NOTIZARIO DEL LAVORO
NOTIZARIO DEL LAVORO
n.1 OL – anno V
Indice:
- Pag. 2 “Intervento normativo in materia di contratti a termine nel Settore delle Fondazioni Lirico Sinfoniche, dopo la Sentenza della Corte di Giustizia Europea del 25 ottobre 2018 (causa C-331/17)”. A cura di Rosalba Acquaviva
- Pag. 4 “Ancora su subordinazione e autonomia” A cura di Pippo De Lucia
- Pag.6 “Licenziamento- Rito Fornero seconda fase– Notifica dell’opposizione all’ordinanza alla parte personalmente– nullità della notifica – rinnovazione della notifica o rimessione in termini?” A cura di Laura Lieggi
- Pag.10 “ La tutela prevista dal D.Lgs. n. 23/2015 per i licenziamenti collettivi illegittimi è coerente con i principi di matrice comunitaria? Il Tribunale di Milano interpella la Corte di Lussemburgo. A cura di Manuela Samantha Misceo.
- Pag.16 “Latitudini e longitudini- il diritto senza frontiere”. A cura di Roberto Positano
- Pag. 18 Normativa e documentazione nazionale
- Pag. 18 Osservatorio della Giurisprudenza
- Pag. 20 Eventi, nazionali e sul territorio
Intervento normativo in materia di contratti a termine nel Settore delle Fondazioni Lirico Sinfoniche, dopo la Sentenza della Corte di Giustizia Europea del 25 ottobre 2018 (causa C-331/17).
A cura di Rosalba Acquaviva
Con la conversione del d.l. 29 giugno 2019 n. 59 ad opera della legge 8 agosto 2019, n 81, è entrata in vigore una disciplina speciale dei rapporti a termine alle dipendenze delle Fondazioni Lirico Sinfoniche. Il contenuto regolativo del provvedimento, per il vero, è molto più ampio e avrebbe dovuto costituire – nelle intenzioni del governo all’epoca in carica – un primo segmento di una revisione organica dell’intero settore: un settore che, come attestato dalla Corte dei Conti (nella determinazione 6 giugno 2019, n. 67) presenta diverse criticità gestionali. Sta di fatto che, come chiarito nella Relazione illustrativa del disegno di legge di conversione del d.l. 59/2019 (A.S. n. 1374), l’urgenza del provvedere è stata determinata da una pronuncia della Corte di Giustizia riguardante proprio la disciplina del contratto a termine per il personale artistico e tecnico dipendente dalle suddette Fondazioni (sentenza del 25 ottobre 2018, causa C-331/17, Sciotto)”.
Da questa pronuncia, quindi, è bene prendere le mosse al fine di comprendere il senso a e la portata della novella.
Nel corso di un giudizio riguardante una ballerina di fila, la Corte d’Appello di Roma (con ordinanza del 17.5.2017) aveva chiesto alla Corte di Giustizia dell’U.E. «se la tutela dei lavoratori che hanno concluso, con le fondazioni lirico-sinfoniche, una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, per un periodo totale superiore a tre anni, rispond[esse] ai requisiti del diritto dell’Unione, poiché la disciplina nazionale applicabile a tale settore non richiede l’indicazione di ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei contratti, non contiene indicazioni circa la durata massima dei contratti, non specifica il numero massimo dei rinnovi di tali contratti a tempo determinato, non contiene norme equivalenti e non limita a ragioni sostitutive la stipulazione di contratti a tempo determinato in detto settore»; e, in particolare, se la disciplina nazionale all’epoca vigente (identica a quella in vigore fino alla recente novella) fosse coerente con i dispositivi antiabusivi previsti dall’accordo quadro recepito nella direttiva 1999/70/CE.
