare la tempestiva denuncia dei vizi dell’opera. Emandato per contrasto con le «forme» im- poste dal «Regolamento dell’attività di procuratore spor- tivo», come pure la stessa Xxxxx aveva precedentemente chiaritol’attore precisava, siffatto risultato ermeneutico appare in sintonia col principio della vicinanza al fatto oggetto da un lato, di prova [x. Xxxx. 9 agosto 2013, n. 19146, in Giust. civ. Mass. 2013]. Nel caso di specie, a fronte della mera consegna dell’opera (solo parzialmente completata) dall’appaltatore al committente, spettava al primo provare l’avvenuto adempimento delle prestazioni a suo carico o l’eventuale causa di oggettiva impossibilità di adempierle. Per contro, la Caia S.r.l. (parte committente) era tenuta solo ad allegare e non certo a dimostrare i difetti lamentati.aver ricevuto l’in-

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IL CASO. La controversia decisa Con Contratto Quadro del 6 aprile 1999, il Cedente, Alfa, ha regolato con il Factor le cessioni dei crediti d’impresa che Alfa avrebbe maturato nell’ambito della propria attività imprenditoriale di fornitura di prestazioni sanitarie in regime di accreditamento. Nell’ambito del rapporto di factoring, sono stati sottoscritti tra il Cedente e il Factor atti pubblici di cessione dei crediti i) in data 5 maggio 2007 in riferimento a crediti, nei confronti di una Azienda Sanitaria Locale, già maturati e che sarebbero maturati per prestazioni rese sino al dicembre 2007; e ii) in data 30 maggio 2008 in relazione a crediti, sempre nei confronti del medesimo debitore Xxxxxx, già a quella data maturati e che sarebbero venuti a esistenza per prestazioni rese sino al dicembre 2009. Nel corso del giudizio di primo grado, è tuttavia intervenuto in giudizio il Fallimento del Cedente (fallimento dichiarato il 3 aprile 2013 dal Tribunale di Napoli) il quale ha allegato che il Curatore si sarebbe sciolto dal contratto pendente ai sensi dell’art. 72 l.f., scioglimento del contratto che, secondo la tesi espressa dalla Suprema Corte trae origine dal ricorso per decreto ingiuntivoCuratela, con cui avrebbe comportato il venir meno della legittimazione attiva del Factor alla riscossione del credito1. In sostanza, secondo la Tizia S.r.l. (appaltatrice) faceva valere prospettazione del Fallimento, il proprio diritto al pagamento del corrispettivo per l’esecuzione di rapporto intercorso tra Xxxx e il Factor si sarebbe risolto in un contratto di appalto concluso mandato per la gestione dei crediti di Alfa, con la Caia S.r.l. (committente). Il decreto ingiuntivo emesso conseguenza per cui, scioltosi il rapporto a seguito della scelta effettuata dalla Curatela, sarebbe venuta meno la legittimazione del Factor a riscuotere il credito nei confronti della committente veniva da questa opposto e l’opposizione, accolta dal giudice di Pace di Verona, era poi confermata dal Tribunale scaligeroASL. In sede d’appello, peraltro, la Caia S.r.l. chiedeva (in via incidentale) e otteneva la condanna della Tizia S.r.l. al risarcimento del danno in proprio favore nella misura di Euro 1.620,00. Dalla lettura della motivazione della pronuncia di secondo grado risultava altresì la risoluzione Lo scioglimento del contratto di appalto per l’inadempimento della società appaltatricefactoring era peraltro stato autorizzato dal Giudice delegato presso il Tribunale di Napoli, con provvedimento reclamato dal Factor ai sensi dell’art. E ciò, benché la risoluzione non fosse stata riportata nel dispositivo della sentenza. La Tizia S.r.l26 l.f., originaria opponente, proponeva, dunque, reclamo contro il cui rigetto il Factor ha proposto ricorso per cassazione, articolandolo in più censure che meritano un approfondimento. A norma dell’art. 1655 c.cCassazione., «l’appalto è il contratto col quale una parte assume, con organizzazione di mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro». La definizione codicistica, nella sua sinteticità, ne delinea chiaramente gli elementi identitari e funzionali: l’appalto configura un’operazione economica che prende avvio dall’incarico, conferito dal committente a un’impresa, dietro la promessa di un corrispettivo preordinato alla realizzazione di un’opera o di un servizio [x. XXXXXXXX, Appalto, in PERLINGERI (diretto da), Tratt. dir. div. del Consiglio Nazionale del Notariato, Edizioni Scientifiche Italiane, 2015, 6-7]. La conclusione del contratto di appalto produce effetti obbligatori, importando, per l’appaltatore, la prestazione che ha per oggetto il compimento di un’opera o di un servizio, e per il committente, quella che ha per oggetto il pagamento di un corrispettivo in denaro [cfr. XXXXXXXXXXXX, L’appalto, in Tratt. Cicu-Messineo, Xxxxxxx Editore, 1977, 12]. A simili obbligazioni, principali, si aggiungono quelle di carattere accessorio, fra cui – per quanto qui più interessa – l’obbligazione dell’appaltatore di consegnare l’opera finita al committente. La Suprema Corte, nella sentenza in esame, ribadisce un principio ormai pacifico in giurisprudenza, ossia la distinzione tra l’«atto puramente materiale» della consegna e l’atto «negoziale» di accettazione dell’opera. Mentre «la consegna si compie mediante la [mera] messa a disposizione del bene a favore del committente, l’accettazione esige, al contrario, che il committente esprima (anche per facta concludentia) il gradimento dell’opera stessa, con conseguente manifestazione negoziale (…)». Ecco, dunque, che l’accettazione è qualificata come negozio unilaterale recettizio e produce effetti assai rilevanti sul piano del rapporto e, a mo’ di conseguenza, sul piano probatorio. Segnatamente, tale atto esonera l’appaltatore da ogni responsabilità per i vizi e le difformità dell’opera stessa; inoltre, a norma dell’art. 1665, comma 4, c.c., egli ha diritto al pagamento del corrispettivo, salvo diversa pattuizione o uso contrario [x. Xxxx. 31 luglio 2017, n. 19019, in DeJure]. In tema di garanzia per difformità e vizi nell’appalto, l’accettazione segna il discrimine, ai fini della distribuzione dell’onere della prova, nel senso che, sino a quando l’opera non sia stata espressamente o tacitamente accettata, al committente è sufficiente la mera allegazione dell’esistenza dei vizi, gravando sull’appaltatore l’onere di provare di aver eseguito l’opera conformemente al contratto e alle regole dell’arte; diversamente, una volta che l’opera sia stata positivamente verificata, spetta al committente, che l’ha accettata e che ne ha la disponibilità fisica e giuridica, dimostrare l’esistenza dei vizi e delle conseguenze dannose lamentate. A norma dell’art. 1667, comma 2, c.c., il committente è la parte gravata dall’onere di dimostrare la tempestiva denuncia dei vizi dell’opera. E, come pure la stessa Xxxxx aveva precedentemente chiarito, siffatto risultato ermeneutico appare in sintonia col principio della vicinanza al fatto oggetto di prova [x. Xxxx. 9 agosto 2013, n. 19146, in Giust. civ. Mass. 2013]. Nel caso di specie, a fronte della mera consegna dell’opera (solo parzialmente completata) dall’appaltatore al committente, spettava al primo provare l’avvenuto adempimento delle prestazioni a suo carico o l’eventuale causa di oggettiva impossibilità di adempierle. Per contro, la Caia S.r.l. (parte committente) era tenuta solo ad allegare e non certo a dimostrare i difetti lamentati.

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