Introduzione 5
Indice
Introduzione 5
Parte Prima: Analisi teorica
1. Definizioni di Famiglia e Flessibilità 7
2. La scienza economica e i contratti flessibili 13
2.1 Il rapporto tra flessibilità e occupazione 13
2.1.1 Gli economisti classici 14
2.1.2 Gli economisti marginalisti 18
2.1.3 Gli economisti Istituzionalisti 19
2.1.4 La Nuova Economia Keynesiana 21
2.2 Flessibilità e Produttività 23
2.3 Rapporto tra lavoro flessibile e retribuzione del lavoro 24
2.4 I contratti flessibili e l’ingresso nel mondo del lavoro 26
3. Il diritto del lavoro 29
3.1 I lavoro subordinato, parasubordinato e autonomo 31
3.2 Le tipologie contrattuali “Flessibili” 33
3.2.1 Il contratto a tempo determinato 34
3.2.2 Il contratto di apprendistato 37
3.2.3 Il contratto a progetto 43
3.2.4 Il rapporto di lavoro somministrato 46
3.2.5 Il contratto di lavoro intermittente 50
3.2.6 Il tirocinio formativo 52
3.2.7 Il contratto di lavoro Part-Time 54
3.3 Una riflessione sulla regolazione dei contratti
“Flessibili” 56
3.4 Gli strumenti di tutela della maternità in Italia 57
3.4.1 Diritto alla sospensione dell’attività
LAVORATIVA PER LE LAVORATRICI SUBORDINATE 60
3.4.2 Diritto alla sospensione dell’attività lavorativa per le lavoratrici non
SUBORDINATE 65
3.4.3 Diritto alla sospensione dell’attività
LAVORATIVA PER LE LAVORATRICI NON OCCUPATE 68
3.5 La protezione della lavoratrice madre e del lavoratore padre: uno sguardo tra i diversi trattamenti 69
4. Il sistema di welfare 71
4.1 Gli strumenti di Welfare in Italia a sostegno della disoccupazione 73
4.2 I servizi all’infanzia 76
5. Il lavoro flessibile e l’identità dell’individuo 79
5.1 Il lavoro flessibile e l’identità personale dell’individuo 79
5.2Il lavoro flessibile quale fattore di vulnerabilità dell’individuo 81
5.3 Il lavoro flessibile e le scelte famigliari 88
5.3.1 Il lavoro flessibile e la fecondità 91
6. I periodi di sospensione dell’attività lavorativa per
MATERNITÀ 95
6.1 Brevi cenni riguardo alla regolazione delle
sospensioni per maternità in Europa 96
6.2 I benefici dei periodi di sospensione dell’attività
LAVORATIVA PER MATERNITÀ 101
6.2.1 I BENEFICI ECONOMICI 101
6.2.2 I benefici connessi alla salute e all’apprendimento 105
6.2.2.1 Effetti positivi sulla salute della
MADRE 105
6.2.2.2 I BENEFICI SULLA SALUTE E SULLA CAPACITÀ
DI APPRENDIMENTO DEL BAMBINO 107
6.2.2.3 Lo sviluppo del linguaggio nel
BAMBINO 109
Parte Seconda: il caso di studio, le strutture dell’infanzia del
Comune di Milano
1. L’analisi quantitativa 119
1.1 Introduzione e obiettivi della ricerca 119
1.2 Il territorio d’analisi 120
1.2.1 I servizi all’infanzia del comune di Milano 124
1.3 La popolazione d’analisi 133
1.4 Gli strumenti di ricerca 136
1.4.1 Il questionario 137
1.5 Il campione 139
1.5.1 Il piano di campionamento 139
1.5.2 La metodologia di scelta delle unità
CAMPIONARIE 141
1.5.3 Le strutture dell’infanzia coinvolte 143
1.6 La fase di distribuzione e raccolta 146
2. I RISULTATI 147
2.1 La descrizione del campione analizzato 147
2.1.1 Le scuole e i nidi dell’infanzia 147
2.1.2 Le famiglie 151
2.1.3 I GENITORI 157
2.1.4 I BAMBINI 174
2.2 L’informazione dei lavoratori sulle tutele
GIUSLAVORISTICHE ALLA GENITORIALITÀ 177
2.3 I MODELLI FAMIGLIARI 180
2.4 La tipologia di contratto di assunzione dei genitori, le tutele alla genitorialità e lo sviluppo del linguaggio
DEI BAMBINO 186
2.4.1 L’astensione obbligatoria e facoltativa dopo
IL PARTO 189
2.4.2 Il riposi giornalieri (permessi di allattamento) 191
2.4.3 Il contratto part-time 196
2.5 La tipologia di contratto di assunzione e i valori
PERSONALI IN AMBITO LAVORATIVO E IN FAMIGLIA 199
2.5.1 La tipologia di contratto di lavoro e i valori personali in ambito lavorativo 201
2.5.2 Gli elementi valoriali famigliari e gli
ELEMENTI VALORIALI IN AMBITO LAVORATIVO 220
2.5.3 La tipologia di contratto di lavoro e i valori famigliari 223
2.6 Conclusioni della ricerca quantitativa 238
3. Conclusioni della tesi 251
Ringraziamenti 261
Bibliografia 263
Sitografia 289
Allegati
1. Questionario alle famiglie 290
2. Questionario agli educatori 299
Introduzione
Le regolazione dei rapporti di lavoro nel nostro Paese è stata oggetto di importanti riforme a partire dal “Pacchetto Treu” [1997], proseguendo con la “Riforma Biagi“ [2001], la “Riforma Fornero” [2012] e, da ultimo, il “Jobs Act”, con i successivi emendamenti [2014].
Lo scopo del legislatore sarebbe quello di dare soddisfazione ad una necessità del tessuto economico: il bisogno di strumenti contrattuali atti a rendere flessibile l’organizzazione del personale al fine di orientare, con minori costi, la produzione di beni e servizi rispetto alle esigenze mutevoli della domanda di mercato. Si rende, quindi, quanto mai necessaria una riflessione rispetto alle conseguenze sociali della “flessibilizzazione” del mercato del lavoro. I mutamenti economici e normativi si riversano inevitabilmente nelle vite reali delle persone, cambiandone i tratti.
Lo studio in seguito esposto si compone di un’analisi teorica e un’analisi quantitativa.
Nell’analisi teorica saranno approfonditi gli elementi utili a descrivere la flessibilità lavorativa, anche nel suo rapporto con la famiglia nello sviluppo del bambino, attingendo contributi dal diritto del lavoro, dalla scienza economica e sociologica.
Verrà, innanzitutto, definito il significato di due concetti chiave per questo studio: “famiglia” e “flessibilità”. Successivamente la ricerca approfondirà il rapporto tra flessibilità, occupazione e produttività, attraverso i contributi dei maggiori esponenti delle diverse scuole economiche (economisti classici; economisti marginalisti; economisti istituzionalisti; economisti della NEK).
Con lo scopo di dare al lettore gli elementi di comprensione dello spazio all’interno del quale il fenomeno si sviluppa nel nostro Paese, nel terzo capitolo, verrà analizzata la legislazione italiana
regolante i contratti atipici e part-time. Il diritto del lavoro ha, infatti, funzione protettiva dei diritti del lavoratore, ma anche delimita le possibilità imprenditoriali di assunzione di personale del datore di lavoro. Un approfondimento sarà dedicato alla differente tutela della genitorialità nei contratti di lavoro.
A completamento del panorama di tutele, nel quarto capitolo verrà descritto il sistema di welfare italiano a sostegno della disoccupazione e della famiglia.
Il quinto capitolo donerà al lettore un’ulteriore dimensione del fenomeno: sarà esposta un’analisi sociologica dell’impatto dei contratti di lavoro flessibile sull’individuo e sulla famiglia.
Specifica attenzione sarà data alla sospensione dell’attività lavorativa per maternità, approfondendo i benefici economici e alla salute della madre e del bambino.
Infine, sarà dedicato l’ultimo capitolo ad approfondire lo sviluppo del linguaggio del bambino da 0 a 3 anni e il ruolo della figura di attaccamento primario. La scelta di approfondire questo tema è nata dai risultati dell’analisi quantitativa che danno rilevanza al differente impatto sullo sviluppo del linguaggio del bambino delle tipologie contrattuali di lavoro con cui è assunta la figura di riferimento (identificata con la madre).
Nella seconda parte di questa tesi sarà presentata la ricerca sul campo, effettuata in occasione di questo studio, con lo scopo di verificare alcune ipotesi teoriche relative all’impatto dei contratti flessibili sull’individuo e sulla famiglia, nonché di analizzare il rapporto famiglia-lavoro-servizi all’infanzia all’interno dei nidi e delle scuole del Comune di Milano.
Parte prima: analisi teorica
Capitolo primo: definizioni di Famiglia e
Flessibilità
Quale operazione preliminare, è necessario definire i concetti di famiglia e di flessibilità coinvolgendo gli aspetti sociali, economici e giuridici rilevanti per questa ricerca.
Famiglia
La famiglia è definita in questo studio quale nucleo che si connota per una collaborazione tra i suoi membri in modo affettivo e economico: ivi si sviluppano relazioni di reciprocità e di dono che aiutano a proteggere l’individuo, rassicurandolo rispetto alle necessità materiali, in una prospettiva di lungo periodo. Ogni componente della famiglia è responsabile del benessere degli altri ed è influenzato nel suo benessere, o malessere, dall’appartenere a un gruppo che opera in modo funzionale o disfunzionale [Tribulato, 2011].
La famiglia, inoltre, è il principale strumento di mediazione tra la società e il fanciullo rispetto alle sue necessità biologiche, psicologiche ed educative “Ogni cucciolo d’uomo, infatti, per diventare una persona affettivamente ricca, matura, xxxxxx e socievole, ha bisogno di una famiglia che lo aiuti nella formazione e strutturazione della sua personalità” [Tribulato, 2011].
La famiglia, vista come “seminarium civitatis”, è l’istituzione che crea le fondamenta per l’evoluzione economica e valoriale della società: se le famiglie sono funzionali nella trasmissione e nella creazione di capitale materiale, spirituale e culturale, le future generazioni saranno ricche di beni materiali, spirituali e culturali.
In questa ricerca la famiglia è specificamente analizzata nell’atto trasmissivo intergenerazionale di capitale e, quindi, nella sua funzione riproduttiva, educativa, emotiva, affettiva, di protezione e di sostegno (economico e assistenziale) nei confronti del “cucciolo di uomo”.
La famiglia è qui analizzata quale luogo in grado di accogliere e educare il bambino.
Anche nella definizione di genitore viene, quindi, messo in risalto il legame affettivo, non necessariamente di sangue, tra l'adulto e il bambino nel rapporto di cura ed educazione che si instaura nel nucleo famigliare.
Secondo Xxxxxx «la personalità umana non viene ‘data alla luce’ ma deve essere ‘costruita’ attraverso il processo di socializzazione, è proprio per questo, anzitutto, che le famiglie sono necessarie. Esse sono ‘officine’ che producono personalità umane» [Xxxxxxx e Xxxxx, 1974].
Gli elementi valoriali attinenti alla conformazione famigliare sono estranei agli obiettivi della ricerca. La famiglia bigenitoriale, basata sul matrimonio o sulla convivenza (omosessuale o eterosessuale), e la famiglia monogenitoriale sono state incluse all’interno dell’analisi.
Rispetto ai ruoli nella famiglia, in questa ricerca si farà riferimento al rapporto tra il figlio e la figura di attaccamento primario considerando tale legame privo di aprioristiche necessità di legami biologici.
Secondo Xxxxxx [1989], l’attaccamento si struttura nei primi mesi di vita intorno ad un'unica figura e ha come funzione quella di garantire al bambino la vicinanza e la "protezione" della figura di attaccamento. Rispetto alla società italiana contemporanea, tale legame è molto probabile che si instauri con la madre, dato che è la prima ad occuparsi del bambino, ma, come Xxxxxx [1989] ritiene, non sussiste nessun dato che avalli l’idea che un
padre, ovvero un’altra persona, non possa diventare figura di attaccamento nel caso in cui sia lui a dispensare le cure al bambino.
Flessibilità
La parola “flessibilità” deriva dal tardo latino “flexibilitas –atis”,
ed indicava, in origine, la capacità del ramo di piegarsi e adattarsi alla forza del vento, per poi tornare nella forma originaria. Questo termine, nel prosieguo, verrà utilizzato associato alla
famiglia e al lavoro.
La famiglia “flessibile” è la famiglia che ha le stesse caratteristiche del ramo: essere in grado di subire deformazioni
elastiche causate da agenti esterni senza farsi spezzare. Il lavoro
“flessibile” è, similarmente, quell’attività di produzione di beni o servizi che si adatta alle forze imposte dalle necessità del mercato. Si contrappone concettualmente al lavoro “stabile”, cioè formalizzato con un contratto a tempo indeterminato, full- time e con mansioni cristallizzate.
In Italia esistono due possibilità legislativamente normate di dare flessibilità al lavoro: la prima coinvolge la tipologia contrattuale di assunzione (contratti “atipici”), la seconda interessa la durata della prestazione (contratti part-time). La tipologia di flessibilità che viene creata dai contratti atipici e dai contratti part-time non è la medesima e si differenzia per molteplici aspetti.
Il contratto part-time è lo strumento nel quale il lavoratore e il datore di lavoro convengono una durata della prestazione di lavoro inferiore rispetto alla normale durata, stabilita dal CCNL o dalla legge. Alla descrizione di questo contratto sarà dedicato uno specifico capitolo.
Riguardo ai contratti “atipici”, è necessario un breve excursus per poter comprendere come due concetti differenti, quali “lavoro
flessibile” e “deregolamentazione del mercato del lavoro” (e dei diritti del lavoratore) siano venuti, oggi, a coincidere in Italia.
A partire dalla fine anni ’60, fino agli inizi degli anni ‘90, a causa delle particolari condizioni sociali e politiche presenti in Europa (significativo il ruolo giocato dall’Italia quale paese del blocco occidentale con il più forte partito comunista), il legislatore italiano ha creato gli strumenti normativi e le condizioni previdenziali per “stabilizzare” la classe operaia ed impiegatizia attraverso la "stabilità" del posto di lavoro. Per quasi tre decenni il pressoché unico mezzo contrattuale utilizzato per formalizzare la prestazione lavorativa è stato il contratto a tempo indeterminato. I diritti e le tutele, acquisiti nel tempo dal lavoratore subordinato, sono stati, quindi, man mano, incorporati quali corollario del contratto a tempo indeterminato. La “flessibilità” nei rapporti di lavoro è approdata solo successivamente in Italia, con le diverse riforme normative (a partire dal “Pacchetto Treu” [1997], proseguendo con la “Riforma Biagi“ [2001], la “Riforma Fornero” [2012] e da ultimo il “Jobs Act” [2014], le quali hanno progressivamente creato e favorito particolari forme contrattuali ulteriori rispetto al contratto a tempo indeterminato, dette "atipiche" (quali i contratti a tempo determinato, i contratti a progetto, la somministrazione di manodopera, ecc.).
I contratti "atipici" danno maggior “flessibilità” al mercato del lavoro (soprattutto in uscita), ma nella loro formulazione non controbilanciano i diritti e le tutele che sottraggono al lavoratore rispetto a un contratto a tempo indeterminato, con garanzie di altro tipo o con maggiori salari. Di conseguenza, gli schemi contrattuali “flessibili” si dimostrano un’alternativa peggiore, ceteris paribus, allo schema contrattuale a tempo indeterminato. Oggettivamente, quindi, il contratto “flessibile” è peggiore per il lavoratore rispetto a quello stabile, in quanto non si riversa sul
lavoratore la differenza positiva di reddito creato, in termini di minore rischio imprenditoriale, che il contratto “flessibile” garantisce al datore di lavoro.
E’ da notare, altresì, come alcune tipologie contrattuali “flessibili” comprimano anche diritti non legati alla necessità di maggior flessibilità del mercato del lavoro, basti pensare alla regolazione della maternità.
Potremmo dire che in Italia la deregolamentazione dei diritti del lavoratore è stato lo strumento utilizzato per raggiungere due scopi, peraltro mai facilmente distinguibili nelle diverse riforme normative: da un lato la “flessibilità” del mercato del lavoro, dall’altro una riduzione del costo del lavoro. Parte della classe politica italiana ha "coperto" le manovre di riduzione del costo del lavoro, dagli anni '90 ad oggi, motivando le proprie riforme con la necessità di rendere "flessibile" il mercato del lavoro, ma, nei fatti, riducendo i diritti, senza nulla dare in cambio, ai lavoratori in ingresso nel mercato del lavoro.
La deregolamentazione ha, infatti, ridotto i vincoli che l’impresa deve assumersi rispetto ai propri lavoratori, consentendo maggiori possibilità di disporre del lavoratore sia per periodi di tempo determinati, sia secondo orari lavorativi particolari, sia prevedendo il trasferimento tra diverse sedi di lavoro.
Rispetto al lavoro “stabile”, la scienza economica non è univoca nel ritenere tali condizioni come migliori per la produttività del sistema e per la maggiore occupazione. Alla teoria “neomarginalista”, che ritiene la flessibilità del mercato del lavoro un mezzo per ridurre la disoccupazione e aumentare la produttività, si contrappongono la teoria “keynesiana”, la teoria classica e quella istituzionalista.
La flessibilità, infatti, secondo la teoria neomarginalista, viene individuata quale indicatore dell'intensità e della velocità con cui le variabili fondamentali proprie del mercato del lavoro
reagiscono al verificarsi di particolari eventi: tanto più è elevata la flessibilità, tanto più sarebbe agevole diminuire i tassi di disoccupazione senza innescare fenomeni inflazionistici.
Nel successivo capitolo verranno meglio illustrate le differenti teorie economiche in relazione agli effetti della flessibilità.
Capitolo secondo: La scienza economica e i contratti flessibili
La scienza economica si è lungamente soffermata sulla tematica della “flessibilità” dei contratti di lavoro quale fattore in grado di influenzare l’occupazione, la produttività e il costo del lavoro.
Nel prosieguo verrà fornita un’analisi dei contributi teorici ritenuti più importanti per comprendere l’impatto economico dei contratti flessibili.
2.1 Il rapporto tra flessibilità e occupazione
Secondo Xxxxxxxx [1984] la flessibilità occupazionale può essere suddivisa in quattro diverse tipologie:
1) la flessibilità numerica dei lavoratori esterni all’azienda, che si ottiene attraverso assunzioni o licenziamenti;
2) la flessibilità numerica dei lavoratori interni all’azienda, quale, ad esempio, la variazione dell’orario di lavoro;
3) la flessibilità funzionale, legata a necessità organizzative e settoriali dell’impresa, vale a dire la capacità dei lavoratori di svolgere differenti funzioni nella produzione;
4) la flessibilità salariale, basata sui livelli retributivi del lavoratore legati alle performance aziendali e/o ai suoi risultati di produttività.
Seguendo l’analisi di Xxxxxxxx Xxxxxxx [2009], nel prosieguo verranno illustrate le contrapposte teorie riguardo l’effetto che, a parità di tecnologia di produzione, la flessibilità dei salari (cioè riduzione o aumento dei salari) ha sull’occupazione e l’effetto che la flessibilità del lavoro (cioè l’aumento o la diminuzione della quantità di forza lavoro in base alle necessità di produzione) ha sulla produttività.
L’analisi dapprima si concentrerà sugli economisti classici (Xxxxx, Xxxx e Xxxxxxx), poi prenderà in considerazione le posizioni degli economisti neoclassici-marginalisti (Xxxxxxxx, Xxxxxxxxx e Xxxxxxxx), quindi quelle degli economisti istituzionalisti (Xxxxxx, Commons, Xxxxxxxx e Xxxxxxxxx) e, da ultimo, il filone degli economisti della Nuova Economia Keynesiana (NEK).
Si anticipa, fin da ora, che l’approccio degli economisti marginalisti diverge dall’approccio degli altri economisti e questo è dovuto alla differente visione dell’offerta di lavoro. Per gli economisti marginalisti, l’offerta di lavoro è, infatti, determinata all’interno del mercato dall’utilità marginale della stessa in equilibrio con le altre utilità marginale e con i prezzi (tra cui il salario, che è considerata una variabile interna). Per gli economisti classici, gli economisti istituzionalisti e per gli economisti della NEK, l’offerta di lavoro è determinata all’esterno del mercato del lavoro da processi sociali formati in determinati contesti caratterizzati da molteplici dimensioni materiali, umane, relazionali e politiche determinate dal contesto storico e dal luogo geografico. Sono queste variabili esterne al sistema a stabilire il salario.