Con la sentenza del 25 ottobre 2018, la Corte di Giustizia Europea ha deciso la questione stabilendo che «la clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato […] deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale, come quella [italiana] in forza della quale le norme di diritto comune disciplinanti i rapporti di lavoro, e intese a sanzionare il ricorso abusivo a una successione di contratti a tempo determinato tramite la conversione automatica del contratto a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato se il rapporto di lavoro perdura oltre una data precisa, non sono applicabili al settore di attività delle fondazioni lirico-sinfoniche, qualora non esista nessun’altra misura effettiva nell’ordinamento giuridico interno che sanzioni gli abusi constatati in tale settore». Di qui il compito del giudice interno che accerti un utilizzo abusivo di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, di «interpretare ed applicare le pertinenti disposizioni di diritto interno in modo da sanzionare debitamente tale abuso e da eliminare le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione (ordinanza dell’11 dicembre 2014, León Medialdea, C 86/14, non pubblicata, EU:C:2014:2447, punto 56)».
Come anticipato, la disciplina interna in materia di contratto a termine vigente al momento della pronuncia della Corte di Giustizia (D. lgs. 15.6.2015n. 81 come modificato dal D.L. 12.7.2018 n. 87, convertito con modificazioni dalla L. 9 agosto 2018 n. 96.) conteneva all’art.
29 co. 3 la previsione dell’inapplicabilità al personale artistico e tecnico delle Fondazioni Lirico Sinfoniche delle norme che disciplinano la durata e le condizioni per l’apposizione del termine (art. 19 co. 1-3) e quelle in materia di proroghe e rinnovi (art. 21).
In vigenza di tale quadro normativo, la portata della pronuncia della Corte di Giustizia del 25 ottobre 2018 è stata dirompente stante la possibilità dalla stessa aperta di convertire i rapporti proseguiti o rinnovati “abusivamente” in un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato. In tal senso, del resto, si sono successivamente pronunciati il Tribunale del Lavoro di Bari sentenza n. 1840/19 Giudice dott. Tedesco e, in sede di legittimità, la Corte di Cassazione n. 6679 e 6680 del 7 marzo 2019, n. 10860 del 18 aprile 2019, n.12776 del 14
maggio 2019.
Il disallineamento venutosi a creare tra la disciplina normativa e il “diritto vivente” ha richiesto l’intervento “necessario e urgente” del legislatore.
Il nuovo D.L. del 29 giugno 2019 n. 59, convertito con modificazioni con Legge 8 agosto 2019, n. 81 pur confermando la previsione di esclusione del personale tecnico e artistico delle Fondazioni dall’applicazione della normativa generale del rapporto a termine (previsione contenuta nel comma 3 dell’art. 29 del Dlgs 81/15), aggiunge i commi 3 bis e 3 ter all’art. 29 del Dlgs 81/15 e ss.mm. introducendo nel settore alcune delle misure effettive atte a sanzionare gli abusi:
-a)la necessità della sussistenza e dell’indicazione espressa, a pena di nullità, di determinate condizioni per la stipulazione, la proroga e il rinnovo di contratti a termine (co. 3 bis art. 29 Dlgs 81/15 e ss.mm., introdotto dal D.L. 29 giugno 2019 n. 59, convertito con modificazioni con Legge 8 agosto 2019, n. 81). Le condizioni richieste attengono, oltre al caso della sostituzione dei lavoratori temporaneamente assenti, alla “presenza di esigenze contingenti o temporanee determinate dalla eterogeneità delle produzioni artistiche che rendono necessario l'impiego anche di ulteriore personale artistico e tecnico”. L’onere dell’indicazione espressa “è assolto anche attraverso il puntuale riferimento alla realizzazione di uno o più spettacoli, di una o più produzioni artistiche cui sia destinato l'impiego del lavoratore assunto con contratto di lavoro a tempo determinato”.
b) l’introduzione di una durata massima complessiva dei rapporti a termine, “per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale” inizialmente prevista in 48 mesi e ridotta a 36 mesi in sede di legge di conversione, calcolati a partire dal 1° luglio 2019 (co. 3 bis art. 29 Dlgs 81/15 e ss.mm., introdotto dal D.L. 29 giugno 2019 n. 59, convertito con modificazioni con Legge 8 agosto 2019, n. 81);
c)ha escluso, tuttavia, la possibilità di conversione a tempo indeterminato dei rapporti in caso di violazione delle “norme inderogabili riguardanti la costituzione, la durata, la proroga o i rinnovi di contratti di lavoro subordinato a tempo determinato”, limitando la tutela a quella rimediale meramente risarcitoria, con formula generica, e con obbligo di recupero da parte delle Fondazioni nei confronti dei dirigenti responsabili che ne rispondono per dolo o colpa grave (co. 3 ter art. 29 Dlgs 81/15 e ss.mm., introdotto dal D.L. 29 giugno 2019 n. 59, convertito con modificazioni con Legge 8 agosto 2019, n. 81).
La previsione della impossibilità di conversione dei rapporti, estesa a tutte le ipotesi, è rafforzata dalle successive norme (art. 1 co. 2 D.L. 29 giugno 2019 n. 59, convertito con modificazioni con Legge 8 agosto 2019, n. 81) dettate in tema di reclutamento del personale a tempo indeterminato e, in particolare, dalla previsione dell’instaurazione del rapporto previo esperimento, a pena di nullità dei contratti, di apposite procedure selettive pubbliche “nel rispetto dei principi, anche di derivazione europea, di trasparenza, pubblicità e imparzialità e dei principi di cui all'articolo 35, comma 3, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”.
Con il nuovo quadro normativo che dispone la nullità dei contratti a termine conclusi in
violazione di norme imperative, la “tutela” minimale garantita al lavoratore, stabilita dall’art. 2126 c.c., appare una misura iniqua, in quanto riversa sul lavoratore gli effetti negativi conseguenti alla violazione di norme e, sul piano pratico, produrrà soltanto la conseguenza di disincentivarlo dal chiedere il controllo giudiziale sull’operato dei datori di lavoro. La successiva previsione, poi, riconosce il diritto al “risarcimento del danno” che, a ben considerare, è di difficile configurabilità e in relazione al quale, si potrebbe far riferimento all’elaborazione giurisprudenziale che a partire dalla nota sentenza della Corte di Cassazione Sez. Un. 15 marzo 2016, n. 5072 - resa in relazione alle previsioni dell’art. 36, co. 5 Dlgs. 165/2001 in materia di lavoro pubblico – lo ha configurato quale danno in re ipsa con esonero dall’onere della prova e quantificazione forfetizzata.
Rosalba Acquaviva
Ancora su subordinazione e autonomia.
A cura di Pippo De Lucia
Registriamo un ulteriore tassello nel sempreverde dibattito in tema di distinzione tra autonomia e subordinazione. Con la recente ordinanza n. 17384 del 27 giugno 2019 la sottosezione Lavoro della Sesta Sezione della Corte di Cassazione, Presidente dr. Pietro Curzio, relatore Cons. dr. Luigi Cavallaro, ha rigettato il ricorso di una azienda salentina avverso la sentenza della Corte di Appello di Lecce sezione Lavoro, con la quale a sua volta era stata confermata la sentenza di condanna di primo grado. Il lavoratore ricorrente aveva richiesto – ed ottenuto - l'accertamento della natura subordinata del proprio rapporto di lavoro, formalmente incardinato come collaborazione autonoma, e le conseguenti differenze retributive.
Nell'unico motivo di ricorso per cassazione l'azienda ha censurato il provvedimento di secondo grado, per avere a suo dire la Corte di merito ritenuto la sussistenza della subordinazione nonostante che non vi fosse prova alcuna dell'esercizio del potere direttivo e dell'esistenza di ordini specifici e di controllo sull'attività svolta dal ricorrente; e per aver invece valorizzato la presenza di taluni indici sussidiari, ossia la messa a disposizione della struttura da parte datoriale, la esistenza di un compenso fisso mensile e l'assenza di rischio economico in capo al lavoratore.