2.1.1 Gli economisti classici
Per quel che concerne quest’analisi, verrà evidenziato il significato nella teoria classica del salario, il quale è legato non solo al compenso, ma anche ai minori costi sostenuti dal lavoratore grazie al sistema di tutele. Il salario, pertanto, è una variabile data dalle circostanze economiche e sociali e, quindi, la flessibilità del lavoro non può garantire il pieno impiego, dato che è legata al solo costo del lavoro. Prospetticamente anche il profitto del datore di lavoro viene determinato come differenza tra il profitto sociale e i salari.
Xxxxx
Nella “Ricchezza delle Nazioni” [1776] Xxxxx descrive come, nelle società moderne (cioè ove esiste la proprietà individuale di terre e l’accumulazione di capitali), il prodotto sociale venga diviso tra i lavoratori (quale frutto della loro fatica), i proprietari terrieri (quale rendita delle loro terre) e i capitalisti (quale profitto sui loro capitali anticipati).
In questo contesto, il saggio marginale del salario (reale) dipende dal contratto tra i “padroni” e i “proletari”, ma in questa “controversia” i “padroni” sono avvantaggiati, in quanto hanno maggiore facilità a coalizzarsi e hanno maggiore capacità di resistenza nel lungo periodo.
Detto questo, però, esiste un livello al di sotto del quale è impossibile ridurre i salari: il salario di sussistenza, cioè il salario necessario all’operaio per il suo mantenimento e per il mantenimento della sua famiglia, nel contesto in cui vive. Un salario inferiore a quello di sussistenza comprometterebbe la natura stessa del sistema economico in quanto impedirebbe la riproduzione della forza lavoro.
Il salario di sussistenza deve permettere al lavoratore di acquistare e mantenere ciò che, secondo gli usi, si considererebbe indecente non avere (ad esempio, a Milano, nel 2013, è considerato indecente avere uno stipendio inferiore a
1.000 euro al mese per un lavoro full-time perché con una minor somma è impossibile poter garantire un livello di vita decente, in quanto diviene molto difficoltoso poter sostenere il costo di una abitazione, del cibo e di altri beni di sussistenza).
Xxx Xxxxx la domanda di lavoro non può aumentare in altro modo che con un aumento della ricchezza nazionale (il profitto sociale), la cui crescita provoca parallelamente la crescita dei salari.
In Xxxxx, la concorrenza nel mercato del lavoro è «indirizzata nella giusta direzione dalle istituzioni umane» [Xxxxx, 1932], cioè agisce con due limiti: le norme sociali e culturali che determinano il salario di sussistenza e il potere contrattuale dei lavoratori.
L’impostazione di Xxxxx diverge da quella degli economisti neomarginalisti, in seguito meglio approfondita, in quanto in Xxxxx il salario di sussistenza fissa un limite minimo alla remunerazione del lavoro, indipendentemente dai saggi marginali e, inoltre, non esiste un saggio di sostituibilità tra i fattori produttivi. In questa prospettiva, i salari non sono un costo, ma un fattore di consumo capaci di trainare la domanda e, quindi, la produzione, dato che la soglia minima dei salari non è legata alla disoccupazione, ma alle necessità di acquisto per la “riproduzione” della forza lavoro.
Xxx Xxxxx il ruolo delle istituzioni sociali è estremamente importante perché esse possono costruire e fissare le regole e i limiti salariali minimi, mentre nella visione neomarginalista, approfondita in seguito, l’unica istituzione ammessa è il mercato.
Xxxx
In Xxxx ne “Il Capitale” [1867] il salario è definito come una variabile data non solo dai bisogni fisici di riproduzione del lavoratore, ma anche dai bisogni sociali storicamente sviluppati, quali, ad esempio la formazione professionale necessaria al lavoratore per poter continuare a svolgere il suo mestiere.
La determinazione del salario è il frutto della lotta tra capitalisti e lavoratori che si sviluppa in un contesto sociale: un’alta disoccupazione frena le richieste salariali dei lavoratori, al contrario, nei periodi di crescita, la scarsità di braccia rende più forti le loro pretese.
Xxxx mette in evidenza il conflitto tra la retribuzione del fattore lavoro e quello del fattore capitale a differenza di Xxxxx, nel quale il salario, la rendita delle terre e il profitto dei capitali anticipati sembrano essere fattori che si calcolano indipendentemente gli uni dagli altri: la «libera concorrenza» di Xxxxx determina che «il prezzo di una merce, quando sia preso come somma di profitti e salari, sembra capace di accomodare la crescita dei salari senza una corrispondente diminuzione dei profitti e viceversa» [Xxxxx A.,1996].
In Xxxx è presente l’idea, successivamente sviluppata da Xxxxxx, di un legame tra la domanda effettiva di beni e il livello di occupazione raggiunto, che è differente dal livello di occupazione desiderato.
Xxxxxxx
Anche in Xxxxxxx, come in Xxxxx e Xxxx, il salario naturale è un dato noto prima della determinazione dei prezzi e della distribuzione del prodotto sociale, in quanto è definito come la ricompensa del lavoro che mette «i lavoratori nel loro complesso in condizioni di sussistere e perpetuare la loro specie senza né aumenti né diminuzioni» [Xxxxxxx X., 1976]. Il salario naturale è stimato con le spese di prima necessità ed è legato al luogo e al tempo storico.
In Xxxxxxx non è enfatizzato il ruolo di una classe rispetto all’altra, ma è in ogni caso chiara la relazione inversa tra salari e profitti di rendita o da capitale.
Xxxxxxx introduce il concetto di “salario di mercato”, cioè quello che viene effettivamente pagato al lavoratore. Il salario di mercato è regolato dall’abbondanza o dalla scarsità del lavoro e attorno al salario naturale, ma con delle variazioni positive o negative, determinate dalla quantità di manodopera sul mercato, le quali, a loro volta, determinano la crescita o la diminuzione
della popolazione. Lo scostamento tra salario naturale e salario di mercato determina delle variazioni molto lente nella numerosità della popolazione, ad esempio, quando sul mercato c’è scarsità di forza lavoro, il salario di mercato è più alto di quello naturale e la popolazione operaia cresce in numero.
Xxxxxxx ritiene che la disoccupazione è eliminabile solo con l’aumento di accumulazione di capitale o con la variazione del prezzo delle merci, o con una diminuzione della popolazione.
2.1.2 Gli economisti neomarginalisti
Il pensiero marginalista si fonda sulla legge della domanda e dell’offerta e sulla sostituibilità dei fattori di produzione. Il salario, che è una variabile nota nella teoria classica, nella teoria neomarginalista è un’incognita determinata simultaneamente al costo degli altri fattori di produzione e ai prezzi dei beni.
Considerando un’economia divisa in due tipi di beni sostituibili tra loro, uno ad alta intensità di capitale (bene 1) e l’altro ad alta intensità di lavoro (bene 2), se sale il prezzo del bene 1, allora la sua domanda diminuisce, riducendo la quantità di capitale necessario e, quindi la sua remunerazione; viceversa, la diminuzione della domanda del bene 1 farà aumentare la domanda del suo prodotto sostitutivo bene 2, quindi, aumenterà la quantità di lavoro necessario e, anche, il suo prezzo, vale a dire il salario.
La flessibilità dei prezzi e il principio secondo cui la domanda dei beni è legata al prezzo dei loro fattori produttivi, rendono possibile l’eliminazione dell’eccesso di offerta di lavoro (disoccupazione) attraverso una diminuzione dei salari, fermo restando la possibilità di avere disoccupazione volontaria o dovuta alla ricerca di nuovo lavoro [Xxxxxxxx, 1968].
In questa teoria non è ammessa altra istituzione se non il mercato dove i prezzi sono determinati. Il punto di equilibrio
determinato nel mercato non coinvolge regole di equità, norme giuridiche o comportamenti, ma presuppone una concorrenza perfetta, quindi, un’informazione perfetta e nessun costo di transazione.
Le conseguenze di questa impostazione nel mercato del lavoro sono importanti: ogni istituzione e organizzazione (quale il sindacato o gli enti regolatori) sono considerati un ostacolo al raggiungimento dell’equilibrio di mercato.
I limiti di tale approccio sono evidenti: il ruolo delle istituzioni è svuotato di ogni contenuto sociale e non c’è alcun riferimento alla realtà storica. I salari sono considerati come variabile interna al sistema di mercato, senza alcun impatto delle istituzioni sociali.
Il pensiero degli economisti marginalisti si è evoluto in due direzioni: la Nuova Macroeconomia Neoclassica (NMC) e la Nuova Economia Keynesiana (NEK).
La Nuova Macroeconomia Neoclassica, attraverso l’introduzione di aspettative razionali e di mercati perfettamente razionali, individua, quale soluzione per l’eliminazione della disoccupazione, l’abolizione di ogni istituzione e la completa flessibilità dei salari.
Quanto riguarda il pensiero della Nuova Economia Keynesiana verrà analizzato nel paragrafo 2.1.4.
2.1.3 Gli economisti Istituzionalisti
In questa corrente di pensiero [Knight,1992; Xxxxx, 0000; Xxxxxxx, 0000; Xxxxxx e Xxx, 1996;], il ruolo delle istituzioni è centrale per comprendere il mercato, in quanto creano norme che strutturano i comportamenti degli agenti economici, i quali sono svincolati da logiche di pura massimizzazione. All’interno delle teorie degli economisti Istituzionalisti sono presenti due
diversi modelli di interpretazione: la Vecchia Economia Istituzionalista (VEI) e la Nuova Economia Istituzionalista (NEI).
Nel primo caso, le istituzioni economiche sono considerate come strumenti, regole e modelli comportamentali che non solo creano le preferenze, ma sostituiscono il modello di massimizzazione, creando un modello di scelta non guidato dai prezzi (semplici convenzioni), ma dalle istituzioni. Nel secondo caso, l’agente economico, dopo aver preso in considerazione le preferenze che derivano dalle istituzioni, effettua una massimizzazione “vincolata” da essa e quindi effettua la scelta tra diverse possibilità.
La principale differenza tra VEI e NEI è legata all’idea di individuo.
La VEI rifiuta che l’individuo sia razionale e, conseguentemente, il principio di massimizzazione dell’utilità. Questa teoria, al contrario, attribuisce un grande ruolo nelle scelte all’abitudine, alle regole di comportamento e alle norme sociali come base dell’azione umana. Le istituzioni soddisfano l’utilità e il profitto degli individui, non li massimizzano, quindi, non sono efficienti in senso paretiano, ma preservano gli obbiettivi per cui sono state create dai gruppi sociali.
La NEI, al contrario, considera le scelte effettuate dagli individui come un elemento che gioca un ruolo importante nella massimizzazione dell’utilità, seppur ritenuto vincolato dalle istituzioni, le quali determinano la distribuzione dei diritti di proprietà, il loro governo e l’organizzazione dell’economia attraverso un sistema di incentivi premiali e disincentivi punitivi che colpiscono gli agenti. «Most of what people do is governed by institutions of their society» [Xxxxx X. X. (1988)].
Secondo gli economisti istituzionalisti, il mercato del lavoro è regolato dalle istituzioni sociali che rispondono a regole sociali e, conseguentemente, l’analizzare il salario, quale semplice prezzo di una merce, è da considerare irrealistico.
Il saggio del salario è infatti determinato non solo dalla domanda e dall’offerta di lavoro, ma anche dalle organizzazioni, dalle norme sociali, dalle abitudini, dai rapporti di fiducia, dagli incentivi/disincentivi del contesto storico e locale.
Xxxxxxxxx [2001] individua quali istituzioni influenzano il mercato del lavoro, quelle che agiscono sulla produzione dei beni, sulla riproduzione della forza lavoro e sulla attivazione del personale occupato. Il mercato del lavoro è, infatti, influenzato dalle opportunità offerte dal capitale, dalla famiglia, dai sindacati e dallo Stato.
Un esempio della distanza tra la teoria classica e la NEI, si rileva nella descrizione del processo di ricerca di un posto di lavoro.
Nella teoria classica, l’agente, dopo aver confrontato tutte le possibilità esistenti, agisce in modo da massimizzare la sua utilità, indipendentemente da ciò che ne consegue. Il soggetto potrebbe anche decidere di lavorare per un salario che non gli consente il sostentamento qualora questo ottimizzasse la sua utilità.
Nella teoria istituzionalista, il soggetto esamina le offerte di lavoro singolarmente decidendo se accettarle in base al suo contesto sociale che gli fornisce un “minimo necessario” per considerare l’offerta. In caso di più offerte considerabili, allora l’individuo massimizza la sua scelta tra di esse. Le istituzioni che influenzano il mercato, qualora non fossero più idonee a garantire il raggiungimento di determinati obiettivi economici e sociali, mutano solo se cambiano anche i valori o i rapporti di forza tra i gruppi che hanno generato quelle istituzioni [Fadda, 2002].
2.1.4 La Nuova Economia Keynesiana
Questa corrente [Xxxxxx, 1965; Leijonhufud, 1967; Xxxxxxxxx, 1967;], rispetto al mercato del lavoro, teorizza che la rigidità
nominale e reale dei prezzi (tra cui i salari) crea disoccupazione involontaria, che la flessibilità del mondo del lavoro disincentiva la produttività e che la flessibilità del salario non riesce a riportare il sistema economico nella situazione di pieno impiego. Per dimostrare quanto teorizzato viene utilizzato un modello di decisione in due stadi, con l’ipotesi di rigidità dei prezzi e gli aggiustamenti non-istantanei, legata al fatto che la domanda di beni dipende dal livello desiderato di occupazione, non da quello che effettivamente si realizza.
Xxxxxxxxx [1977] dimostra che in caso di disoccupazione, con livelli di salario inferiore alla produttività marginale del lavoro, al fine di aumentare l’occupazione, è necessario aumentare i salari reali: il salario reale, aumentando, alza la domanda aggregata di beni, la quale aumenta la domanda di lavoro.
Nella teoria classica, al contrario, in caso di disoccupazione, la diminuzione dei salari (prezzo del fattore “lavoro”) provoca, al contrario, un aumento dell’occupazione.
Xxxxxx e Xxxxxxx [1986] dimostrano come il livello salariale dipende non solo dalle istituzioni del mercato del lavoro (es. forze sindacali), ma anche dalla disoccupazione di lungo periodo. XxXxxxxx e Xxxxx [1981] costruiscono il modello definito di “salario efficiente” che dimostra come la produttività dei lavoratori dipende dal loro salario reale e che alle imprese conviene fissare un livello di salario non legato alla produttività marginale del lavoro (considerato globalmente), ma alla massimizzazione dello sforzo del singolo lavoratore.
Xxxxxxxx e Xxxxxx [1988] sono giunti agli stessi risultati con il modello “insider-outsider”, ma da un differente punto di vista. Secondo quest’ultimi, infatti, è il potere dei dipendenti dell’impresa (insiders) a determinare le decisioni sulla retribuzione e sull’occupazione agendo sui costi di rotazione della manodopera, quali quelli nella selezione, assunzione,
negoziazione e formazione dei nuovi assunti. Il datore di lavoro, per non dover pagare alti costi di rotazione della manodopera, dovrebbe preferire non assumere altri lavoratori (outsiders) e far lavorare un numero maggiore di ore i suoi dipendenti, ai quali verrà erogato un maggiore salario fino al raggiungimento del salario che massimizza, ad avviso degli insiders, il loro sforzo. Raggiunto il salario che massimizza lo sforzo, gli insiders inizieranno a collaborare con il datore di lavoro abbassando i costi di rotazione del personale e l’imprenditore potrà assumere outsiders in modo più conveniente. Quanto sopra descritto giustifica in questo modello la disoccupazione involontaria e i relativi sussidi di disoccupazione.
2.2 Flessibilità e Produttività
Secondo le analisi di Xxxxxxxx-Xxxxxx [1949] e Kleinknecht [2006], in seguito meglio approfondite, la flessibilità dei salari abbassa la produttività del mercato del lavoro.
Queste analisi si concentrano sulla relazione tra innovazione tecnologica e livello dei salari: i salari bassi, possibili grazie alla flessibilità del costo del lavoro, spingono gli imprenditori a utilizzare processi “labour-intensive” e a recepire come meno convenienti gli investimenti in macchinari tecnologicamente più avanzati, con evidenti effetti negativi sulla produttività di lungo periodo. Kleinknecht, infatti, ha evidenziato come la flessibilità del lavoro è negativamente correlata all’introduzione di innovazioni tecnologiche attraverso l’analisi di un vasto campione di aziende olandesi. Una simile analisi è stata condotta nel Regno Unito da Xxxxxx e Xxxxxxx [2003], con risultati analoghi. Xxxxxxxx ha spiegato, altresì, la relazione “bassi salari - bassa innovazione tecnologica” attraverso una compressione della domanda aggregata di beni, dovuta ai bassi salari, la quale provoca un eccesso di offerta del sistema produttivo e, quindi,
toglie lo stimolo ad investire capitali per aumentare la produttività.
Queste analisi possono essere utilizzate per comprendere i cambiamenti avvenuti nell’Unione Europea dal 2000 ad oggi.
Nella prima metà degli anni 2000 in quasi tutti i paesi europei vi sono stati cambiamenti normativi che hanno reso il mercato del lavoro più flessibile [indici di rigidità del mercato del lavoro OECD, 2013] e la flessibilità del mondo del lavoro ha abbassato i costi del lavoro e dei salari [EuroMemorandum, 2005-06], pertanto i salari reali dei lavoratori si sono abbassati [Eurostat, 2006] e la produttività della zona UE si è abbassata [rapporto KoK, 2004].
Ecco la spiegazione del motivo per cui l’occupazione, dopo un primo aumento, è crollata [OECD, 2013].
Utilizzando quale modello di spiegazione del fenomeno quello sopra esposto, in Unione Europea la flessibilità del lavoro ha abbassato i salari reali al di sotto del livello di efficienza massimo dei lavoratori e ha abbassato la domanda aggregata di beni, schiacciata altresì dalla precarietà. Questo ha portato la domanda di beni a scendere, così come la produttività [Xxxxxxx 2009].
2.3 Rapporto tra lavoro flessibile e retribuzione del lavoro in
Italia
Seguendo un’interessante analisi socio-economica di Xxxxxxx XXXXXX [2012], è possibile dare fondamento macroquantitativo, specificamente rispetto alla situazione italiana, in merito al rapporto tra retribuzione e tipologia contrattuale di assunzione (basi dati utilizzate per le analisi sono, per il periodo 1995-2001 ECHP; 2002-2006 Banca d’Italia; 2004-2006 EU-Silc).
Nel prosieguo, è definita “retribuzione” del lavoro la mera retribuzione oraria, a prescindere dalla presenza di strumenti di
sostegno al reddito e da ogni valutazione del rischio di discontinuità salariale.
Il primo elemento che emerge dall’analisi di Xxxxxx è che, in ogni settore, il lavoro flessibile, a parità di condizioni, è retribuito in modo inferiore rispetto al lavoro “stabile”: la penalizzazione retributiva dei lavoratori flessibili in Italia viene stata stimata tra 8% e il 12%. Tale gap non scompare con l’aumentare dell’anzianità lavorativa.
Nessun gruppo di lavoratori atipici trae vantaggio retributivo dal contratto di assunzione (nessun lavoratore atipico ha una salario ceteris paribus più alto di un lavoratore a tempo indeterminato), ma la penalizzazione retributiva non è omogenea: è più forte per le fasce professionali meno qualificate.
L’assunzione con contratti flessibili sembrerebbe poter generare, altresì, un persistete effetto negativo sul livello retributivo futuro del soggetto, stimato nel 4-5% del salario, ma questo dato non è ritenuto statisticamente significativo a causa della bassa numerosità campionaria sul quale è stato possibile effettuare la regressione.
E’ da escludere che la diseguaglianza retributiva sia da imputare a particolari caratteristiche dei soggetti penalizzati e l’ipotesi sostenuta, al contrario, è quella di una causa istituzionale legata all’azione di gruppi di pressione o di interesse (insider e sindacati) «nell’indirizzare il processo di ritrazione dello stato sociale a scapito di componenti meno tutelati e facenti parte dei segmenti più deboli della società» [Xxxxxx C., 2012].
Da quest’analisi emerge una forte accusa alle istituzioni, e in particolar modo al sindacato, di aver avallato negli ultimi due decenni politiche che favoriscono una diseguaglianza economica istituzionalmente generata ponendo «in discussione la partecipazione ad una piena cittadinanza sociale ed economica di
una parte crescente della società, in particolare dei giovani»
[Xxxxxx C., 2012].