La Corte di Cassazione osserva inizialmente che in caso di prestazioni elementari, ripetitive e predeterminate nelle modalità di esecuzione, il criterio rappresentato dall'assoggettamento del prestatore all'esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare può non risultare significativo, occorrendo far ricorso a criteri distintivi sussidiari, quali la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell'orario di lavoro, la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale e la sussistenza di un effettivo potere di autorganizzazione in capo al prestatore, senza che rilevi, di per sè, l'assenza di un potere disciplinare nè quello di un potere direttivo esercitato in modo continuativo.
Questa osservazione iniziale serve al Collegio di legittimità per sostenere che spetta al giudice di merito individuare tali elementi sussidiari, attribuendo prevalenza ai dati fattuali emergenti dal concreto svolgimento del rapporto, così implicitamente riconoscendo che essi, in quanto dati fattuali concernenti le modalità concrete con cui si è svolta la prestazione, mantengono rilevanza semplicemente sul piano probatorio, per consentire al giudice di pervenire ad un giudizio di tipo presuntivo sulla sussistenza o meno in concreto dei caratteri propri della fattispecie astratta di cui all'art. 2094 c.c..
Non serve qui ribadire ancora una volta che l'esatta identificazione del paradigma normativo proprio del rapporto di lavoro subordinato alla luce delle generiche indicazioni di legge si è rivelato nel tempo, con la profonda evoluzione della realtà economico-produttiva e sociale che ha caratterizzato la seconda metà del secolo scorso e i primi anni del ventunesimo, una operazione interpretativa di elevata problematicità.
Sono state individuate definizioni più o meno comprensive, sono stati elaborati differenziati criteri legali di identificazione, si è discusso dell'ampiezza del perimetro oggi assegnato dall'ordinamento al rapporto di lavoro subordinato. Si sono variamente alternati due sistemi di identificazione (quello ispirato al metodo sussuntivo e quello tipologico); la giurisprudenza di legittimità ha oscillato nel tempo nella scelta tra questi due metodi, nel tentativo di adattare la generica formula normativa ad una realtà in rapido movimento, optando poi prevalentemente per la tendenziale adozione del metodo sussuntivo.
Ma ciò ha dovuto fare inevitabilmente i conti con rapporti di collaborazione profondamente differenziati: si parte sempre dalla affermazione che ogni attività umana è suscettibile di essere dedotta in un rapporto di lavoro autonomo o in uno subordinato e che l'elemento caratteristico di quest'ultimo è connotato da un vincolo di soggezione personale del prestatore al potere direttivo del datore di lavoro che inerisce alle intrinseche modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative e non già soltanto al loro risultato. Ma, pur condividendo tale imprescindibile assunto, persino la giurisprudenza più rigorosa è stata spesso costretta ad adattare tale affermazione alle realtà più diversificate, sulla base della considerazione che alcuni rapporti presentano per loro natura (si pensi al contenuto intellettuale, ma non solo) una subordinazione attenuata e che comunque la subordinazione, come definita, non sempre è apprezzabile con la stessa intensità o con le stesse modalità in tutti i rapporti.
Ne consegue che anche questo prevalente orientamento giurisprudenziale è giunto spesso ad avallare, nella qualificazione dei rapporti di collaborazione dedotti in giudizio, l'utilizzazione di indicatori - in primis, la soggezione al potere direttivo e di controllo altrui - differenziati per tipo di rapporto considerato; indicatori differenziati e complessi, attraverso i quali è stato possibile individuare, in una valutazione delle risultanze processuali non atomisticamente considerate ma rilette nel loro significato complessivo (cioè con riferimento ai modelli culturali correnti, quali implicati dalla formula di cui all'art. 2094 c.c.), l'essenza della subordinazione nelle diverse situazioni.
Tornando alla motivazione del provvedimento qui in commento, la Corte mostra di non ignorare un importante proprio precedente - solo apparentemente difforme - in un caso in cui era stata esclusa la natura subordinata di un rapporto di lavoro di un soggetto non sottoposto ad un orario di lavoro, non destinatario di direttive puntuali dei responsabili della società, non percettore di un compenso fisso nel corso del rapporto; in quel giudizio la Corte aveva affermato che rispetto a tali circostanze non erano probanti della subordinazione l'inserimento nella organizzazione aziendale e l'utilizzo di locali e strumenti aziendali nonchè di biglietti da visita rilasciati dal committente. Invero, affermava la Corte, l'inserimento nella organizzazione aziendale e lo stesso utilizzo dei beni aziendali è tipico anche dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, di natura autonoma, sicchè tali circostanze non hanno rilievo decisivo; in assenza della prova dell'indice caratteristico della subordinazione - ovvero la sottoposizione del lavoratore al potere gerarchico e conformativo della prestazione del datore di lavoro - gli indici sussidiari possono assumere valenza soltanto se univoci. La Corte in quel caso ha (correttamente, a parere di chi scrive) evidenziato la contraddittorietà degli indici emersi, alcuni - come l'inserimento nella organizzazione aziendale e l'utilizzo di beni aziendali - indicativi della possibile subordinazione, altri - come la mancata imposizione di un orario di lavoro, la emissione di
fattura anche nei confronti di imprese terze, la mancata predeterminazione del compenso nella fase iniziale del rapporto e la mancata erogazione di un compenso fisso - sintomatici, invece, della autonomia della collaborazione.
La sponda per superare tale precedente viene offerta da una sua attenta rilettura; in quel caso la Corte non aveva affermato che i criteri sussidiari debbono essere provati tutti, bensì che "gli indici sussidiari possono assumere valenza soltanto se univoci", ossia non contraddittori, nel preciso senso di cui all'art. 2729 c.c., secondo cui "le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti".
In definitiva, nel provvedimento qui in commento, la Corte avalla il principio secondo il quale deve escludersi che la mancanza di prova di uno dei cd. criteri sussidiari (quale, nella specie, l'orario di lavoro) possa di per sè solo implicare un vizio di sussunzione della fattispecie concreta nell'ambito della fattispecie astratta di cui all'art. 2094 c.c., poiché questa risulta connotata esclusivamente dall'assunzione di un'obbligazione a collaborare nell'impresa in cambio di una retribuzione, offrendo una prestazione di lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore.
Il principio di diritto affermato nella ordinanza in commento chiarisce dunque che il criterio rappresentato dall'assoggettamento del prestatore all'esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare può non risultare significativo, occorrendo far ricorso a criteri distintivi sussidiari, quali la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell'orario di lavoro, la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale e la sussistenza di un effettivo potere di autorganizzazione in capo al prestatore, senza che rilevi, di per sè, l'assenza di un potere disciplinare nè quello di un potere direttivo esercitato in modo continuativo.
Pippo De Lucia
Licenziamento- Rito Fornero seconda fase– Notifica dell’opposizione all’ordinanza alla parte personalmente– nullità della notifica – rinnovazione della notifica o rimessione in termini?
A cura di Laura Lieggi
Commento a sentenza n. 2695/2014 Corte D’Appello Bari
Nel rito Fornero la notifica del ricorso in opposizione ex art. 1 comma 51 L. 92/2012 deve essere effettuata nei confronti del procuratore costituitosi nella fase sommaria, trattandosi di un unico procedimento ancorché suddiviso in due fasi distinte affinché sia possibile assicurare al lavoratore una tutela immediata.
NOTA
1.- Premessa. 2.- Svolgimento processuale. 3.- Disamina della motivazione. 4.- Conclusioni.