2.4 I contratti flessibili e l’ingresso nel mondo del lavoro
Se, come abbiamo visto pocanzi, i lavoratori assunti con contratti di lavoro flessibile costituiscono una categoria discriminata nella retribuzione, sembrerebbe utile verificare se tale posizione di svantaggio sia temporanea. Si tratta di verificare l’utilità dei contratti di lavoro flessibili quali mezzo di transizione verso un lavoro stabile. La letteratura è divisa sul punto.
Una prima posizione sostiene che i contratti flessibili possano facilitare l’ingresso nel mondo del lavoro. Tali contratti, infatti, riducono l’asimmetria informativa e, quindi, i rischi del datore di lavoro nell’assunzione [Guell e Xxxxxxxxx, 0000; McGinnity 2005]: saranno i lavoratori flessibili che hanno dimostrato di essere produttivi ad essere scelti per un posto di lavoro stabile. Un’ulteriore argomentazione a supporto di tale tesi è rinvenuta nella possibilità dei lavoratori flessibili di accedere, mediante le reti relazionali create in ambiente lavorativo, a maggiori possibilità di impiego.
Una seconda posizione sostiene che esiste, soprattutto per impieghi di basso livello, un rischio di intrappolamento in occupazioni flessibili mal retribuite.
Dal punto di vista empirico ci sono stati diversi tentativi di analizzare questo problema, ma con risultati contrastanti [Xxxxx 2002; Giesecke e Groβ 2003; Gash 2008]. E’ emerso che molte solo le variabili che possono giocare un ruolo: differenti contesti istituzionali [Gash e XxXxxxxxx 2007; Hevenstone 2008] o diversi profili professionali [Guell e Xxxxxxxxxx 2007; D’Addio e Xxxxxxx 0000] portano a diversi risultati.
Tali variabili influiscono sul rapporto tra lavoratori già assunti e lavoratori in ingresso, nonché sulle possibilità di agevolazioni o
sugli obblighi normativi di assunzione stabile dei lavoratori flessibili.
Un’interessante analisi del problema a livello macro-quantitativo in Italia è stata svolta da Xxxxxxx XXXXXX [2012] su una base dati di sicura rilevanza [ISTAT 1993-2001].
Secondo questi risultatati, i lavoratori flessibili in Italia hanno mediamente il 30% in più di possibilità di occupazione (stabile o flessibile) nel futuro rispetto ai disoccupati, ma solo il 10% di possibilità in più (sempre rispetto ai disoccupati) di essere assunti con un contratto stabile.
Un’ulteriore riflessione può essere effettuata riguardo alla comparazione territoriale: nel sud-Italia la probabilità di trovare un’occupazione stabile in seguito a un contratto flessibile, è maggiore solo del 6% rispetto a un periodo di disoccupazione, mentre al centro-nord è del 12%.
L’assunzione con un contratto flessibile esercita un’influenza maggiormente positiva nella ricerca di un’occupazione stabile in un mercato dinamico, quale quello del centro-nord, rispetto a un contesto meno dinamico e innovativo, come quello al Sud. Questo conferma l’influsso di variabili legate al mercato del lavoro di tipo territoriale sull’efficacia dei contratti flessibili come mezzi di transizione dei lavoratori verso occupazioni più stabili.
Capitolo terzo: Il diritto del lavoro
E’ innegabile che nel diritto del lavoro le parti non godono di parità contrattuale: il lavoratore è “la parte debole” del rapporto e il diritto del lavoro dovrebbe intervenire (con diversi istituti e tecniche) per tutelare/proteggere/sostenere il lavoratore, proprio in ragione della sua “endemica” debolezza. La debolezza del lavoratore è correlata, in primo luogo, all’essere il reddito/salario fonte esclusiva o prevalente di sostentamento per lui e la sua famiglia, sì da costringerlo a trovare comunque un posto retribuito. Ciò lo pone in uno stato di inferiorità nel momento in cui deve trattare condizioni e termini della sua assunzione con il datore di lavoro, che è al contrario in grado di scegliere in un mercato altamente concorrenziale.
In secondo luogo, tale debolezza, capace di condizionare il contenuto del contratto in senso sfavorevole al lavoratore, si aggrava nel corso dello svolgimento del rapporto perché il lavoratore è sottoposto alla soggezione del datore di lavoro attraverso gli strumenti di potere direttivo e di potere disciplinare.
Queste differenti posizioni delle parti caratterizzano il diritto del lavoro come un diritto “diseguale”, ovvero tendente a ridare equilibrio.
L’ordinamento giuridico è consapevole di questa debolezza e, al fine di attenuarla, ha elaborato previsioni protettive finalizzate a sostenere/proteggere/tutelare il lavoratore, infatti, la stessa Costituzione si preoccupa di tutelare sia il lavoratore in sé, che momenti di debolezza strutturale del lavoratore quali la malattia o la maternità.
In particolare, il Costituente, già nell’art. 1 esprime la consapevolezza che il lavoro è uno strumento di emancipazione sociale che permette la realizzazione concreta del principio di
uguaglianza sostanziale. Inoltre il lavoro viene riconosciuto come strumento che consente lo sviluppo della personalità, l’emancipazione socio-economica dell’individuo e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese (Art. 3).
Anche attraverso l’art. 4, la Costituzione “riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. La Giurisprudenza ha ritenuto che questo articolo non debba essere interpretato in senso letterale, ovvero come diritto pretensivo del lavoratore disoccupato a che lo Stato si adoperi per fargli avere un’occupazione, bensì come diritto del lavoratore già occupato ad esser licenziato solo a fronte di ragioni (soggettive o oggettive) apprezzabili.
Altri articoli che si occupano di tutelare il lavoratore sono l’Art.
35 -“La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori”-; l’Art.. 36 -“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”- e l’Art. 37 -“La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”.
Poiché il contratto di lavoro, al pari di qualsiasi altro contratto di diritto civile, consente lo scambio tra due beni (nel caso
specifico, prestazione lavorative VS retribuzione), il legislatore, con riferimento al rapporto di lavoro originato da tale contratto, non dovrebbe, in linea teorica, intervenire per dare sostegno ad una delle due parti del rapporto originato dal contratto, in quanto uno dei dogmi del diritto civile (di cui il diritto del lavoro costituisce una branca) postula la parità contrattuale tra i contraenti (la c.d. “parità delle armi”). Il contratto di lavoro, però, costituisce un’eccezione in quanto, come in precedenza illustrato, non vi è parità socio-economica contrattuale dei soggetti contraenti e, quindi, è necessario un intervento del legislatore volto a sostenere/proteggere il contraente debole, per ripristinare l’equilibrio del rapporto.
Nei seguenti capitoli verrà proposta l’analisi dei contratti di lavoro flessibili presenti in Italia e l’analisi della normativa a tutela della maternità declinata nei differenti contratti.
3.1 Il lavoro subordinato, parasubordinato e autonomo
La comprensione del funzionamento del mercato del lavoro italiano non può prescindere da una’analisi delle tipologie contrattuali “flessibili” consentite dalla legislazione italiana. Questa analisi viene effettuata con riferimento alla normativa in vigore nel periodo oggetto della raccolta dati, ovvero tra il novembre 2012 e il marzo 2013.
E’ possibile suddividere i contratti di assunzione in tre macro- gruppi: contratti di lavoro subordinato, contratti di lavoro parasubordinato e contratti di lavoro autonomo.
Tale suddivisione è determinata dalla modalità di svolgimento dell’attività lavorativa secondo gli indici della “dipendenza” e della “eterodirezione”, cioè secondo il grado di autonomia organizzativa e di responsabilità di obiettivo del lavoratore.
Questa tripartizione ha importanti conseguenze regolatorie, sia in termini di diritti e doveri del lavoratori, sia in termini di regime
fiscale, sia di possibilità di accesso a strumenti di welfare: il lavoratore subordinato è il lavoratore con più protezioni (Aspi, maternità, malattia ecc.) e diritti (salario minimo, ferie, ecc.), ma è anche sottoposto maggiormente al potere del datore di lavoro nello svolgimento delle sue mansioni.
Il lavoratore autonomo, al contrario, ha soli obblighi di risultato nei confronti del cliente e non è sottoposto alle direttive di altri, ma ha scarse protezioni e non è tutelato dalla normativa giuslavoristica, la quale principalmente ha ad oggetto il lavoro subordinato e parasubordinato.
Il lavoro parasubordinato è una categoria di recente creazione nella quale rientrano alcuni contratti “flessibili”. Si caratterizza per una sottoposizione, almeno formale, al potere datoriale meno intensa del lavoro subordinato e per un sistema di tutele e di protezioni meno forte.
Il differente grado di tutela apportato dal legislatore è legato alla presunta differente forza contrattuale del lavoratore nei confronti del datore di lavoro: un lavoratore subordinato è completamente sottoposto al potere datoriale, mentre un lavoratore autonomo non è sottoposto alle direttive del cliente, ma ha solo obblighi di risultato.
Nell’ordinamento italiano i contratti “flessibili” sono regolati quali eccezione motivata al contratto subordinato a tempo indeterminato full-time (ex art. 1, comma 1, D.Lgs. 368/2001 «il contratto a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro»).
Un’ulteriore forma di flessibilità lavorativa consentita dalla normativa italiana è legata all’orario di lavoro attraverso il contratto di lavoro part-time, a cui verrà dedicato uno specifico capitolo.
3.2 Le tipologie contrattuali “Flessibili”
Il contratto a tempo indeterminato full-time è la forma contrattuale più diffusa di regolazione del rapporto di lavoro subordinato. Non presenta limiti di durata, ha forti tutele sia rispetto lo svolgimento del rapporto (una fitta regolazione in ogni aspetto è dettata dalla legge o dal CCNL di settore) che riguardo al termine del rapporto (ex art. 8 l. 604/1966 ovvero ex art. 18 Statuto dei Lavoratori) ed è circondato da migliori protezioni di welfare.
La regolazione dei contratti ”flessibili” è costruita quale eccezione rispetto al contratto a tempo indeterminato: specifiche ed oggettive esigenze aziendali o di formazione motivano la possibilità di far venir meno alcune garanzie del lavoratore, ovvero fissano un termine al rapporto o consentono determinate modalità di svolgimento dello stesso.
Nel gennaio 2013, le possibilità maggiormente diffuse di formalizzazione di un’attività lavorativa subordinata o parasubordinata in Italia erano:
• il contratto a tempo indeterminato;
• il contratto a tempo determinato;
• il contratto di apprendistato;
• il contratto a progetto;
• il contratto di lavoro somministrato;
• il contratto di lavoro intermittente.
Bisogna sottolineare che il tirocinio formativo non è considerato dalla normativa un contratto di lavoro e ad esso, pertanto, non si applica la disciplina che regola il lavoro subordinato o parasubordinato. A causa dell’alta rilevanza che riveste per l’inserimento nel mondo del lavoro sarà dedicata comunque una breve analisi.
Per meglio comprendere il funzionamento della flessibilità del lavoro, è importante analizzare la normativa che disciplina i contratti “flessibili”1 maggiormente diffusi in Italia nel 2013.
3.2.1 Il contratto a tempo determinato
Il contratto di lavoro subordinato a tempo determinato è disciplinato dal D.Lgs. 368/2001, così come modificato, dapprima, dalla L. 247/2007 e dal D.L. 112/2008 (convertito in L. 133/2008) e, più recentemente, dal “Collegato lavoro” (L. 183/2010), dalla L. 92/2012 (la c.d. “Riforma Fornero”) e, infine, dal D.L. 76/2013, convertito in L. 99/2013.
Ai fini della legittimità del contratto a tempo determinato, la normativa sopracitata richiede due requisiti, uno di carattere formale, la forma scritta a pena di nullità del termine, e uno di carattere sostanziale, la sussistenza di una ragione giustificatrice dell’apposizione del termine, che può essere di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo.
In determinate ipotesi, tuttavia, la stipulazione di un contratto di lavoro a tempo determinato non è soggetta alla seconda delle suindicate condizioni di legittimità posta in via generale dal D.Lgs. 368/01. Alcune esclusioni riguardano, innanzitutto, alcuni specifici lavoratori o settori produttivi (art. 10, D.Lgs. 368/01), tra cui, ad esempio, i contratti a tempo determinato di durata non superiore a cinque anni stipulati con i dirigenti.
Vi sono, poi, le ipotesi di “liberalizzazione” stabilite dalla “Riforma Fornero” e dal D.L. 76/2013. In particolare, l’assunzione a tempo determinato può avvenire senza necessità di individuare una ragione giustificatrice se si tratta del primo contratto a termine, di durata non superiore a 12 mesi, comprensiva di
1 L’analisi in seguito proposta trae spunto da “Una finestra sul Mondo del Lavoro” di X. Xxxxxxx, I. Bega, X. Xxxxxx, X. Xxxxxxx , X. Xxxx e X. Xxxxx, Ledizioni, in corso di pubblicazione.
eventuale proroga, concluso tra un lavoratore e un datore di lavoro per lo svolgimento di un qualunque tipo di mansione, e in ogni altra ipotesi individuata dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
In ogni caso, non possono essere effettuate assunzioni a termine nei seguenti casi (art. 3 D.Lgs. 368/01):per la sostituzione di lavoratori in sciopero; presso unità produttive nelle quali si sia proceduto, entro i 6 mesi precedenti, a licenziamenti collettivi; presso unità produttive nelle quali sia operante una sospensione dei rapporti o una riduzione dell’orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale, che interessino lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto a termine; da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi per la sicurezza sul lavoro.
Il contratto a tempo determinato si risolve automaticamente alla scadenza. Il recesso, prima di detto termine, è disciplinato dall’art. 2119 c.c. In base a tale norma, il recesso ante tempus è ammesso solo per giusta causa, ossia solo qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro, quale per esempio una gravissima mancanza del lavoratore nello svolgimento delle sue mansioni.
In caso di licenziamento illegittimo prima della scadenza del termine, al lavoratore spetterà un risarcimento del danno commisurato all’ammontare delle retribuzioni non percepite dal momento del recesso alla prevista scadenza del rapporto.
Il termine contrattuale può essere prorogato una sola volta, per la stessa attività lavorativa cui si riferisce il contratto, purché sussistano ragioni oggettive. In ogni caso, la durata complessiva non può superare i 3 anni (36 mesi).
Nell’ipotesi in cui il rapporto di lavoro, di fatto, prosegua dopo la scadenza del termine contrattuale il datore di lavoro ha l’obbligo di corrispondere al lavoratore una maggiorazione sulla retribuzione, pari al 20% fino al decimo giorno e al 40% per ogni giorno ulteriore.
In ogni caso, una volta scaduto il termine contrattuale, il rapporto di lavoro non può comunque proseguire fino ad ulteriori 20 giorni dalla scadenza stessa se il contratto è di durata inferiore a 6 mesi o fino a ulteriori 30 giorni se il contratto è di durata superiore a 6 mesi. In caso contrario, scatta la “sanzione” della conversione del rapporto da tempo determinato a tempo indeterminato.
È possibile riassumere il lavoratore, alla scadenza del contratto a termine, con un nuovo contratto a tempo determinato. Unica condizione posta dalla legge è che siano osservati determinati intervalli di tempo tra un contratto e un altro. Più precisamente, è necessario che siano trascorsi almeno 10 giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a 6 mesi, oppure 20 giorni dalla data di scadenza nel caso di un contratto di durata superiore a 6 mesi.
Se vi fosse violazione degli intervalli minimi stabiliti dalla legge, il secondo contratto a termine viene convertito a tempo indeterminato.
Quando, invece, sono effettuate due assunzioni successive a termine senza alcuna soluzione di continuità, è prevista la “sanzione” della trasformazione del rapporto di lavoro in lavoro a tempo indeterminato sin dalla data della stipulazione del primo contratto.
In ogni caso, la legge stabilisce che la durata massima complessiva per il rapporto a tempo determinato tra uno stesso datore di lavoro e lavoratore per lo svolgimento di mansioni equivalenti non può superare i 36 mesi. Nel caso di violazione del
limite di durata complessiva, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato a partire dalla scadenza del termine di 36 mesi.
In virtù del principio di non discriminazione, al lavoratore con contratto a termine spettano, proporzionalmente, le ferie e la gratifica natalizia/tredicesima mensilità, il TFR e ogni altro trattamento in atto nell’impresa per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato comparabili.
La legge riconosce, inoltre, per un anno dalla cessazione del rapporto, il diritto di precedenza all’assunzione a tempo indeterminato a tutti i lavoratori assunti a termine che abbiano prestato attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi.
3.2.2 Il contratto di apprendistato
Il contratto di apprendistato rappresenta storicamente lo strumento più diffuso nel nostro ordinamento per coordinare le esigenze di formazione e di inserimento dei giovani nel mercato del lavoro.
Ad esso si è poi aggiunto, in tempi più recenti, lo stage (o tirocinio formativo e di orientamento), che però si distingue in molti aspetti dal contratto di apprendistato. Innanzitutto, a differenza di quest’ultimo, lo stage non è considerato un contratto di lavoro, ma solo un mezzo per consentire ai giovani di fare le prime esperienze nel mondo del lavoro.
Il contratto di apprendistato, invece, si distingue proprio per il fatto di essere un vero e proprio contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e all’occupazione dei giovani – e per questo è definito come contratto “a causa mista”. In capo al datore di lavoro sorge, accanto all’obbligo retributivo, l’obbligo di impartire all’apprendista l’insegnamento professionale necessario al conseguimento della specializzazione professionale, al quale corrisponde un diritto e dovere del
lavoratore ad apprendere attraverso lo svolgimento dell’attività lavorativa.
Esso presenta una serie di vantaggi per il datore di lavoro, in quanto gli fornisce la possibilità di formare direttamente le figure professionali di cui ha specificamente bisogno, secondo le esigenze dell’attività imprenditoriale concretamente svolta, nonché di usufruire di un regime agevolato dal punto di vista retributivo e contributivo e di gestione flessibile del rapporto. Vi sono anche dei vantaggi per i neo assunti, in quanto,oltre alla retribuzione e ai versamenti previdenziali connessi a un qualsiasi rapporto di lavoro subordinato, sono destinatari di un percorso formativo che permette loro di ottenere una qualificazione professionale ufficialmente riconosciuta.
Già nel Codice Civile, agli articoli 2130 – 2134, si trova una prima scarna trattazione dell’istituto dell’apprendistato, seppur venga qui ancora definito “tirocinio”, successivamente arricchita dalla L. n. 25/1955.
Negli anni successivi si sono succeduti diversi interventi da parte del legislatore, il più rilevante dei quali – in quanto ha completamente rivisto la disciplina dell’apprendistato – è il D. Lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (la c.d. Legge Biagi), agli articoli
47 – 53. Qui, per la prima volta, si prevedono tre diverse tipologie di apprendistato, che si distinguono tra loro in base al sistema di istruzione e al sistema di qualificazione professionale. Tale tripartizione è stata mantenuta, come si vedrà, anche nelle riforme successive.
Tuttavia, le norme che oggi disciplinano il contratto di apprendistato sono contenute nel D. Lgs. 14 settembre 2011, n. 167, il cosiddetto “Testo Unico dell’apprendistato”, che ha semplificato e riunito in un unico corpo normativo (composto da soli sette articoli) la stratificazione legislativa esistente sul tema, abrogando espressamente tutta la precedente disciplina.
Oltre a quanto previsto in generale dal Testo Unico, bisogna sempre verificare le disposizioni integrative in materia di apprendistato contenute nei contratti collettivi nazionali e nella legislazione regionale. A quest’ultima, in particolare, è stata demandata la regolamentazione dei profili specificamente attinenti all’erogazione dei contenuti formativi.
Da ultimo, anche la Legge n. 92/2012 (c.d. “Legge Fornero”) e il Decreto Legge n. 76/2013, recante “Primi interventi urgenti per la promozione dell'occupazione, in particolare giovanile, della coesione sociale, nonché in materia di IVA e altre misure finanziarie urgenti”, convertito in L. 99/2013, sono intervenuti sulla disciplina relativa al contratto di apprendistato.
Nell’ordinamento italiano sono presenti tre tipologie di contratto di apprendistato.
La prima tipologia è rappresentata dell’Apprendistato per la qualifica e il diploma professionale (art. 3 T.U. sull’apprendistato) ha come destinatari soggetti che abbiano un’età compresa tra i 15 e i 25 anni di età. Il fine, in tutti i settori di attività, è quello di conseguire una qualifica o un diploma professionale o anche assolvere l’obbligo di istruzione. La durata viene determinata in base alla qualifica o al diploma da conseguire, in ogni caso non può durare più di 3 anni, o 4 nel caso di diploma quadriennale regionale.
La seconda tipologia è l’Apprendistato professionalizzante (o contratto di mestiere, art. 4 T.U. sull’apprendistato) ha, invece, come destinatari soggetti di età compresa fra i 18 e i 29 anni, ma se già in possesso di una qualifica professionale, in tutti i settori di attività, al fine di conseguire una determinata qualifica professionale “a fini contrattuali”. La durata, variabile a seconda dell’età dell’apprendista e della qualifica professionale da conseguire, è stabilita dagli accordi interconfederali e dai contratti collettivi di settore, in ogni caso non può superare i 3
anni complessivi (salvo nel caso delle qualifiche professionali del settore artigiano, per il cui perseguimento l’apprendistato può durare fino a 5 anni).
Infine, la terza tipologia è l’Apprendistato di alta formazione e di ricerca (art. 5 T.U. sull’apprendistato) ha come destinatari soggetti di età compresa fra i 18 e i 29 anni di età. Il fine è quello di conseguire un diploma di istruzione secondaria superiore o titoli di studio di livello universitario e di alta formazione, compresi i dottorati di ricerca, oppure per la specializzazione tecnica superiore, per svolgere attività di ricerca, per effettuare il praticantato per l’accesso agli ordini professionali o per svolgere un’esperienza professionale. Può essere stipulato in tutti i settori di attività. La durata è stabilita da regolamenti Regionali, in accordo con altri Enti, tra i quali le associazioni territoriali dei datori di lavoro o dei lavoratori più rappresentative sul piano nazionale, le università, etc.
Oltre alle tipologie appena descritte, bisogna anche citare l’apprendistato per la riqualificazione professionale (previsto dall’art. 7, comma 4, T.U. sull’apprendistato), che non costituisce a pieno titolo una quarta categoria di apprendistato e presenta delle caratteristiche a sé stanti: è destinato a coloro che hanno perso il posto di lavoro, i cosiddetti lavoratori in mobilità, senza alcun requisito anagrafico, ed è finalizzato alla qualificazione o riqualificazione professionale di tali soggetti svantaggiati.
Al di là delle caratteristiche peculiari che connotano ognuna delle tipologie di apprendistato indicate, vi sono alcune regole che valgono in generale e che sono previste dall’art. 2 del T.U. sull’apprendistato.
Le principali di esse sono, in sintesi:
• la forma scritta del contratto, del patto di prova e del relativo piano formativo, quest’ultimo da definirsi entro 30 giorni dalla stipulazione del contratto;
• la durata minima del contratto non inferiore a 6 mesi, salvo le eccezioni previste per le attività stagionali;
• il divieto di retribuzione a cottimo;
• la possibilità di inquadrare l’apprendista in una categoria sino a due livelli inferiori rispetto a quella corrispondente alla qualifica da conseguire con corrispondente riduzione della retribuzione;
• la presenza di un tutore o di un referente aziendale;
• la possibilità del riconoscimento della qualifica professionale ai fini contrattuali e delle competenze acquisite ai fini del perseguimento degli studi;
• la registrazione della qualifica professionale ai fini contrattuali nel libretto formativo del cittadino;
• la possibilità di prolungare il periodo di apprendistato in caso di malattia, infortunio o altra causa di sospensione involontaria del rapporto superiore a trenta giorni;
• la possibilità di forme e modalità per la conferma in servizio, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza, ad opera della contrattazione collettiva nazionale;
• il divieto per le parti di recedere dal contratto durante il periodo di formazione in assenza di giusta causa e giustificato motivo;
• la possibilità per le parti di recedere dal contratto con preavviso decorrente dal termine del periodo di formazione ai sensi del disposto dell’art. 2118 c.c., che se non esercitata consente la prosecuzione del rapporto come ordinario rapporto di lavoro a tempo indeterminato;
• l’applicazione di alcune forme di previdenza e assistenza sociale obbligatoria agli apprendisti, compresa da ultimo l’ASPI;
• la fissazione del numero massimo complessivo di apprendisti che un datore di lavoro può assumere,
direttamente o indirettamente tramite contratto di somministrazione di lavoro;
• la possibilità di assumere nuovi apprendisti che viene subordinata al mantenimento in servizio di almeno il 50% dei contratti di apprendistato conclusi nei 36 mesi precedenti (la percentuale è ridotta al 30% fino al 17 luglio 2015 e tale previsione si applica solo alle aziende con almeno 10 dipendenti, per le altre si applicano le percentuali di stabilizzazione fissate dai contratti collettivi);
• l’esclusione della possibilità di assumere in somministrazione apprendisti con contratto di somministrazione a tempo determinato.
Il contenuto formativo, la cui esatta definizione è rimandata – in misura diversa a seconda della singola categoria di apprendistato
– alle Regioni e alla contrattazione collettiva, costituisce il tratto caratterizzante del contratto di apprendistato. Perciò, la legge stabilisce che se il datore di lavoro non fa svolgere in concreto alcuna attività di formazione ai propri apprendisti, il rapporto intercorso tra le parti si considera come un normale contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Quindi dovrà essere corrisposta al lavoratore la differenza tra la retribuzione e la contribuzione versate e quelle dovute per il livello contrattuale superiore che sarebbe stato raggiunto al termine del periodo di formazione, dal momento che l’apprendista, fin dall’inizio del rapporto, era in possesso delle corrispondenti capacità professionali. Inoltre, il datore di lavoro dovrà restituire, maggiorati, i benefici contributivi e dovrà corrispondere al lavoratore le differenze retributive.
3.2.3 Il contratto a progetto
Il contratto a progetto è regolato dagli artt. da 61 a 69 d.lgs. 276/2003, così come aggiornato dalla L. 92/2012 e dal D.L. 28 giugno 2013, n. 76.
Sono esclusi dall’applicazione della normativa:
• gli agenti e i rappresentanti di commercio;
• coloro che svolgono attività di vendita diretta di beni e di servizi realizzate attraverso call center;
• i lavoratori occasionali;
• coloro che svolgono le professioni intellettuali per l'esercizio delle quali è necessaria l'iscrizione in appositi albi professionali;
• i rapporti e le attività di collaborazione coordinata e continuativa comunque rese e utilizzate a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciute dal CONI;
• i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e i partecipanti a collegi e commissioni;
• coloro che percepiscono la pensione di vecchiaia.
Il lavoro a progetto è una forma di contratto autonomo molto prossima al lavoro subordinato. Viene definito lavoro parasubordinato e implica, da un lato l’intenzione del datore di lavoro di reclutare del personale da adibire ad attività di collaborazione coordinata e continuativa e, dall’altro lato, la volontà del collaboratore di svolgere la propria attività con modalità diverse da quelle del lavoro subordinato.
L’unico sotto-tipo di lavoro parasubordinato ammesso dall’ordinamento, in seguito alle modifiche apportate dalla L. 92/2012, è proprio il lavoro a progetto, con la conseguenza che l’esistenza di un progetto diviene il requisito indispensabile ed
imprescindibile per la validità e la legittimità del relativo contratto.
Per rientrare in tale tipo di contratto, ai sensi dell’art. 61 del d.lgs 276/03, è necessario che sussistano i seguenti requisiti:
1) le collaborazioni coordinate e continuative devono essere riconducibili a uno o più progetti specifici;
2) tali progetti specifici devono essere determinati dal committente;
3) tali progetti specifici devono essere gestiti autonomamente dal collaboratore;
4) il progetto deve essere funzionalmente collegato ad un determinato risultato finale e non può consistere in una mera riproposizione dell'oggetto sociale del committente;
5) il progetto non deve comportare lo svolgimento di compiti meramente esecutivi e ripetitivi, che possono essere individuati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
In altre parole, affinché un contratto possa dirsi a progetto, è necessario non solo che sussista un progetto, indicato nel contratto e gestito in modo autonomo dal lavoratore, ma altresì che sia rivolto al conseguimento di un risultato, estraneo rispetto all’oggetto sociale della società (datrice di lavoro), e che dunque non si concreti nel solo svolgimento di un’attività ripetitiva ed esecutiva.
Il contratto a progetto deve essere stipulato in forma scritta e deve contenere i seguenti elementi:
1) l'indicazione della durata della prestazione di lavoro;
2) la descrizione del progetto, individuato nel suo contenuto caratterizzante e rispetto al risultato finale che si intende conseguire;
3) il corrispettivo e i criteri per la sua determinazione, nonché i tempi e le modalità di pagamento e la disciplina dei rimborsi spese;
4) le forme di coordinamento del lavoratore a progetto al committente sulla esecuzione che in ogni caso non possono essere tali da pregiudicarne l'autonomia nella esecuzione dell'obbligazione lavorativa;
5) le eventuali misure per la tutela della salute e sicurezza del collaboratore a progetto;
6) il contratto a progetto non può prevedere alcun periodo di prova.
Il lavoratore a progetto ha diritto ad un compenso proporzionato alla qualità e alla quantità della prestazione, non inferiore ai minimi stabiliti per i collaboratori a progetto dalla contrattazione collettiva per ciascun settore di attività e, in ogni caso, sulla base dei minimi salariali applicati nel settore medesimo alla mansioni equiparabili svolte dai lavoratori subordinati.
La gravidanza, la malattia e l’infortunio sospendono il rapporto di lavoro del lavoratore a progetto senza alcun diritto ad un compenso.
Vi è da precisare che solo in caso di gravidanza è prevista una proroga della durata del contratto per un periodo di 180 giorni. In caso di malattia e infortunio, invece, il contratto si estingue alla scadenza (se previsto un termine di durata del contratto) e, in ogni caso, il committente (datore di lavoro) può comunque recedere dal contratto se la sospensione si protrae per un periodo superiore a un sesto della durata stabilita nel contratto, quando essa sia determinata, ovvero superiore a trenta giorni per i contratti di durata determinabile.
Il contratto a progetto si estingue in caso di:
• realizzazione del progetto;
• scadenza del termine;
• recesso anticipato (rispetto alla scadenza prevista dal contratto a progetto o prima della realizzazione del progetto stesso) per giusta causa;
• recesso anticipato da parte del committente in caso di inidoneità professionale del collaboratore tale da rendere impossibile la realizzazione del progetto;
• recesso anticipato da parte del collaboratore, salvo preavviso, solo se tale possibilità è prevista nel contratto di lavoro.
3.2.4 Il rapporto di lavoro somministrato
Con la somministrazione di manodopera (artt. 20 – 28 d.lgs. 276/03) un soggetto qualificato (“Fornitore”, o più comunemente “Agenzia”) fornisce del personale ad un altro soggetto (“Utilizzatore”). I lavoratori somministrati svolgono così la propria prestazione lavorativa all’interno dell’organizzazione dell’Utilizzatore ma sono formalmente dipendenti del Fornitore. Nella somministrazione si realizza, quindi, una moltiplicazione dei soggetti coinvolti nel rapporto di lavoro, perché oltre ai classici datore di lavoro e lavoratore si aggiunge l’Utilizzatore. I tre soggetti coinvolti sono tra loro obbligati mediante due contratti diversi: un contratto di somministrazione stipulato tra l’Utilizzatore e il Fornitore; un contratto di lavoro stipulato tra il Fornitore ed il lavoratore.
Entrambi i contratti possono essere stipulati a tempo indeterminato o a tempo determinato.
I soggetti a cui è riservata l’attività di fornitura di manodopera sono le Agenzie. Le Agenzie devono essere fornite di apposita autorizzazione del Ministero del Lavoro, presso cui è istituito un apposito albo diviso in diverse sezioni a seconda del tipo di attività esercitata. Ai fini dell’iscrizione all’Albo, le Agenzie
devono possedere specifici requisiti che ne attestino la solidità economica, giuridica ed organizzativa.
L’Utilizzatore può essere qualunque soggetto, anche non imprenditore. A titolo esemplificativo, quindi, può trattarsi di una società, un piccolo imprenditore, un’associazione o anche la Pubblica Amministrazione.
I lavoratori somministrati andranno inquadrati nel livello contrattuale previsto dal CCNL di riferimento, in base alle mansioni svolte.
A pena di sanzione amministrativa, è vietato ricorrere alla somministrazione di manodopera nei seguenti casi: per la sostituzione di lavoratori in sciopero; in unità produttive interessate nei sei mesi precedenti da licenziamenti collettivi o da trattamenti di integrazione salariale, salva diversa disposizione degli accordi sindacali; per le imprese utilizzatrici che non hanno provveduto alla valutazione dei rischi ai sensi del d.lgs. n. 81/08 in materia di sicurezza sul lavoro.
I contratti collettivi nazionali stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi fissano il numero massimo lavoratori somministrati (in percentuale rispetto alla totalità dei lavoratori) che possono essere impiegati in azienda.
Il contratto di somministrazione è stipulato tra l’Utilizzatore e il Fornitore, e ad esso non partecipa il lavoratore. Attraverso tale contratto l’Utilizzatore riceve la prestazione lavorativa dietro pagamento di un corrispettivo in denaro comprendente il pagamento della retribuzione e dei contributi dei lavoratori somministrati e il compenso, in favore del Fornitore, per l’attività di ricerca, formazione e gestione burocratica dei lavoratori.
Il contratto di somministrazione deve rispettare il requisito della forma scritta a pena di nullità e prevedere i contenuti essenziali normativamente previsti, tra i quali gli estremi dell’autorizzazione rilasciata all’Agenzia; il numero dei lavoratori
da somministrare; i casi e le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo nel caso di somministrazione a termine; la data di inizio e la durata prevista; le mansioni alle quali saranno adibiti i lavoratori e il loro inquadramento; il luogo, l’orario di lavoro e il trattamento economico e normativo delle prestazioni lavorative; l’assunzione da parte dell’Agenzia somministratrice dell’obbligazione del pagamento diretto al lavoratore del trattamento economico, nonché del versamento dei contributi previdenziali; l’assunzione dell’obbligo dell’Utilizzatore di rimborsare al Fornitore gli oneri retributivi e previdenziali da questi effettivamente sostenuti in favore dei prestatori di lavoro.
Il contratto di somministrazione può essere a tempo determinato o indeterminato (c.d. staff leasing). Entrambe le tipologie di contratto sono soggette a vincoli legali a garanzia del lavoratore. Più in particolare, anche per il contratto di somministrazione a tempo determinato è necessario indicare le ragioni che ne giustificano la durata limitata , come accade per i contratti di lavoro subordinato a termine. Si può, pertanto, stipulare un contratto di somministrazione a tempo determinato in presenza di ragioni giustificative di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche riferibili all’ordinaria attività dell’Utilizzatore.
Per quanto riguarda lo staff leasing, invece, la legge elenca le ipotesi non tassative, visto che altre ipotesi possono essere previste dalla contrattazione collettiva, in cui è possibile ricorrere allo staff leasing. A titolo esemplificativo, è ammesso lo staff leasing per servizi di consulenza ed assistenza nel settore informatico, per servizi di pulizia, per servizi di trasporto di persone o merci, per la gestione di biblioteche, parchi, musei, per attività di marketing, per gestione di call-center.
Come si è detto, il contratto di lavoro intercorre tra il lavoratore e il Fornitore. La legge non fornisce una disciplina specifica per questo contratto di lavoro, quindi si ritiene che sia possibile ricorrere a qualsiasi tipologia contrattuale (contratto di lavoro a tempo indeterminato, contratto a tempo determinato, apprendistato, job on call, ecc.) e qualsiasi modulazione dell’orario (sia full time che part time).
In particolare, il contratto di lavoro a termine segue la disciplina di ogni contratto a termine. È prorogabile col consenso del lavoratore e per atto scritto nei casi previsti dal contratto collettivo che viene applicato dal Fornitore.
Altresì, nel contratto di lavoro a tempo indeterminato il lavoratore ha diritto, nei periodi in cui non lavora ma resta a disposizione, ad un’indennità di disponibilità, di norma più bassa dello stipendio. Tale indennità, corrisposta dal Fornitore, non può essere inferiore a 350€ al mese ed è divisibile per quote orarie.
Il potere di licenziare spetta al Fornitore, e segue la disciplina ordinaria, e varia, quindi, a seconda della durata del contratto determinata o indeterminata.
Dal momento che il formale datore di lavoro resta il Fornitore, quindi, è in capo a questo che restano gli obblighi retributivi e contributivi, nonché l’esercizio dei poteri datoriali. Si tratta, però, di una titolarità formale visto che dal punto di vista degli obblighi retributivi, contributivi, previdenziali e assistenziali, l’Utilizzatore è tenuto a rimborsare al Fornitore i costi dei lavoratori e, dal punto di vista dei poteri datoriali, il potere direttivo e quello di controllo sono in capo all’Utilizzatore, dal momento che si tratta di poteri che devono essere necessariamente esercitati da chi si trova in diretto contatto col lavoratore presso il luogo dove esercita la prestazione lavorativa. Il potere disciplinare, invece, resta in capo al Fornitore e l’Utilizzatore ha soltanto l’obbligo di
comunicare tempestivamente al Fornitore i fatti che potrebbero costituire un’infrazione.
Per quanto riguarda il c.d. jus variandi, ovvero il potere di modificare le mansioni del lavoratore, esso viene esercitato, nei limiti in cui ciò può avvenire all’interno del rapporto di lavoro subordinato e, quindi, ai sensi dell’art. 2103 c.c., non può essere adibito a mansioni inferiori dall’Utilizzatore purché ne dia immediata comunicazione al Somministratore. Nel caso in cui tale comunicazione non avvenga, all’Utilizzatore spetta il pagamento delle differenze retributive e l’eventuale risarcimento del danno al lavoratore.
La legge dispone all’art. 23 d.lgs. 276/03 che il lavoratore somministrato ha diritto ad un trattamento economico (es. retribuzione) e normativo (es. godimento dei diritti sindacali) complessivamente non inferiore a quello dei dipendenti di pari livello dell’Utilizzatore, a parità di mansioni svolte.
Il fatto che la legge si riferisca ad una valutazione “complessiva”, fa sì che possano esserci delle differenze su singoli aspetti (per es. su una singola voce retributiva).
3.2.5 Il contratto di lavoro intermittente
Attraverso questo tipo di contratto la flessibilità del rapporto è massima: il lavoratore mette a disposizione la sua attività lavorativa e rimane in attesa di una eventuale chiamata in servizio del datore di lavoro.
Il contratti di lavoro intermittente si suddivide in tre tipologie.
La prima tipologia è il contratto con obbligo di rispondere alla chiamata. E’ caratterizzato dal fatto che il lavoratore ha diritto all’indennità di disponibilità per i periodi di inattività (periodi tra una chiamata e l’altra), la cui misura verrà determinata dalla contrattazione collettiva o, in mancanza, da un decreto ministeriale. Qualora il lavoratore rifiutasse ingiustificatamente
di rispondere ad una chiamata, potrà vedersi risolvere il contratto e, oltre a dover restituire l’indennità di disponibilità eventualmente percepita, dovrà risarcire il danno nella misura determinata dal contratto individuale di lavoro.
La seconda tipologia è rappresentata dal contratto senza obbligo di rispondere alla chiamata. Questo contratto è caratterizzato dal fatto che il lavoratore non è obbligato a rispondere alla chiamata e nessuna indennità gli è dovuta per i periodi di inattività.
Infine, l’ultima tipologia è il contratto intermittente limitato a particolari periodi dell'anno. Questo si caratterizza per la mancanza dell’indennità di disponibilità e per il solo recesso del contratto, senza alcun risarcimento del danno, in caso di ingiustificata mancata risposta del lavoratore alla chiamata in servizio.
In tutti i casi, secondo l’art. 34 D.Lgs. 276/2003, come modificato, il contratto di lavoro intermittente può essere concluso in due ipotesi: nella prima per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo o intermittente, secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero per predeterminati periodi di tempo nell’arco della settimana, del mese, dell’anno; nella seconda ipotesi, può essere concluso in ogni caso, con soggetti con più di 55 anni di età e con soggetti con meno di 24 anni di età, fermo restando che, in tale caso, le prestazioni contrattuali devono essere svolte entro il venticinquesimo anno di età.
Va infine segnalato un recente intervento normativo che ha introdotto una significativa limitazione all’utilizzo di questa tipologia di contratto. In particolare, il D.L. 76/2013 (c.d. Pacchetto Lavoro), con l’inserimento del comma 2 bis all’art. 34
X.Xxx. 276/2003, ha stabilito che il ricorso al contratto di lavoro intermittente è ammesso, per ciascun lavoratore con il medesimo datore di lavoro, per un periodo massimo di quattrocento giornate di lavoro effettivo nell’arco di tre anni. In caso di superamento di questo periodo, la legge prevede che il rapporto si trasformi in rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato.
3.2.6 Il tirocinio formativo
Lo stage (o tirocinio formativo e di orientamento) è uno strumento formativo e di primo inserimento nel mondo lavorativo destinato ai giovani che hanno assolto l’obbligo scolastico.
Per la sua finalità formativa lo stage non si configura come un rapporto di lavoro, nonostante vi sia nei fatti lo svolgimento di attività lavorativa.
Di conseguenza, allo stage non si applicano né le norme previste per il lavoro subordinato né quelle in materia di lavoro autonomo.
Il tirocinio può essere utilizzato solo per quelle attività lavorative che presuppongono una formazione professionale e non per sostituire lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto (malattia, maternità, ferie) o per far fronte a picchi di attività o a temporanee esigenze d’organico.
La disciplina dello stage è affidata alla regolamentazione delle Regioni, sulla base delle indicazioni fornite dalle Linee Guida sancite dalla Conferenza Stato-Regioni, in attuazione della l. n. 92/2012 (c.d. riforma Fornero). In assenza di specifiche disposizioni regionali, continua ad applicarsi la normativa in materia di cui all’art. 18, l. n. 196/1997, nonché al D.M. n.142/1998.
Lo stage vede coinvolti tre soggetti: il tirocinante, il promotore e l’ospitante.
Il tirocinante è un giovane che ha assolto l’obbligo scolastico, non solo neo-diplomati e neo-laureati, ma anche disoccupati/inoccupati, disabili e svantaggiati, che desiderano essere formati ad una professione.
Il promotore è il soggetto - pubblico o privato – che mette in contatto l’aspirante stagista con il datore di lavoro-ospitante (es. servizi e agenzie per l’impiego, università, istituti scolastici). I promotori garantiscono la genuinità dello stage e devono quindi essere autorizzati e predeterminati dalla normativa nazionale e regionale.
L’ospitante è il datore di lavoro - pubblico o privato - che consente il concreto svolgimento dello stage. Per poter attivare un tirocinio l’ospitante deve rispettare precisi requisiti numerici, essere in regola con la normativa sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, non avere irrogato licenziamenti, fatti salvi quelli per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, nei 12 mesi precedenti il tirocinio, e non aver procedure di cassa integrazione ordinaria, straordinaria o in deroga in corso per attività equivalenti a quelle del tirocinio nella medesima unità operativa. Si evidenzia inoltre che il datore di lavoro-ospitante non può realizzare più di un tirocinio con lo stesso tirocinante.
I rapporti fra le parti sono regolati da una convenzione che viene stipulata fra promotore e ospitante e che dev’essere conosciuta e sottoscritta anche dal tirocinante. Nella convenzione sono indicati gli elementi fondamentali del tirocinio, vale a dire: la durata dello stage, che varia in base ai destinatari e alla Regione in cui è stipulato il contratto; i nomi dei due tutor del tirocinante, uno nominato da parte del promotore, uno nominato da parte dell’ospitante; il rimborso spese per il tirocinante il cui importo minimo è indicato dalla normativa regionale applicabile, fermo il
fatto che le Linee Guida hanno ritenuto congrua un’indennità di partecipazione pari a Euro 300,00 lordi mensili; i diritti e gli obblighi delle parti coinvolte, in particolare, l’obbligo assicurativo (INAIL e responsabilità civile contro terzi) a carico del promotore. Alla convenzione deve essere allegato il progetto formativo e di orientamento, sulla base dei modelli definiti dalle Regioni, in cui viene descritto l’oggetto dello stage e le relative modalità di svolgimento.
È bene infine ricordare che per i tirocini curriculari, ossia quelli svolti nell’ambito di un percorso definito di studi, sono previste specifiche disposizioni a livello sia nazionale che regionale.
3.2.6 Il contratto di lavoro Part-Time
Un’ulteriore forma di flessibilità è data dall’utilizzo di un contratto di lavoro part-time, il quale è un contratto di lavoro a tempo indeterminato, ma con orario di lavoro ridotto e, conseguentemente, anche una proporzionale riduzione di tutele e diritti.
La categoria del lavoro parziale ricomprende ogni rapporto di lavoro che preveda un orario di lavoro inferiore a quello stabilito per legge o dal contratto collettivo di settore.
E’ possibile identificare tre tipologie distinte di rapporto di lavoro parziale: part-time orizzontale, quando la riduzione di orario è distribuita su ciascun giorno della settimana; part-time verticale, ovvero i casi in cui la prestazione sia resa solo in determinati periodi dell’anno, del mese o della settimana; part-time misto, quando il rapporto di lavoro prevede sia la riduzione dell’orario giornaliero che dei periodi lavorati.
Xxxxx che non sia diversamente previsto dalla legge o dal contratto collettivo, al rapporto di lavoro a tempo parziale si applicano le stesse disposizioni che regolano il rapporto a tempo
pieno, venendo tutti i diritti di carattere retributivo riparametrati in base alla quantità della prestazione concordata.
Il lavoro a tempo parziale è disciplinato dal D.Lgs. 61/2000 e ha subito significative modifiche con l’entrata in vigore del D.Lgs. 276/2003.
In particolare la nuova legge ha notevolmente incrementato i margini di flessibilità concessi al datore di lavoro, il quale può richiedere, o in alcuni casi addirittura pretendere, prestazioni di lavoro supplementare, ovvero aggiuntive rispetto all’orario concordato.
Inoltre, a determinate condizioni, il datore di lavoro può modificare la collocazione temporale della prestazione attraverso le cd. clausole elastiche.
E’ possibile la revoca dell’assenso da parte del lavoratore alle clausole elastiche nel caso sussistano le condizioni previste dalla contrattazione collettiva, ovvero le condizioni personali previste dall’art. 12 bis dello stesso D. Lgs. 61/2000 o quelle previste dall’art. 10 della Legge 300/1970 per coloro che sono affetti da patologie oncologiche e per gli studenti.
Neppure il più recente intervento normativo ha però introdotto un diritto alla trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale, che rimane limitata a casi del tutto eccezionali come si vedrà nel prossimo paragrafo.
Come si è detto, manca da sempre nella normativa italiana la previsione di un diritto, quanto meno per alcune categorie di lavoratori, alla trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, vige dunque il principio secondo cui la trasformazione può avvenire solo in presenza dell’accordo delle parti.
L’unica deroga a tale principio è prevista dall’art. 12 bis, ed è però limitata ad un’ipotesi quanto mai specifica, ossia quella relativa a lavoratori affetti da patologie oncologiche con ridotta
capacità lavorativa. In tale ipotesi il diritto alla trasformazione non può in alcun caso essere negato, neppure sulla base di contrastanti esigenze aziendali.
Eventuali ipotesi ulteriori posso essere previste dalla contrattazione collettiva, quale, ad esempio, il part-time post maternità previsto dal CCNL Commercio.
Anche per quanto riguarda l’ipotesi inversa, manca l’esistenza di un diritto del lavoratore a chiedere al datore di lavoro la conversione del rapporto a tempo pieno.
3.3 Una riflessione sulla regolazione dei contratti “Flessibili”
La regolazione dei contratti “flessibili” rappresenta di fatto una possibilità di attenuare o eliminare alcuni dei diritti e delle tutele del lavoratore in presenza di specifiche ragioni di natura produttiva o organizzativa ovvero di formazione.
Tranne nel caso dei contratti formativi (apprendistato e tirocinio formativo), nei contratti “flessibili” non ci sono vantaggi, ceteris paribus, rispetto alla regolazione di un contratto a tempo indeterminato per il lavoratore.
I contratti “flessibili” in Italia sono, quindi, uno strumento di modificazione della ripartizione tra datore di lavoro e lavoratore dei costi generati da particolari esigenze produttive o organizzative: in specifiche situazioni, il datore di lavoro può scaricare sul lavoratore una parte del rischio imprenditoriale assumendolo con contratti diversi dal contratto subordinato a tempo indeterminato.
Il rischio che l’imprenditore trasferisce al lavoratore attraverso i contratti “flessibili” ha una duplice natura. Da una lato si trasferisce il rischio legato ad una “non sufficiente efficienza” della prestazione del lavoratore -che può anche essere dovuta al sopraggiungere di un oggettivo stato di impossibilità al lavoro (es. malattia, gravidanza, infortunio) ovvero a inadeguatezza del
lavoratore alle mansioni (es. disabilità)- in quanto i contratti flessibili interrompono il rapporto entro un prefissato termine scavalcando le normali tutele, poste ad esempio dall’art. 8 l. 604/1966 ovvero dall’art. 18 Statuto dei Lavoratori.
Dall’altro lato si trasferisce il rischio legato al successo del progetto imprenditoriale, e alla sua ripetibilità nel tempo, ovvero della calibrazione di efficienza delle necessità di personale per lo svolgimento dello stesso.
L’imprenditore ha, grazie ai contratti flessibili, maggiore facilità di riduzione della forza lavoro e, di conseguenza, dei relativi costi, ma addossa al lavoratore maggiori rischi di rimanere senza reddito.
Questo, purtroppo, si combina spesso ad una situazione di alta vulnerabilità oggettiva del lavoratore: lo stato di malattia, di gravidanza, ovvero professionalità modeste che generano basso valore aggiunto e, quindi, sono facilmente sostituibili.
Il welfare statale italiano, in forza dei principi solidaristici incardinati nella nostra Costituzione, ha il compito di proteggere i cittadini più deboli nei momenti di difficoltà, ma, come meglio argomentato nel prosieguo, tutela i lavoratori in modo asimmetrico rispetto ai rischi: i lavoratori con un contratto subordinato a tempo indeterminato, che hanno un basso rischio di perdita del lavoro, hanno tutele maggiori rispetto ai lavoratori assunti con contratti “flessibili” ad alto rischio di perdita del lavoro.
3.4 Gli strumenti di tutela della maternità in Italia
Per poter comprendere i comportamenti delle famiglie nel loro ruolo di seminarium civitatis, è necessario analizzare i fattori che esternamente favoriscono o ostacolano la genitorialità. Di primario interesse sono gli strumenti di tutela che vengono
predisposti dallo Stato per le famiglie che si trovano nel suo territorio.
Le tutele della maternità in Italia sono differenti tra le lavoratrici a seconda del tipo di rapporto di lavoro in corso e hanno diverse sfumature in base al contratto collettivo di settore applicato (CCNL).
Il Testo Unico sulla maternità e paternità, ex art. 1 D.Lgs. 151/2001 (in seguito TU) racchiude la disciplina normativa riguardo «i congedi, i riposi, i permessi e la tutela della lavoratrici e dei lavoratori connessi alla maternità e alla paternità di figli naturali, adottivi e in affidamento, nonché il sostegno economico alla maternità e alla paternità».
Le principali tutele racchiuse dal Testo Unico sono il divieto di discriminazione tra lavoratori in base allo stato matrimoniale o di famiglia, il divieto di licenziamento della lavoratrice madre o del lavoratore padre, nonché le sospensioni retribuite o non retribuite dall’attività lavorativa per esigenze di cura del bambino.
In seguito saranno analizzate le tutele racchiuse nel Testo Unico, facendo riferimento alle norme in vigore nel periodo novembre 2012-marzo 2013, durante il quale sono stati raccolti i dati dello studio quantitativo.
In primis, ex art. 3 del TU, è fatto divieto di ogni discriminazione tra i lavoratori in base allo stato di gravidanza, allo stato matrimoniale o di famiglia, ad esempio riguardo all’accesso al lavoro, alla formazione, al perfezionamento, all’aggiornamento ed alla progressione professionale, nonché all’attribuzione di qualifiche o mansioni.
In secondo luogo, ex art. 54 del TU, è fatto divieto di licenziamento della lavoratrice madre per il periodo intercorrente tra il concepimento del figlio e il compimento di un anno di età del bambino. A questo fine non è rilevante che il
datore di lavoro sia stato informato dello stato di gravidanza della lavoratrice.
A completamento di questa tutela, l’art. 56 del TU stabilisce il diritto della lavoratrice madre alla conservazione del posto di lavoro ed al rientro, al termine del periodo di congedo, nella medesima sede e con mansioni equivalenti (art. 56 TU).
Il divieto di estromissione dal posto di lavoro non opera in caso di scadenza del termine del contratto, di cessazione dell’attività aziendale o di un suo ramo autonomo, e neppure in caso di licenziamento per colpa grave della lavoratrice.
Appare evidente che il presupposto – logico prima che operativo
– che deve necessariamente sussistere affinché la previsione del divieto di licenziamento possa produrre effettivamente il suo scopo, quello di scongiurare che la maternità, provocando una temporanea improduttività della lavoratrice, sia la reale causa che induca il datore di lavoro a far cessare il rapporto di lavoro, è la prevista protrazione nel tempo del rapporto di lavoro. Tale caratteristica, come è noto, è propria solo del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con la conseguenza che in tutti quei rapporti di lavoro c.d. flessibili (contratto a termine, contratto di apprendistato, contratto a progetto) che necessariamente hanno un orizzonte temporale limitato e predeterminato, l’evento maternità che interessa la lavoratrice induce, nella quasi totalità dei casi, il datore di lavoro a provocare di fatto, senza la necessità di licenziamento, ma semplicemente astenendosi dal rinnovare il rapporto, la cessazione del rapporto di lavoro.
Pertanto, si può sinteticamente dire che la durata temporale limitata del rapporto lavorativo che caratterizza le tipologie di lavoro c.d. flessibili impedisce al divieto di licenziamento per ragioni di maternità di assolvere la finalità protettiva che gli è propria.
In aiuto alle specifiche necessità di cura del nascituro o del neonato, la legge dispone la possibilità o l’obbligo di periodi di sospensione dall’attività lavorativa.
3.4.1 Le sospensioni dell’attività lavorativa per le lavoratrici subordinate
Le possibilità di sospensione dell’attività lavorativa per maternità
o paternità per la lavoratore subordinato a tempo indeterminato costituisce il sistema di protezioni più ampio e le regolazioni presenti in altre tipologie contrattuali si deducono per differenza rispetto a questo.
La lavoratrice madre assunta a tempo indeterminato ha l’obbligo di astenersi dall’attività lavorativa per i due mesi che precedono il parto e per i successivi tre (art. 16 TU). E’ data facoltà alla lavoratrice, nel rispetto del suo stato di salute, di ritardare l’inizio del congedo per maternità ad un mese prima del parto presunto e, corrispettivamente, di prolungarlo per i quattro mesi successivi alla nascita (art. 20 TU).
Il congedo di maternità può essere anticipato, rispetto ai periodi sopra esposti, dalle lavoratrici che hanno gravi complicanze nella gestazione e/o soffrono di forme morbose che possono aggravare lo stato di gravidanza (es. toxoplasmosi, rosolia, epatite, sifilide, varicella).
Un’altra situazione in cui è possibile anticipare il congedo è quella della madre addetta a lavorazioni pesanti, pericolose od insalubri che non può essere adibita ad altre mansioni, nonché nel caso in cui le condizioni ambientali o di lavoro siano ritenute pregiudizievoli per la salute dalla donna o del bambino (art. 17 TU).
Il congedo di maternità dà luogo ad un’indennità pari all’80% della retribuzione base.
Un secondo periodo di astensione dal lavoro può essere goduto facoltativamente da ciascun genitore nei primi otto anni di vita del figlio, per un massimo di 6 mesi, fruibili anche in modo frazionato (art. 32 TU). Tali congedi parentali non possono eccedere complessivamente, per entrambi i genitori, un massimo di 10 mesi. Per questi periodi è prevista un’indennità pari al 30% della retribuzione base.
La lavoratrice madre ha diritto, prima del parto, a riposi per effettuare controlli prenatali (art. 14 TU).
Inoltre, fino al primo anno di vita del bambino, a due riposi giornalieri per l’allattamento della durata di un’ora, cumulabili in un unico riposo della durata di due ore. Tali congedi sono pienamente retribuiti (art. 39 TU).
In caso di parto plurimo, i riposi giornalieri sono raddoppiati nella loro durata (art. 39 TU). In particolari casi, questi riposi possono essere goduti dal lavoratore padre al posto della lavoratrice madre. Durante i riposi giornalieri il lavoratore o la lavoratrice hanno diritto ad uscire dal luogo di lavoro.
Da ultimo, in caso di malattia del figlio di età inferiore a 3 anni, alternativamente, i genitori hanno diritto ad un congedo non retribuito (art. 47 TU).
Le lavoratrici apprendiste
Il funzionamento del congedo di maternità, nel caso di sussistenza del contratto di lavoro per tutto l’arco temporale, è il medesimo previsto per il contratto a tempo indeterminato. Il godimento del periodo di astensione obbligatoria di 5 mesi determina, tuttavia, un allungamento del periodo di formazione di altrettanti mesi.
Le lavoratrici part-time
Ina base all’art. 60 del TU, le lavoratrici a tempo parziale
«beneficiano dei medesimi diritti di un dipendente a tempo pieno comparabile, per quanto riguarda la durata dei congedi previsti dal presente testo unico. Il relativo trattamento è riproporzionato in ragione della ridotta entità della prestazione lavorativa». Nella sostanza, quindi, si ha una riduzione del trattamento economico dei periodi di congedo secondo la percentuale di lavoro part- time.
Lavoratrici a termine
Con riferimento al contratto a termine, l’art. 6 del D.Lgs. 368/2001 enuncia un generale principio di parità di trattamento dei lavoratori a tempo determinato con quelli a tempo indeterminato, assicurando ai primi, proporzionalmente al periodo lavorato, “le ferie, la gratifica natalizia, il trattamento di fine rapporto e ogni altro trattamento in atto nell’impresa” pari ai lavoratori “inquadrati nello stesso livello in forza dei criteri di classificazione stabiliti dalla contrattazione collettiva” (c.d. lavoratori comparabili).
Ne deriva che, ad esempio, se all’interno del periodo triennale di durata del contratto a termine la lavoratrice rimarrà incinta, essa potrà godere degli stessi identici diritti della lavoratrice a tempo indeterminato. Dovrà quindi fruire del congedo obbligatorio, astenendosi dal lavoro nei due mesi precedenti e nei tre mesi successivi al parto. Potrà inoltre fruire dei permessi di allattamento quotidiani della durata di due ore ciascuno.
La norma giuridica, quindi, tutela in modo identico la genitorialità, tuttavia, è evidente che, essendo per il datore di lavoro la maternità in sé un evento che riduce drasticamente la produttività della lavoratrice – quando addirittura non ne comporta, nel periodo di congedo obbligatorio, un abbattimento
in termini assoluti –, la fruizione durante il primo anno di vita del bambino dei c.d. permessi di allattamento, pur costituendo un diritto della lavoratrice, sarà mal tollerata dal datore di lavoro. Questi è sì obbligato dalla legge a concedere tali permessi se la fruizione ne è richiesta, ma non è affatto poi obbligato a rinnovare il contratto di lavoro che di lì a poco scadrà naturalmente.
Pertanto, è verosimile prevedere che il datore di lavoro, potendosi facilmente “liberare” di una lavoratrice non produttiva (o non produttiva al massimo) come è la lavoratrice in maternità, eviterà alla scadenza di rinnovarle il contratto a termine, interrompendo in tal modo il rapporto di lavoro e privandola di qualsiasi tutela dal punto di vista economico.
E’ allora fin troppo facile comprendere che la lavoratrice, avendo tutto l’interesse a conservare l’occupazione attraverso il rinnovo del contratto a termine, eviterà di chiedere la fruizione dei permessi di allattamento che pur gli spettano, se non addirittura eviterà di rimanere incinta.
In questo si sostanzia il dramma che caratterizza la condizione precaria di tutti quei lavoratori/lavoratrici assunti con contratti di lavoro c.d. flessibili: la facile possibilità che ha il datore di lavoro di far cessare il rapporto di lavoro (ad esempio, attraverso il mancato rinnovo del contratto) finisce per incidere direttamente sulla concreta fruizione di tutte quelle tutele che la legge ha previsto (maternità, orario di lavoro straordinario, permessi, prescrizione crediti retributivi, ecc.) in ragione della acclarata condizione di inferiorità socio-economica del lavoratore rispetto al datore di lavoro.
La posizione di inferiorità del lavoratore è maggiormente determinante in prossimità del momento interruttivo del rapporto di lavoro e, quindi, il lavoratore, al fine di evitare l’interruzione del proprio rapporto di lavoro (evento questo che
di per sé non sarebbe drammatico se le condizioni del mercato del lavoro non fossero così ingessate come lo sono attualmente) sarà indotto a non far valere tutti quei diritti che la legge ha previsto a sua protezione e tutela.
La conseguenza principale di questo impianto è che quei diritti – il cui riconoscimento legislativo è avvenuto grazie a decenni di lotte collettive-sindacali volte a ottenere la progressiva emancipazione del lavoratore dalla sua condizione di debolezza endemica – finiscono per non essere più goduti dai lavoratori d’oggi, i quali, pertanto, essendo menomati di garanzie essenziali per lo sviluppo pieno della loro personalità ed individualità, assistono impotenti ad una drastico e generalizzato regresso del livello di tutele rispetto a quello di cui hanno beneficiato i lavoratori appartenenti ad una generazione precedente.
Ad ogni modo, un’importante tutela è quella prevista dal comma 2 dell’art. 24 del T.U., secondo cui 2. “ Le lavoratrici gestanti che si trovino, all'inizio del periodo di congedo di maternità, sospese, assenti dal lavoro senza retribuzione, ovvero, disoccupate, sono ammesse al godimento dell'indennità giornaliera di maternità purché tra l'inizio della sospensione, dell'assenza o della disoccupazione e quello di detto periodo non siano decorsi più di sessanta giorni”.
Un’analisi dei casi che possono concretamente verificarsi aiuta a rendere il concetto appena espresso.
Parto previsto: 30 giugno | Si applica l’art. 16 del TU |
Scadenza contratto: 15 maggio | (interdizione obbligatoria sino |
(entro 2 mesi prima del parto) | al 30 settembre o comunque |
fino a tre mesi dalla data | |
effettiva della nascita) anche | |
se il contratto è scaduto oltre 4 | |
mesi prima |
Parto avvenuto: 30 giugno Scadenza contratto: 15 agosto (entro i tre mesi successivi al parto) | Anche in questo caso il diritto al congedo spetto comunque sino e non oltre il 30 settembre, nonostante il contratto sia scaduto. |
Parto avvenuto: 30 giugno | Non si applica il congedo |
Scadenza contratto: 15 ottobre | obbligatorio. La lavoratrice |
dell’anno precedente | potrà fruire delle indennità |
previste per le lavoratrici non | |
occupate (assegno di maternità | |
o assegno per nucleo | |
famigliare). |
3.4.2 Le sospensioni dell’attività lavorativa per le lavoratrici non subordinate
La normativa prevede un trattamento nella sostanza
differenziato delle lavoratrici e dei lavoratori assunti con contratti di tipo parasubordinato o autonomo rispetto alla disciplina in precedenza applicabile ai contratti subordinati.
Lavoratrici parasubordinate
La durata del periodo di astensione dall’attività lavorativa delle lavoratrici parasubordinate è pari a 5 mesi a cavallo del parto, in tutto o in parte retribuiti dall’assegno di maternità.
L’assegno di maternità, così come regolato dall’art. 75 TU, per essere erogato ha come requisito che almeno il 70% del reddito famigliare provenga da reddito dipendente o da reddito derivante da attività parasubordinata soggetta a gestione separata INPS, senza l’obbligo di iscrizione a forme pensionistiche obbligatorie. Non soddisfano tali criteri, quindi, i lavoratori autonomi e le professioni assoggettate a una specifica Cassa previdenziale.
La durata dell’assegno di maternità è pari al numero di mesi coperti dalla specifica contribuzione (la durata è proporzionale al periodo lavorato in precedenza) e l’importo è equivalente all’assegno per i lavoratori dipendenti, quindi, direttamente proporzionale al numero di componenti del nucleo famigliare e inversamente proporzionale al reddito (varia da 10,33 euro a 227,24 euro mensili).
La normativa prevede, altresì, una proroga del termine del contratto a progetto di un periodo corrispondente all’astensione goduta per un massimo di 5 mesi.
Nessuna altra possibilità di astensione dall’attività lavorativa retribuita è prevista per questa tipologia di lavoratori.
Lavoratrici iscritte alla gestione separata INPS
Alla gestione separata INPS sono iscritte le seguenti categorie di lavoratori e lavoratrici (art. 2, comma 26, l. 395/1995):
• tutte le categorie residuali di liberi professionisti per i quali non è stata prevista una specifica cassa previdenziale; nella fattispecie devono quindi essere ricompresi anche i professionisti con cassa previdenziale, nel caso in cui, ai sensi del suo regolamento, l'attività non sia iscrivibile: può essere il caso, ad es., di un ingegnere che contemporaneamente all'attività professionale svolge anche attività di lavoro dipendente;
• la quasi totalità delle forme di collaborazione coordinata e continuativa;
• la categoria dei venditori a domicilio, ex art. 36, L. 426/71.
Con successive disposizioni di legge sono stati assicurati alla Gestione anche:
• gli spedizionieri doganali non dipendenti;
• gli assegnisti di ricerca;
• i beneficiari di borse di studio per la frequenza ai corsi di dottorato di ricerca;
• gli amministratori locali;
• i beneficiari di borse di studio a sostegno della mobilità internazionale degli studenti (solo da maggio a dicembre 2003) e degli assegni per attività di tutorato, didattico- integrative, propedeutiche e di recupero;
• i lavoratori autonomi occasionali;
• gli associati in partecipazione;
• i medici con contratto di formazione specialistica;
• i volontari del Servizio Civile Nazionale avviati dal 2006 al 2008;
• i prestatori di lavoro occasionale accessorio.
L’art. 64 del TU, prevede che la tutela della maternità della lavoratrici iscritte alla gestione separata «avviene nelle forme e con le modalità del lavoro dipendente».
L’uguaglianza formale normativa è salva, ma nella sostanza le modalità di tutela della maternità della lavoratrici dipendenti sono inadeguate per questa tipologia di lavori.
Questa tipologia di lavoratori non ha diritto all’astensione facoltativa dall’attività lavorativa e ai permessi di allattamento, alla sola astensione obbligatoria con modalità analoghe a quella per i lavoratori a progetto.
Lavoratrici autonome e libere professioniste
Pur non essendo contratti di lavoro subordinato o parasubordinato, e quindi non potendo rientrare nelle categoria dei contratti flessibili, per completezza argomentativa verrà trattato anche la disciplina che regola la tutela della maternità/paternità per le lavoratrici/lavoratori autonomi. Senza l’intenzione di analizzare approfonditamente il fenomeno, è utile notare come non è infrequenti nella prassi formalizzare rapporti
di lavoro flessibili come lavoro autonomo (c.d. “false partite iva”).
Alle lavoratrici autonome, per le quali non è prevista una cassa di categoria, l’art. 66 del TU garantisce l’erogazione, per i due mesi precedenti al parto e per i tre mesi successivi, di un importo pari all’80% della retribuzione minima giornaliera fissata per gli operai agricoli.
Le lavoratrici autonome hanno diritto fino a 3 mesi di congedo parentale, entro il primo anno di vita del bambino, coperti da una retribuzione pari al 30% di quella normalmente percepita.
L’art. 70 del TU dispone per le lavoratrici libere professioniste, iscritte alle Casse di categoria, l’astensione obbligatoria dall’attività lavorativa per i due mesi antecedenti al parto e per i tre successivi. L’indennità stabilita per questo periodo è calcolata come i 5 dodicesimi del reddito professionale percepito nell’anno precedente a quello svolto.
Questa tipologia di lavoratori non ha diritto all’astensione facoltativa dall’attività lavorativa e ai permessi di allattamento.
3.4.3 Lavoratrici non occupate
Sempre per completezza narrativa è utile ricordare che accanto agli strumenti sopradescritti, l’INPS mette a diposizione delle madri un’ulteriore forma di tutela:
• l’assegno di maternità per le madri non occupate o comunque occupate, ma senza il raggiungimento dei requisiti contributivi;
• l’assegno per il nucleo famigliare concesso attraverso i comuni.
Lo scopo di questi strumenti è differente: il primo mira a sopperire alle necessità materiali delle famiglie con genitori non occupati, mentre il secondo mira ad aiutare le famiglie numerose.
L’assegno di maternità alle lavoratrici non occupate ha come requisito che la madre debba essere sul suolo italiano non in stato di clandestinità e non debba essere occupata o comunque non avere diritto a trattamenti economici di maternità.
L’importo di tale sussidio è in proporzione alla dichiarazione ISEE, fino a un massimo di 311,27 euro/mensili. Tale importo non è cumulabile con l’assegno concesso dal comune. L’erogazione ha durata fino al raggiungimento di un massimale totale di 1.556,35 Euro.
L’assegno per il nucleo famigliare concesso dai comuni ha, invece, quali requisiti di erogazione che vi sia almeno un genitore cittadino comunitario residente in Italia, che il nucleo famigliare sia essere composto da almeno un genitore e tre figli e che la famiglia abbia un ISE inferiore ai limiti fissati dalla normativa in base al numero di componenti (per 5 componenti nel 2013 il limite ISE è di 23.362,70 euro).
La somma è prevista per tutto il periodo di permanenza dei requisiti per un importo nel 2013 pari a 129,79 euro mensili, cumulabili con ogni altra prestazione previdenziale.
3.4 La protezione della lavoratrice madre e del lavoratore padre: uno sguardo tra i diversi trattamenti
Come si è avuto modo di vedere, le tutele della maternità sono
nella sostanza oggettivamente differenti, sia dal punto di vista normativo che da quello effettivo, tra i lavoratori “flessibili” e quelli a tempo indeterminato.
In primis, è utile notare come il nocciolo di protezione della donna in maternità che tutte le categorie formalmente hanno, si concentri nel periodo di “astensione obbligatoria” di due mesi prima del parto e di tre mesi dopo il parto. Il trattamento economico non è parificato tra le diverse categorie, ma è
possibile affermare che le quantità degli emolumenti sono paragonabili.
In secondo luogo, invece, risulta evidente come le lavoratrici e i lavoratori a tempo indeterminato full-time godano di maggiori tutele riguardo alla possibilità di sospensioni del rapporto di lavoro: nel primo anno di vita del figlio, di due ore al giorno per l’allattamento (retribuite al 100%); nei primi otto anni del figlio, di 6 mesi fruibili in modo anche frazionato (trattamento economico al 30%); nei primi tre anni del figlio, dei giorni di malattia del bambino (non retribuito).
Tali tutele, pur essendo formalmente sancite dal testo normativo, all’atto pratico non sono presenti nei contratti flessibili, in quanto non esiste una norma che tutela la lavoratrice e il lavoratore dall’estromissione alla scadenza del contratto, vale a dire la perdita del posto di lavoro dovuta al decorrere di un termine di durata del contratto di lavoro. L’essere in servizio è condizione necessaria per godere delle sospensioni retribuite e non retribuite. Inoltre, la percentuale di retribuzione dei periodi in astensione per i contratti part-time è molto penalizzante per la lavoratrice e il lavoratore flessibile. Date queste premesse, è possibile ipotizzare un minor utilizzo delle sospensioni da parte delle lavoratrici e dei lavoratori con un contratto flessibile in servizio rispetto alle lavoratrici con un contratto a tempo indeterminato full-time, e, pertanto, una possibilità minore del genitore di essere presente e prendersi cura del figlio nei primi anni della sua vita. Questa ipotesi sarà verificata attraverso lo studio quantitativo in seguito esposto.
Capitolo quarto: Il sistema di welfare
Lo scopo del sistema di welfare è duplice: avere degli strumenti per controllare la stabilità sociale in momenti di crisi (es. licenziamenti collettivi) e proteggere condizioni di particolare debolezza (es. maternità o malattia).
In Italia, il sistema di protezione sociale, come si è osservato anche nel capitolo precedente, è, però, costruito attorno alla figura del lavoratore dipendente a tempo indeterminato. Il lavoratore flessibile si scontra, invece, con la rigidità del sistema ad offrirgli una cittadinanza sociale.
Le posizioni propositive assunte dalla letteratura per ridurre questa differenza di trattamento sono di due tipi: secondo una logica “riduzionista”, è necessario promuovere la competitività attraverso l’eliminazione di garanzie pubbliche a tutti i lavoratori, anche a tempo indeterminato, mentre secondo una logica “estensiva”, bisogna ampliare anche ai lavoratori flessibili le garanzie di cui godono i lavoratori a tempo indeterminato.
La recente Riforma Fornero (l. 92/2012) ha allargato i requisiti necessari per accedere a un sostegno dopo la perdita del lavoro anche a lavoratori e alle lavoratrici flessibili, ma in molti casi ha abbassato l’impatto degli ammortizzatori sociali diminuendo la durata del sostegno.
Nel precedente regime, il lavoratore flessibile era escluso dalla maggior parte dei sussidi di disoccupazione in quanto si trovava senza un lavoro non a causa di un licenziamento, requisito necessario per l’accesso a ai sussidi di disoccupazione, ma per l’estromissione dal posto di lavoro a causa del termine del contratto di lavoro.
La Riforma Fornero non ha, però, sanato un altro grave deficit del sistema di welfare italiano: il lavoratore atipico, che versa in una situazione di oggettiva debolezza (es. malattia o gravidanza),
non può fruire delle protezioni che vengono erogate solo ai lavoratori in servizio: il termine di durata rappresenta, infatti, il limite invalicabile per la fruizione dei sostegni.
“Con l’espansione del lavoro autonomo (e parasubordinato) si è per la prima volta sancito di fatto il principio che la sussistenza della forza lavoro non è più un problema di cui il datore di lavoro o lo Stato debbano farsi carico. (…) Si tratta di un cambiamento radicale mediante il quale il principio fondamentale di garanzia della sussistenza si sostituisce con la condizione di fatto del rischio esistenziale” [Bologna, 1997].
Lo scorporamento della funzione di tutela, quale mezzo di preservazione del mezzo di produzione nel lungo termine, dal rapporto di lavoro è proprio della forma di lavoro flessibile: paradossalmente, nell’antica Roma, il pater familias aveva interesse nella sopravvivenza dei suoi schiavi, così come il signore feudale dei suoi servi della gleba. La condizione di schiavo o di servo della gleba, sicuramente peggiori dal punto di vista dei diritti di quella di lavoratore flessibile, comportavano, però, una convenienza economica del “datore di lavoro” nella sopravvivenza efficiente e nella riproduzione della sua forza lavoro. Questo non accade con il lavoro flessibile, in quanto il legame è a breve termine e, quindi, la capacità produttiva del lavoratore non interessa al datore di lavoro, se non in quel transitorio arco temporale racchiuso nel contratto di lavoro.
Nel sistema fordista, l’interesse del datore di lavoro a prendersi cura del benessere dei suoi sottoposti durante tutto l’arco della loro vita ha portato alla creazione di realtà in Italia, quali IBM, Olivetti x Xxxxxxx, in cui il posto di lavoro dava accesso al lavoratore e alla sua famiglia ad una comunità che favoriva un equilibrato sviluppo personale e famigliare nel lungo periodo. Un simile rapporto è impensabile in caso di rapporto di lavoro flessibile.
Nel prossimo paragrafo verrà analizzato il sistema di welfare italiano in vigore al gennaio 2013 che, intervenendo a sostegno del lavoratore e della lavoratrice nei periodi di disoccupazione tra un contratto e l’altro e in caso di sostegno della maternità, può sostenere il lavoratore flessibile.
4.1 Gli strumenti di Welfare in Italia a sostegno della disoccupazione
Gli strumenti di welfare disponibili in Italia, al marzo 2013, per il
sostegno di tutti i lavoratori durante lo stato di disoccupazione o crisi aziendale, sono la Cassa integrazione Guadagni Ordinaria e Straordinaria, la Mobilità ordinaria, l’Aspi, la Mini Aspi e una tantum per lavoratori somministrati o Co. Co. Pro. [INPS, 2013].
Questi strumenti possono dividersi in quelli legati ad una situazione di disoccupazione individuale (Mobilità ordinaria, Aspi, Mini Aspi e una tantum per lavoratori somministrati e Xx.Xx. Pro.) e quelli legati a una eccezionale situazione aziendale (Cassa integrazione Guadagni Ordinaria e Straordinaria).
Un’ulteriore suddivisione di questi strumenti dev’essere fatta in base alle dimensioni aziendali: alcuni non hanno nessun requisito dimensionale (Aspi, Mini Aspi e una tantum per lavoratori somministrati e Xx.Xx.Xxx.), mentre altri sono concessi ai soli lavoratori di aziende di medio-grandi dimensioni operanti in specifici settori (Mobilità, Cassa integrazione Guadagni Ordinaria e Straordinaria).
Inoltre, gli strumenti di sostegno possono essere accessibili o meno, in base alla tipologia contrattuale di assunzione del rapporto di lavoro cessato o in crisi.
In particolare, la Cassa Integrazione Ordinaria è prevista per i contratti a tempo indeterminato, per i contratti di inserimento e i contratti di apprendistato; la Cassa Integrazione Straordinaria è prevista per i contratti a tempo indeterminato con un requisito di
anzianità; la Mobilità ordinaria è prevista per i lavoratori a tempo indeterminato in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo; l’Aspi che è prevista per qualsiasi contratto di lavoro subordinato, con il requisito dello stato di disoccupazione involontario e con requisiti contributivi (aver versato nell’arco degli ultimi due anni almeno un anno di contributi contro la disoccupazione, i quali si versano solo con un rapporto di lavoro subordinato); Mini Aspi è prevista per gli apprendisti, i soci lavoratori di cooperativa, il personale artistico con rapporto di lavoro subordinato, i dipendenti a tempo determinato di Pubbliche Amministrazioni e della scuola; una tantum per lavoratori somministrati che è prevista per i rapporti di lavoro somministrato; una tantum Xx.Xx. Pro., è prevista per il rapporto co. co. pro. mono-committente, con requisiti reddituali (reddito tra i 5.000 euro e i 20.000 euro lordi nell’anno precedente) e contributivi (3 mesi di contributi nell’anno precedente e 1 mese nell’anno in corso), oltre allo stato di disoccupazione da almeno 2 mesi.
Valutando nel merito gli strumenti, è necessaria un’analisi rispetto all’ammontare e alla durata dei diversi strumenti.
La Cassa integrazione Guadagni Ordinaria ha durata di 13 settimane, prorogabile fino a 52 settimane in casi eccezionali. Il suo ammontare è pari all’80% della retribuzione globale di fatto, con dei massimali di 959,22 euro lordi mensili per lavoratori con retribuzione globale di fatto mensile lorda inferiore a 2.075,21, e di euro 1.152,90 Euro lordi mensili per gli altri lavoratori euro.
La Cassa integrazione Straordinaria ha durata variabile da 12 a 36 mesi e ammontare pari al valore della Cassa Integrazione Ordinaria.
La Mobilità Ordinaria ha durata da 12 a 48 mesi, in base all’età del lavoratore e alla localizzazione dell’azienda, e l’ammontare, per i primi 12 mesi, è pari all’importo erogato dalla Cassa
Integrazione Guadagni, e, per i periodi successivi, è pari all’80% di tale importo.
La Mini Aspi ha durata pari alla metà delle settimane di contribuzione presenti nei 12 mesi precedenti alla data di cessazione del rapporto. Il suo ammontare è equivalente al 75% della retribuzione media mensile imponibile ai fini previdenziali degli ultimi due anni, se questa è pari o inferiore ad un importo stabilito dalla legge e rivalutato annualmente sulla base della variazione dell’indice ISTAT (per l’anno 2013 pari ad € 1.180,00), oppure pari al 75% di un importo stabilito (per l’anno 2013 pari ad € 1.180,00) sommato al 25% della differenza tra la retribuzione media mensile imponibile ed euro 1.180,00 (per l’anno 2013), se la retribuzione media mensile imponibile è superiore al suddetto importo stabilito. In ogni caso, ci sono dei massimali fissati per legge.
L’Aspi ha durata dagli 8 ai 16 mesi, in base all’età anagrafica del lavoratore, e un ammontare pari al valore della Mini Aspi, ma tale somma si riduce del 15% dopo 6 mesi di fruizione e di un ulteriore 15% dopo il dodicesimo mese di fruizione.
La “Una tantum” per lavoratori somministrati viene erogata una sola volta e ammonta a 1.300 euro lordi.
La “Una tantum” per lavoratori Co. Co. Pro. viene erogata una sola volta e ammonta al 30% del reddito da lavoro percepito l’anno precedente, con un massimale di 4.000 euro.
Al termine di questa breve analisi è possibile notare come i lavoratori assunti con contratti di lavoro a tempo indeterminato siano tutelati dal rischio di disoccupazione o di crisi aziendale con strumenti di welfare di durata maggiore e di importo più alto.
4.2 I servizi all’infanzia
I servizi all’infanzia rappresentano parte del sistema di welfare in quanto garantiscono alle famiglie la possibilità di sopperire, sostenendo costi proporzionali al loro reddito, alle necessità di cura e di educazione che sono generate dalle multiformi dinamiche famigliari e lavorative che si susseguono nel tempo.
L’offerta dei servizi all’infanzia, infatti, influisce sulle scelte di fertilità delle famiglie e sull’occupazione femminile [Xxxxxxxx, 2002].
La letteratura che si occupa dell’influenza dei servizi all’infanzia sulla fertilità si divide si occupa principalmente di due tematiche: l’analisi dell’impatto delle variazioni del costo del servizio per le famiglie sulla decisione delle famiglie di avere figli e l’analisi dell’influenza dell’aumento dell’offerta del servizio sulle decisioni di fertilità. Gli studi di Xxxx, Xxxxxxx e Svaleryd [2009] mostrano l’esistenza di una correlazione negativa tra il costo del servizio e il tasso di fertilità: minore è il costo del servizio, più figli vengono al mondo. Vi è una correlazione, sempre negativa, anche tra il costo del servizio all’infanzia e l’occupazione femminile: minore è il costo del servizio, più le donne sono invogliate al lavoro [Ermish, 1989; Apps e Xxxx, 2004].
Nel contesto italiano, Xxx Xxxx e Vuri [2007] confermano la relazione, ma solo in contesti in cui l’offerta di posti non è razionata, cioè l’offerta del servizio è in grado di coprire la quasi totalità della domanda.
Gli studi, relativi all’effetto dell’aumento dell’offerta del servizio sulle decisioni di fertilità, producono risultati contrastanti risultando determinanti alcune variabili di natura endogena rispetto alla comunità di riferimento analizzata.
Riguardo all’impatto dell’offerta di servizi all’infanzia sull’occupazione femminile, lo studio di Xxxxx, Xxxxxx e Xxxxxxxx [2008] mostra come una forte estensione dei servizi pubblici
all’infanzia genera un pari aumento della domanda degli stessi; l’impatto sull’occupazione femminile è positivo, ma contenuto, in quanto parte della nuova domanda proviene da famiglie che utilizzavano servizi privati istituzionalizzati o informali.
La legge istitutiva degli asili nido in Italia (l. 1044/1971) ha previsto lo stanziamento di fondi per la costruzione in 5 anni di 3.800 asili nido equamente distribuiti nella penisola. Nel 1983 solamente 1.388 erano stati realizzati con notevoli differenze territoriali: in Emila-Romagna erano state costruite 197 strutture, in Sicilia solamente 5.
La gestione dei servizi di asilo nido, già fin dal principio, era stata concepita in modo da coinvolgere diversi livelli di governo (Stato- Regioni-Comuni): allo Stato è demandato il compito di una programmazione nazionale con la fissazione di obiettivi quantitativi di offerta e di finanziamento; alle Regioni è demandato il compito di fissare i criteri generali per la costruzione, la gestione e il controllo degli asili nido; ai Comuni spetta il compito di costruire e gestire gli asili nido chiedendo i fondi allo Stato.
La struttura attuale di gestione rispecchia la struttura originaria, infatti, con la legge n. 328/2000, vengono attribuiti
• allo Stato, il compito di programmazione nazionale dell’offerta dei servizi con la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni;
• alle Regioni, il compito di programmazione territoriale dei servizi in ambito regionale e la definizione di caratteristiche organizzative e gestionali dei servizi, nonché la ripartizione dei fondi statali tra i Comuni;
• alle Provincie, il ruolo di raccolta informazioni sui bisogni locali e di formazione degli educatori;
• ai Comuni, la responsabilità di erogazione dei servizi e delle procedure di accreditamento delle strutture private.
L’offerta del servizio
Nel 2000, l’Italia ha aderito all’obiettivo posto dal vertice del Consiglio Europeo di Lisbona: creare asili nido con un numero di posti che possano accogliere il 33% dei bambini da 0 a 3 anni nati sul territorio (utenti potenziali del servizio).
L’Italia è ancora molto lontana da questo obiettivo, in quanto nel 2008 il numero di posti disponibili è mediamente del 14%, con forti differenze territoriali. Nel sud Italia la percentuale dei posti disponibili è del 10%, mentre nel nord-est è del 17% [Xxxxxxxxx e Grembi, 2011].
Come in seguito meglio approfondito, tra le grandi città, il Comune di Milano, dopo Firenze, è il Comune che è più vicino a raggiungere l’obiettivo di Lisbona [Xxxxxxxxx e Grembi, 2011].
Le modalità di offerta del servizio
L’offerta di servizi all’infanzia è rappresentata in gran parte da strutture pubbliche, ma negli ultimi dieci anni, sono andate affermandosi anche tipologie di fornitura che vedono una collaborazione tra settore pubblico e privato a causa degli stringenti vincoli di bilancio posti dal Patto di Stabilità.
Accanto a strutture in cui il Comune è responsabile di ogni aspetto gestionale, vi sono strutture in cui vi sono servizi in outsourcing, come ad esempio l’affidamento a cooperative della gestione del personale in scuole di titolarità pubblica e strutture private con determinati standard, dalle quali il Comune acquista un certo ammontare di posti (scuole private accreditate).
Nella parte seconda, verrà analizzala la specifica situazione dei servizi all’infanzia del Comune di Milano, in quanto l’analisi quantitativa, in seguito esposta, è stata svolta presso queste strutture.
Capitolo quinto: Il lavoro flessibile e l’identità dell’individuo
E’ importante valutare l’impatto del lavoro flessibile sull’identità dell’individuo per meglio comprendere come la diversa regolazione contrattuale agisce sugli elementi valoriali a livello personale e a livello famigliare.
5.1 Il lavoro flessibile e l’identità personale dell’individuo
Secondo la letteratura, la definizione dell’identità personale è un processo scomponibile in due parti: la definizione della propria concezione del “sé”, cioè ciò che un individuo percepisce come il suo “io reale” e la percezione della “immagine di sé” che hanno gli altri [Xxxxxx, 1968].
E’ quindi importante considerare l’identità interiore del sé e l’identità attribuita dall’esterno come due dimensioni tra cui possono esserci contraddizioni: «l’identità, infatti, contiene una tensione irrisolta e irrisolvibile tra la definizione che diamo di noi stessi e il riconoscimento che gli altri ci danno» [Xxxxxxx, 1991].
L’occupazione è un elemento che inevitabilmente qualifica l’individuo agli occhi degli altri, ma agisce anche sulla percezione del “sé”, in quanto l’esperienza lavorativa entra a far parte del vissuto personale.
Come la flessibilità lavorativa agisca sull’identità personale è un tema su cui gli autori si schierano, con alcune posizioni di mediazione, su due fronti contrapposti: da un lato, viene rilevata una progressiva “corrosione della personalità” dovuta alla frammentazione delle esperienze lavorative che rende difficile la loro ricomposizione in un percorso professionale e identitario coerente [Xxxxxxx, 1999]; dall’altro lato, viene sostenuto che una crescente “fluidità” delle identità individuali, dovuta alle
trasformazioni professionali, rende l’individuo più adatto alla mutevolezza del contesto [Xxxxxx, 2000].
Una terza posizione [Paugam, 2000] identifica la soddisfazione che l’individuo trae dal suo lavoro quale fattore di distinzione dell’effetto dell’instabilità lavorativa nel modello della “corrosione della personalità” ovvero nella “fluidità” dell’identità personale. Vengono distinte le situazioni di occupazione flessibile in “intégration incertaine”, se l’instabilità del lavoro è compensata da un buon livello di soddisfazione e “intégration dequalifiante”, se l’occupazione non è gratificante e diviene solo un mezzo per ottenere reddito.
Pertanto, in questo terzo modello l’elemento cruciale non è la sola formalizzazione contrattuale, ma l’effetto della formalizzazione contrattuale mediato dalla corrispondenza delle aspettative di lavoro dell’individuo.
Una quarta posizione [Fullin, 2004], rielaborando il modello di Xxxxxx, suddivide i lavoratori flessibili non soddisfatti (“intégration dequalifiante”) in insoddisfatti che vedono l’instabilità come risorsa per il cambiamento, riconducibili al modello della “fluidità” dell’identità personale, e insoddisfatti che hanno perso la capacità di ricomposizione delle proprie esperienze narrative, riconducibili al modello della “corrosione della personalità”.
Dato che la dimensione lavorativa, come abbiamo visto, influisce sull’identità dell’individuo cambiando i suoi tratti valoriali e il nucleo famigliare è l’unità aggregativa più vicina all’individuo, un’ulteriore interrogativo che questa ricerca si pone è se la dimensione lavorativa possa avere un’influenza anche sulla dimensione valoriale all’interno della famiglia del lavoratore.
Questo aspetto sarà indagato nell’analisi quantitativa che verrà in seguito esposta.
5.2 IL LAVORO FLESSIBILE QUALE FATTORE DI VULNERABILITÀ DELL’INDIVIDUO Ripercorrendo il pensiero di Xxxxxxxx XXXXXX [2002], è possibile osservare il lavoro flessibile quale fattore di vulnerabilità dell’individuo, e porlo in relazione con il microcosmo famigliare di appartenenza.
Il lavoro flessibile è un fattore di vulnerabilità dell’individuo, in quanto crea:
Il lavoro flessibile, per definizione, non dà certezza di continuità occupazionale nel tempo e, in assenza di adeguate strutture di welfare, crea il rischio per l’individuo di discontinuità reddituale. Tale insicurezza crea la «mercificazione» [Xxxxxxx, 1944] del lavoro, in quanto la sopravvivenza dell’individuo è legata da un lato alla capacità dell’individuo di lavorare e, dall’altro lato, alle incertezze derivanti dalle fluttuazioni della domanda di lavoro.
Il naturale adattamento a tale situazione fa sì che i lavoratori preferiscano stabilire rapporti con più datori di lavoro contemporaneamente, collocandosi nelle zone con maggiori possibilità di lavoro e sviluppando capacità lavorative facilmente spendibili in più settori, per aumentare le possibilità di esplorare diverse possibilità occupazionali.
D’altra parte la continua instabilità limita la capacità di raggiungere gli obiettivi a lungo termine. L’elemento di incertezza rende non facile per il lavoratore utilizzare le risorse a sua disposizione: è più difficile fare un investimento che comporta responsabilità, sia personali (ad esempio, chiedere un prestito) che su altre persone (matrimonio, figlio, ecc.), con il rischio di non avere un lavoro, in quanto l’accumulazione di risorse dell’individuo è impegnata a “garantire” la sua sopravvivenza dal rischio di mancanza reddituale e non può essere investita in progetti a lungo termine.
E’ importante considerare che, nella vita dell’individuo, le necessità e le risorse lavorative si intrecciano con quelle di vita
personale: il lavoro flessibile limita le possibilità di scelta personale di lungo periodo, ma questo si può verificare in un momento della vita in cui l’individuo non ha interesse a progettare il proprio futuro e, quindi, può non essere un fattore negativo avvertito.
Un’ulteriore conseguenza dell’utilizzo dei contratti flessibili è una maggiore individualizzazione dei rapporti di lavoro, in quanto
• i contratti atipici hanno una differente regolazione normativa dai contratti di tipo subordinato a tempo indeterminato;
• i contratti atipici sono di differenti tipologie;
• spesso le regole operative di svolgimento del rapporto lavorativo vengono stabilite in itinere;
• i lavoratori flessibili sono scarsamente «visibili» dai sindacati e, quindi, più ricattabili;
• l’instabilità della prosecuzione del contratto e delle condizioni di lavoro, rendono il lavoratore più soggetto al metus nei confronti del datore di lavoro e, perciò, maggiormente incline ad accettare condizioni di lavoro individualmente deteriori.
Il risvolto positivo dell’individualizzazione dei rapporti di lavoro è nella possibilità dell’individuo di divenire «imprenditore di sé stesso» attraverso i passaggi da un datore di lavoro all’altro, per il raggiungimento di migliori posizioni o più alte retribuzioni.
Un ulteriore aspetto da analizzare è legato alla progressione delle capacità lavorative dell’individuo durante una vita professionale che, per quanto riguarda un lavoratore flessibile, è composta da un puzzle formato da occupazioni in continuo mutamento.
Le risorse impiegate dal lavoratore flessibile per la crescita delle sue capacità vengono investite in diverse direzioni con lo scopo di rendere la sua “professionalità” appetibile per più datori di
lavoro possibili e non focalizzate in un unico settore. Questo determina una dispersione di energie del lavoratore flessibile e uno svantaggio competitivo ceteris paribus con un lavoratore stabile.
Oltre a tali considerazioni, si deve sottolineare che il datore di lavoro preferisce investire energie formative su lavoratori stabili, in quanto ha un rientro, in termini di produttività, maggiore perché più duraturo nel tempo.
Bisogna aggiungere, inoltre, che il lavoratore flessibile ha difficoltà nel mantenere uniforme il suo percorso lavorativo in quanto impegnato a perseguire obiettivi di breve periodo e a considerare le sole conseguenze immediate delle sue azioni [Xxxxxx, 2000].
La vita professionale del lavoratore flessibile diviene, allora, un collage di frammenti sottoposti ad un incessante divenire a cui con difficoltà riesce ad attribuire un senso [Xxxxxxx, 1999]. La possibilità del lavoratore di mantenere un’uniformità nel suo narrato lavorativo è determinato dalle capacità di elaborazione strategia e di protezione contro il rischio dello stesso.
Il background di capacità professionali e di risorse accumulate danno la dimensione delle mosse che il lavoratore può strategicamente compiere: se le capacità professionali creano un numero di possibilità lavorative alto, allora l’individuo potrà scegliere la più gratificante, ovvero, se l’individuo ha risorse accumulate per potersi sostentare a lungo senza un lavoro, egli, allora, potrà attendere le possibilità più appaganti.
La vulnerabilità del lavoratore flessibile all’interno della famiglia
Senza dubbio analizzare la vulnerabilità del lavoratore flessibile, quale dimensione individuale, è irrealistico, in quanto l’individuo è inserito in una sfera famigliare con la quale ha dei vincoli e dalla quale riceve e destina risorse. La famiglia è il luogo di
mediazione tra le necessità e le risorse, produttive e riproduttive, degli individui che vi appartengono attraverso un sistema ridistributivo interno di quanto ricevuto dal mercato e dal sistema di welfare.
In Italia, il ruolo della famiglia è tradizionalmente un fattore di assorbimento del rischio e di protezione dai problemi connessi all’instabilità del lavoro e del reddito [Fullin, 2002].
Questa impostazione presenta, però, dei fattori di fragilità:
1) il sistema di protezioni è basato sul modello di famiglia
male breadwinner;
2) esistono dei costi psicologici di dipendenza e dei rischi di sussistenza per gli individui deboli (donne o giovani);
3) accentua le diseguaglianze sociali a causa del ruolo marginale del sistema di welfare.
La struttura del modello di famiglia male breadwinner è fondata sull’uomo adulto, capofamiglia, che lavora e fa fronte alle esigenze della famiglia, mentre la donna ha soprattutto un ruolo di cura [Xxxxxx Xxxxxxxx, 1995; Saraceno, 2001; Xxxxxxxx, 1997]. In questo modello il capofamiglia ha un lavoro stabile e remunerativo, mentre la donna e i giovani (i figli), qualora occupati, lavorano con contratti di lavoro flessibili (contratto part-time o atipico). I rischi e la minor remunerazione dei contratti dei figli e dalla donna sono coperti dalle risorse del capofamiglia.
In questo caso, il lavoro flessibile è, quindi, una tipologia contrattuale propria degli individui più deboli e la cui retribuzione non ha ruolo di necessario sostentamento per il lavoratore, ma è di tipo accessorio in un’ottica di sopravvivenza famigliare.
Nell’analisi quantitativa condotta verrà verificato se tale modello corrisponde con la conformazione famigliare del territorio oggetto d’analisi.
I FATTORI DI CRITICITÀ
Un sistema che attribuisce la funzione ridistributiva del rischio di discontinuità reddituali alla famiglia, intesa come strutturata con modello del male breadwinner, genera lunghi periodi di ricerca del lavoro per i giovani e le donne: tale sistema si fonda sul reddito del capofamiglia e, quindi, favorirà l’assunzione con contratti stabili prevalentemente per gli uomini adulti.
Questo sistema, quindi, ha il difetto di
• aumentare la probabilità di misera dei nuclei famigliari non strutturati secondo il modello del male breadwinner, nei quali, ad esempio, non vi è un capofamiglia uomo [Ranci, 2002];
• relegare la donna al tradizionale ruolo di cura, indipendentemente dalla sua volontà di esprimersi professionalmente;
• non considerare i legami all’interno della famiglia come potenzialmente instabili, nonostante il numero dei divorzi, delle separazioni e delle convivenze sia aumentato progressivamente [Istat, 2002];
• rendere difficile la replicazione del modello in futuro, in quanto il giovane-uomo fatica ad emanciparsi dalla famiglia di origine a causa della difficoltà nel trovare un contratto stabile.
La vulnerabilità della donna
Rispetto al passato, un numero sempre crescente di donne decide di entrare nel mercato del lavoro. I fattori che influenzano questo processo sono l’aumento delle aspettativa di vita e, quindi, il minor peso di cura dei figli nel ciclo di vita; lo sviluppo di tecniche contraccettive che consente la pianificazione delle
nascite; l’aumento del livello di istruzione che permette maggiori aspirazioni professionali; la maggiore eguaglianza tra i sessi; la sempre maggiore difficoltà ad affrontare le spese famigliari con il solo stipendio del capofamiglia; la maggiore instabilità dei matrimoni.
La tradizionale suddivisione dei ruoli all’interno della famiglia ha subito mutamenti, ma la partecipazione delle donne al lavoro retribuito non ha determinato un simmetrico aumento del lavoro di cura prestato dagli uomini [Xxxxxxxx, 2003]. Le donne, dovendo dividere il loro tempo tra la famiglia e il lavoro, sono costrette a cercare occupazioni a tempo parziale, anche a costo di accettare alti livelli di precarietà.
Le donne, quindi, vanno a costituire un bacino di lavoratori pronti ad accettare contratti instabili.
Ricordiamo che nel sistema male breadwinner la sicurezza economica della donna è garantita dallo stipendio del partner.
La donna alterna, per necessità o per costrizione, all’interno della sua vita un ruolo tradizionale di cura con momenti lavorativi.
Questo sovrapporsi di ruoli rende le donne meno sensibili alle problematiche di identità personale (relative anche all’immagine sociale di sé) che l’instabilità del lavoro può creare: il lavoro retribuito può non costituire per la donna la dimensione primaria di riferimento [Fullin, 2002].
La vulnerabilità dei giovani
La prolungata permanenza dei figli nelle famiglie di origine è una peculiarità della situazione italiana che è influenzata dal ruolo delle famiglie e dalle difficoltà di rinvenimento di un’occupazione stabile.
Nel tempo è stata registrata una tendenza dei giovani a procrastinare sempre più le scelte di “passaggio”: la conclusione degli studi, l’ingresso nel mondo del lavoro, la ricerca di una
abitazione al di fuori della casa dei genitori, la convivenza o il matrimonio e la procreazione.
L’impatto marginale del sistema di welfare che accompagna i giovani in questi passaggi, li rende ancor più difficili e legati alle risorse della famiglia di origine. Questo crea delle diseguaglianze sociali: i giovani che hanno a disposizione le risorse dalla famiglia di origine possono affrontare i passaggi nel ciclo di vita rispettando la loro aspirazione, mentre gli altri subiscono un ritardo cronico dovuto alla difficoltà di accumulare personalmente le risorse necessarie.
L’esigenza di accumulare risorse porta il giovane a dover accettare occupazioni anche con un alto grado di precarietà.
La contrattualistica atipica è, in molti casi, specificamente creata per i giovani: i contratti di praticantato, di contratti di tirocinio e di apprendistato sono destinati a formare il lavoratore.
Questi contratti prevedono dei vantaggi economici per il datore di lavoro (fiscali e di minore retribuzione del lavoratore) in cambio della sua disponibilità a formare un giovane.
Il legittimo abuso2 di tali contratti è, purtroppo, fin troppo semplice: il datore di lavoro, ingolosito dai vantaggi fiscali, nonché dalle possibilità di pagare il lavoratore al di sotto dei minimi salariali garantiti, cerca di utilizzare tali contratti anche per professioni con bassa qualifica, in cui l’attività formativa non è proporzionata alla perdita reddituale del giovane e dello Stato.
5.3 Il lavoro flessibile e le scelte famigliari
La condizione occupazionale coinvolge una dimensione che non è solo del singolo lavoratore/lavoratrice, in quanto l’individuo
2 Si ha legittimo abuso quando con un’azione lecita viene sfruttata la formulazione normativa per ottenere vantaggi contrari alla ratio degli istituti che regolano la fattispecie.
armonizza le sue risorse economiche (retributive, di tutela e di welfare) e di tempo (libero, di lavoro e di cura) con gli altri membri della famiglia, pertanto è necessario valutare l’effetto dei contratti atipici con uno sguardo che colga le interazioni positive e negative in una prospettiva famigliare.
In questa prospettiva verranno analizzati nei seguenti capitoli:
• l’influenza sulle scelte di formazione di una famiglia (formazione della famiglia e nascita di figli);
• l’influenza sul “timing” delle scelte;
• le conseguenze dell’instabilità sulle scelte di vita della famiglia.
L’Italia presenta caratteristiche di analisi particolari, in quanto il modello famigliare di riferimento3 ha opposto più resistenze al cambiamento dalla tipologia “male bread winner/woman sole carer” alla tipologia “dual earner/state-market carer”.
Il modello “male bread winner/woman sole carer” è, come si è detto, il modello tradizionale di riferimento nel quale i ruoli tra i generi sono distinti: l’uomo è responsabile dell’approvvigionamento della famiglia delle risorse dall’esterno e la donna è responsabile della cura della famiglia e della gestione interna delle risorse.
Il modello “dual earner/state-market carer” è invece caratterizzato da una ambivalenza dei ruoli nella coppia dovuta alla necessità/possibilità sia dell’uomo che della donna di approvvigionare la famiglia di risorse dall’esterno, mentre i bisogni di cura sono soddisfatti da strutture di welfare statale o da operatori di mercato.
3 I modelli famigliari sono idealtipi teorici utilizzati in sociologia, come in altre scienze, per ricondurre la complessità della realtà a delle costruzioni di riferimento allo scopo meglio comprenderla.
Un modello intermedio tra le due tipologie presentate è il “one and half earner/woman sole carer” che presenta l’uomo come lavoratore full–time e la donna come lavoratrice, il cui stipendio non è la principale fonte di sostentamento della famiglia, con ruolo di cura nella famiglia.
L’adozione da parte di una coppia di uno dei tre modelli è condizionato dai fattori culturali, dalla possibilità e rapporto costo/qualità nell’affidare i bisogni di cura all’esterno della famiglia, dalla possibilità e dal rapporto di redditività dell’impiego lavorativo della donna.
L’adozione di un modello può variare nel tempo all’interno della coppia: molte coppie adottano il modello “dual earner/state- market carer” all’inizio della loro carriera occupazionale, ma si spostano al modello “one and half earner/woman sole carer”” ovvero al modello “male bread winner/woman sole carer” con la nascita dei figli [Xxxxxx, Xxxxx e Xxxxx, 1999].
Un ruolo centrale nella scelta del modello famigliare dopo la nascita del primo figlio è svolto dalla qualità e dei servizi all’infanzia che vengono offerti dallo stato o dagli operatori pubblici [Xxxxxxxx, 2006] e dalla stabilità occupazionale del lavoro dei genitori, in quanto il rischio di povertà in una coppia con un solo componente “breadwinner” soprattutto se assunto con contratto atipico è molto alta [Xxxxxxxx, 2006].
La coppia è anch’essa divenuta più “flessibile”, infatti, non è più percepita come istituzione monolitica, ma soggetta a un processo di continua verifica e negoziazione fatta di piccoli cambiamenti. Questo ne accentua i caratteri di reversibilità e di instabilità.
Una interessante ricerca di Xxxxxxxx [2006] condotta su un campione di 163 coppie di Napoli evidenzia alcuni legami tra instabilità lavorativa (assunzione di almeno uno dei due partner con contratto atipico) e la vita di coppia: i rapporti «poco
organizzati o sotto il segno dell’indeterminatezza, appaiono definiti da una percezione della vita quotidiana e dell’avvenire in cui i partner hanno accettato, chi deliberatamente e che no, l’esistenza di una certa flessibilità, fluidità nel sistema domestico, nello scambio reciproco e nelle attività comuni» [Xxxxxxxx L. (2006)].
Particolare attenzione è da porsi rispetto al fenomeno della convivenza che, già da molto tempo, viene utilizzata come strategia di prova prima del matrimonio [Indagine Multiscopo Istat, 1998].
In Italia il numero di matrimoni preceduto da convivenza è aumentato negli anni: dal 2% degli anni Settanta, al 7,7% degli anni Ottanta, al 13,7% degli anni Novanta [Saraceno e Naldini, 2001], a oltre il 50% del 2005 [Xxxxxxx, 2006].
L’inizio di una convivenza è percepito in modo differente dalle coppie, in quanto, in alcuni casi è vissuto come un impegno di unione stabile, in altri casi come un’occasione di reciproca scoperta [Xxxxxxx, 2006].
Lo scoglio maggiore indicato dalle coppie per iniziare il percorso di formazione di una famiglia è indicato nell’incertezza di avere un reddito adeguato che consenta di affrontare le spese dell’abitazione e di sussistenza e la convivenza è vista come un mezzo per testare anche la capacità di tenuta economica [Xxxxxxx, 2006].
Il grado di istruzione della donna influenza la possibilità di iniziare la vita famigliare con una convivenza [Xxxxxx, 2002] e questo è legato principalmente al diverso incastro tra percorso di vita lavorativo e percorso di vita famigliare: chi affronta un percorso di laurea ha una tempistica di maturazione lavorativa più lenta e questo ha maggiore impatto sulle donne perché iniziano percorsi di vita di coppia in età più giovane rispetto agli uomini.
La convivenza è percepita come una scelta privata della coppia, mentre il matrimonio ha una dimensione pubblica di riconoscimento e pone fine alle pressioni esterne sulla coppia poste dai parenti e delle istituzioni, attraverso, ad esempio, vantaggi fiscali e il riconoscimento legale del vincolo. Il matrimonio è una cerimonia pubblica che conferisce alla coppia una collocazione nella società, creando legami e garanzie rispetto alla cerchia dei parenti e degli amici, divenendo punto di attrazione di risorse economiche di genitori e parenti.
Nelle coppie flessibili la variabile preminente nelle scelte di matrimonio, indipendentemente dall’estrazione sociale, è la tempistica anagrafica: oltre a una certa età è importante sposarsi nonostante l’instabilità economica [Xxxxxxxx, 2006].
Le scelte di vita delle coppie sono influenzare nelle tempistiche dalla vulnerabilità economica e dal percorso professionale dei singoli: il ciclo di vita della coppia (creazione e sviluppo della vita a due) è influenzato e influenza la carriera lavorativa dell’individuo; le scelte famigliari e lavorative sono strettamente intrecciate.
5.3.1 Il lavoro flessibile e la fecondità
In Italia c’è un forte divario tra il tasso di fertilità e la maternità desiderata e tra gli elementi che contribuiscono a questo divario c’è l’aumento dell’instabilità occupazionale [Xxxxxxxx, 2006].
Il tasso di fecondità in Italia è di 1,42 figli per donna con un età media al parto di 31,4 anni [Istat, 2011]. Questo dato è influenzato in modo significativo dalla nazionalità della madre: il tasso di fecondità delle donne italiane è di 1,33 figli con un età media al parto di 32,1 anni, mentre per le donne straniere il tasso di fecondità è di 2,07 con un’età media al parto di 28,0 anni [Istat, 2011].
Il tasso di fecondità italiano è uno dei più bassi all’interno dell’Unione Europea ed ha subito un forte calo da 2,43 figli del 1970 a 1,42 figli del 2011 [OECD, 2011].
In Italia non sembra mancare, però, il desiderio di maternità: il 62% delle donne che ha appena avuto un bambino afferma che ne vorrebbe un altro e il 23 % ne vorrebbe altri due [Istat-Cnel, 2004].
Un primo aspetto da affrontare è di tipo anagrafico: il fattore della bassa fertilità potrebbe essere legato all’età della donna quando nasce il primo figlio.
In Italia il 71,7% dei figli nasce all’interno di coppie sposate [Istat, 2013], potendo intendere la nascita del primo figlio come un passaggio nel processo di maturazione della coppia successivo non solo alla convivenza, ma anche al matrimonio.
Le coppie preferiscono stabilizzare il loro rapporto di fronte ai parenti ed alle istituzioni prima di mettere al mondo un figlio. Anche la percezione del rapporto cambia nei partner: prima dell’arrivo del primo figlio la coppia si percepisce come legame instabile e reversibile, mentre successivamente vengono rafforzate le convinzioni affettive e la forza dell’unione, anche attraverso una maggiore pianificazione del futuro insieme [Xxxxxxxx, 2006].
Il passaggio dallo status di giovane a quello di adulto è avvertito come coincidente con la nascita del primo figlio, in quanto gli altri elementi che hanno sempre caratterizzato questo momento (l’avere un lavoro, essere economicamente indipendenti, vivere in coppia) sono instabili, mentre la prima filiazione è un passaggio irreversibile. Alcuni autori parlano addirittura del “patto di filiazione” quale relazione non rinegoziabile all’interno della coppia che porta la “famiglia flessibile” ad assumere «il valore narcisistico e la tempo stesso esibizionistico del puerocentrismo» causato da un mutamento delle aspettative di
realizzazione identitarie dei partner da professionali a genitoriali [Xxxxxxx, 2006].
Un secondo aspetto è legato a un fattore culturale: in Italia, come in tutta l’area mediterranea, è presente una particolare attenzione a salvaguardare i doveri famigliari tra genitori e figli, quindi, la decisione di avere un figlio è influenzata maggiormente dalla consapevolezza di poter far fronte ai doveri che comporta [Xxxxxx-Xxxxxxxx e Xxxxxxx, 1996].
Un terzo aspetto è legato agli impedimenti che si sviluppano a livello di sistema costi/benefici tra mondo del lavoro e servizi di cura (l’instabilità lavorativa e di reddito dei genitori; le difficoltà di reperimento di servizi di cura dei figli con costi accessibili).
Diversi studi, condotti comparando i dati dei paesi europei a livello nazionale, mostrano come il tasso di occupazione e il tasso di fertilità delle donne siano direttamente proporzionali: nei paesi in cui le donne hanno più figli, partecipano maggiormente all’attività lavorativa [Xxxxxx, 2001; Xxxxxxxx e Xxxxxxx, 2001].
Le due variabili sono entrambe influenzate
• dal sistema di “state/market carer” del paese;
• da fattori socio-economici-culturali (istruzione, religione, ecc.);
• da dinamiche intergenerazionali.
La decisione delle coppie di avere un figlio oltre al primo sembra essere agevolata in alcuni Paesi da un contesto in cui è favorita l’opportunità di accedere al modello “dual earner/state-market carer”.
Nella ricerca condotta da Xxxxxxxx [2006] due terzi delle “famiglie flessibili” con figli hanno affermato che la decisione di mettere al mondo un bambino è legata in primo luogo alla presenza di una doppia entrata economica. Nella “famiglia flessibile” diviene, quindi, fattore centrale per la nascita di un figlio, la possibilità di occupazione femminile.
Date queste premesse, è necessario comprendere come la decisione di avere un figlio viene influenzata dal rapporto lavorativo “flessibile” della futura madre.
L’impatto è in modo fortemente negativo: «prendersi la maternità nel bel mezzo di un rapporto di collaborazione significa tradire un patto tacito con il datore di lavoro, secondo il quale il congedo viene concesso non all’interno di un periodo coperto dal contratto, ma semmai tra la fine di quello in corso e quello successivo» [Xxxxxxxx, 2006].
Questo concetto è ben espresso in un intervista, riportata nello studio citato, a una lavoratrice flessibile: «Finché continua [i suoi contratti di collaborazione sono rinnovati di anno in anno] se voglio fare un figlio, non lo devo chiedere al mio compagno, ma al mio capo. Decide lui se posso farlo» [Xxxxxxxx, 2006].
Emerge chiaro che laddove una protezione della maternità e della paternità è prevista per legge, per i lavoratori “flessibili” risulta difficile farla valere a causa della strutturale sottoposizione della loro condizione di “lavoratori” alle esigenze del datore di lavoro.
Un’ulteriore spiegazione della mancata applicazione delle tutele alla maternità, particolarmente rispetto ai congedi di maternità, nei contratti atipici è la mancanza di informazione sui propri diritti dei lavoratori e delle lavoratrici [Xxxxxxxx, 2006].
Capitolo sesto: i periodi di sospensione dell’attività lavorativa per maternità
Come è stato in precedenza esposto, nella normativa italiana a protezione della maternità, i contratti flessibili si differenziano dal contratto a tempo indeterminato per la differente possibilità di accesso a periodi di sospensione dell’attività lavorativa per consentire ai genitori di prendersi cura del bambino.
In seguito alla richiesta del Parlamento Europeo, K. Davaki [2010] ha condotto un’opera di sintesi e di verifica della letteratura riguardo agli effetti del congedo famigliare.
Per meglio comprendere il panorama europeo occorre definire i termini “congedo di maternità o paternità”, “congedo parentale” e “congedo familiare”.
In conformità con la letteratura viene definito
• “congedo di maternità o paternità”, il periodo di sospensione dell’attività lavorativa, di solito breve e fruito dalla madre o dal padre, che segue la nascita del bambino (in Italia, l’astensione obbligatoria);
• “congedo parentale”, la sospensione dell’attività lavorativa supplementare all’iniziale periodo di cura del bambino (in Italia, l’astensione facoltativa);
• “congedo famigliare”, ricomprende sia il periodo di “congedo di maternità o paternità”, che il “congedo parentale”.
In molti paesi europei questi periodi si sommano o si sovrappongono con altre possibilità di sospensione dell’attività lavorativa consentito alla madre.
In Italia, particolare attenzione dev’essere data ai riposi giornalieri per allattamento, in quanto, in primo luogo, sono l’unica sospensione dell’attività lavorativa che consente alla
madre4 una piena retribuzione e, quindi, di poter mantenere lo stesso livello reddituale (l’astensione obbligatoria è retribuita all’80% della retribuzione normale, mentre l’astensione facoltativa è retribuita al 30% della retribuzione normale) e, in secondo luogo, creano la possibilità di non di interrompere l’attività lavorativa per la madre adattando le esigenze lavorative al nuovo carico di cura. I riposi giornalieri per allattamento consentono alla lavoratrice la sospensione per numero di ore in modo costante (fino a 2 ore al giorno) per un lungo periodo di tempo (il primo anno di vita del bambino).
Vengono definiti “periodi di sospensione dell’attività lavorativa per maternità”, sia i congedi famigliari, che tutti gli istituti volti a consentire l’interruzione dell’attività lavorativa per favorire la maternità o la paternità.
6.1 Brevi cenni riguardo alla regolazione delle sospensioni per congedi parentali in Europa
Il cambiamento nell’equilibrio di genere nel mercato del lavoro, dovuto alla posizione sempre più eguale della donna rispetto all’uomo per tipologia di occupazione e numero di ore lavorate, ha dato vita a discussioni sulla ripartizione tra Stato e famiglia della responsabilità di assistenza ai bambini [Leira, 1998].
L’intervento dello Stato ha influito, sia sull’impiego retribuito, sia sull’assistenza non retribuita e ha reso meno netti i confini tra i contributi in denaro e in servizi [Xxxxx 2009].
Walby [2004] individua diverse modalità di tutela: in primo luogo, la xxx xxxxxxxxxxxxxxxxx xxx xxxxx xxxxxxx, dove lo sviluppo dei servizi pubblici consente alle donne di aumentare la partecipazione al mercato del lavoro; in secondo luogo, la via del
4 Generalmente, i permessi di allattamento sono utilizzati dalla madri, i padri, pur avendone facoltà secondo legge, li utilizzano in modo residuale.
mercato degli Stati Uniti, in cui i servizi che consentono alle donne di avere un lavoro sono privati; in terzo luogo, la via normativa dell’UE, nella quale l’occupazione femminile è favorita dall'eliminazione della discriminazione, dalla regolamentazione dell'orario di lavoro e da politiche per la promozione dell’inclusione sociale.
Per meglio chiarire il quadro normativo comune, è necessario tracciare un breve schema degli interventi normativi più importanti provenienti da fonti Comunitarie riguardanti i periodi di sospensione dell’attività lavorativa per maternità.
Nel 1957 il trattato di Roma ha introdotto la parità di retribuzione tra donne e uomini con l’articolo 119.
Sono seguite negli anni Settanta una serie di direttive giuridicamente vincolanti che miravano ad attuare l'uguaglianza di genere in materia di occupazione attraverso la parità di retribuzione a parità di lavoro, la parità di accesso al lavoro, la parità di condizioni di lavoro e la parità di trattamento in materia di sicurezza sociale [Walby 2004].
Nel 1992 una raccomandazione del Consiglio europeo (Consiglio dell'Unione Europea, 1992) sulla cura dei figli suggeriva agli Stati membri di sviluppare e promuovere iniziative per consentire alle donne e agli uomini di conciliare lavoro, famiglia e responsabilità per la cura dei figli. La raccomandazione suggeriva altre misure tra cui la promozione dei servizi di assistenza all’infanzia, del congedo parentale, delle politiche favorevoli alla famiglia sul luogo di lavoro e di misure per promuovere la partecipazione degli uomini nelle attività di assistenza all’infanzia.
Nel 1996, è stata adottata una direttiva sul congedo parentale che stabiliva il diritto individuale a un congedo parentale di minimo tre mesi per uomini e donne (in aggiunta al congedo di maternità). Tale diritto avrebbe dovuto essere non trasferibile,
ma l’assenza di specifiche indicazioni sulla retribuzione di tale periodo, di fatto, ha reso meno probabile che fosse richiesto dagli uomini, in quanto la fruizione del congedo in molte legislazioni, tra cui quella italiana, è quantificata nel massimale rispetto alla coppia e non al singolo genitore [Xxxxx 2009, Xxxxxxxxx e Xxxxx 2004].
La strategia europea per l’occupazione ha introdotto, dopo il trattato di Amsterdam, delle misure per la conciliazione tra lavoro e famiglia tese a rafforzare le pari opportunità nel contesto di un’occupazione femminile flessibile. Gli Stati membri hanno dovuto elaborare e attuare politiche favorevoli alla famiglia, compresi un’assistenza all’infanzia di alta qualità a prezzi accessibili e regimi di congedo parentale (Commissione della Comunità europea, 2001);
Nell’agenda di Lisbona, infine, la conciliazione del tempo lavoro/famiglia è vista come una dimensione che contribuisce a un buon ambiente di lavoro ed è agevolata da un'organizzazione del lavoro flessibile [Xxxxxxxxxx, 2004]. È stata promossa una nuova strategia di “flessicurezza” che ha collegato la politica sociale con i mercati del lavoro flessibili, nonché con le politiche economiche e demografiche. Dal 2005 è entrata a far parte dell’agenda la questione relativa all’aumento della fertilità.
Nel complesso, la politica per l'infanzia dell’UE è basata sul diritto legale alla sospensione dell’attività lavorativa per maternità, sul sostegno pubblico per i genitori che lavorano e sull’istruzione primaria garantita per tutti i bambini [Xxxxxxx e Xxxxx 2004]. Le direttive sulla regolamentazione dell'orario di lavoro e della genitorialità hanno iniziato a integrare il concetto di genitore-lavoratore nel diritto del lavoro.
Tuttavia, l'attuazione delle direttive sulla parità dell’UE non è uniforme ed è condizionata da differenze nazionali in materia di istituti giuridici, dalla volontà politica e dalle diverse modalità di
recepimento del diritto dell’UE. Le sovvenzioni per l’assistenza rimangono, infatti, di competenza delle autorità degli Stati membri e la strategia dell'Unione europea per l’integrazione delle questioni di genere è supportata solo da interventi giuridici non vincolanti, ossia di consulenza piuttosto che esecutivi [Walby, 2004].
Le politiche famigliari sono una combinazione di politiche, leggi e programmi mirati alle famiglie. Il sussidio statale per le famiglie può assumere le seguenti forme:
1) sussidi diretti e indiretti per i genitori (es. assegni famigliari, contributi per l’infanzia, buoni, sgravi fiscali);
2) prestazione di servizi di istruzione e puericultura (es. asili nido pubblici);
3) politiche di congedo parentale (es. congedi di maternità, paternità, parentali e per la cura dei bambini);
4) sussidi diretti e indiretti per i servizi privati forniti da singoli, ONG, imprese (sovvenzioni, crediti e sgravi fiscali) [Xxxxxxxxx, 2004].
I periodi di sospensione dell’attività lavorativa per maternità fanno parte delle disposizioni previste dallo Stato per consentire alle madri e ai padri di assentarsi dal lavoro dopo la nascita di un figlio mantenendo al tempo stesso la garanzia dell’impiego e riducendo al minimo i rischi di licenziamento.
I parametri culturali, quali l'attitudine verso la famiglia o le inclinazioni religiose, possono altresì definire il profilo della relazione Stato-famiglia e interagire con le attuali tendenze transnazionali (spesso provenienti dall’UE), ad esempio la promozione della parità tra i sessi.
Un possibile approccio alle politiche familiari può essere basato sulla “dimensione assistenziale degli Stati sociali”[Xxxx 2003].