1. Premessa
La sentenza in esame si inserisce in quel filone giurisprudenziale che, prendendo le mosse dalla ratio del rito Fornero, fornisce chiarimenti in ordine ai precipitati pratici che discendono dalla natura della sua fase oppositiva.
Occorre, dunque, fare un passo indietro e premettere brevi cenni sulla L. 92/2012.
Com’è noto la legge suddetta ha introdotto nel tessuto connettivo dell’ordinamento giuridico italiano uno schema processuale che assicura al lavoratore una tutela rapida ed immediata. Tale obiettivo viene perseguito attraverso la scissione del giudizio di primo grado in due fasi distinte: la prima - necessaria – tesa ad accertare la sussistenza dei presupposti della tutela
invocata mediante un’istruttoria ridotta agli “atti di istruzione indispensabili”; la seconda – solo eventuale – di opposizione al provvedimento emesso al termine della precedente a cognizione piena ed ordinaria istruita tramite tutti gli atti ritenuti “ammissibili e rilevanti”. In altri termini trattasi di un unico procedimento,ancorché bifasico, in cui l’opposizione non ha natura impugnatoria ma costituisce, di contro, quel momento – eventuale e non obbligatorio – volto confermare e/o modificare un precedente provvedimento giudiziario emesso all’esito di una fase a cognizione semplificata, suscettibile di divenire definitivo nel caso di mancata opposizione, in ossequio ai principi di immediatezza della tutela ed economia processuale propri del rito in esame (ex aliisCass. Civ., sez. Lav., n. 25086/2018).
Ciò posto numerosi sono stati i dubbi interpretativi e di applicazione pratica in ordine al soggetto cui notificare il ricorso che dà avvio alla fase di opposizione.
2.- Svolgimento processuale
Procedendo con ordine, risulta preliminarmente opportuno descrivere gli aspetti salienti della vicenda processuale in considerazione.
A seguito di licenziamento per motivi disciplinari la lavoratrice adiva il Tribunale in funzione di Giudice del Lavoro per ivi sentire pronunciare la sua reintegra in servizio e la contestuale condanna della società datrice di lavoro al pagamento delle retribuzioni dovute dal giorno del recesso a quello dell’effettiva reintegrazione.
Instaurato il contraddittorio si costituiva in giudizio la convenuta la quale contestava l’avversa prospettazione dei fatti chiedendo il rigetto della domanda.
Con ordinanza del 2/10/2013 il Giudice di prime cure rigettava la domanda e condannava la ricorrente alla rifusione delle spese di giudizio.
La ricorrente in seguito dava inizio alla fase di opposizione avverso il predetto provvedimento chiedendo l’accoglimento della richiesta iniziale.
Alla prima udienza di comparizione il procuratore dell’opponente dava atto di aver erroneamente notificato alla parte direttamente e non già al procuratore costituito.
Il giudice assegnava, pertanto, termine per provvedere alla notifica nelle forme prescritte dalla legge.
All’udienza successiva il predetto procuratore, dopo aver mostrato la notifica regolarmente effettuata, rappresentava un ritardo dell’ufficio postale nella consegna del ricorso che aveva impedito alla società resistente di costituirsi nei termini chiedendo, pertanto, nuovo termine per procedere alla rinotifica.
In altri termini parte opponente, dopo aver dimostrato che la mancata notifica non era a lei imputabile ma dovuta a negligenza dell’ufficio postale, chiedeva di essere rimessa in termini per procedere alla tempestiva rinotifica.
Il giudice si riservava.
A scioglimento della predetta riserva il giudice di primo grado dichiarava il ricorso improcedibile in osservanza del divieto di assegnazione di un secondo termine per la rinnovazione della notifica già rinnovata in modo erroneo.
Il Tribunale, cioè, interpretava l’assegnazione del primo termine per la rinotifica quale implicito ordine di rinnovazione senza tuttavia rilevare la nullità della notifica stessa ai sensi dell’art. 160 c.p.c.
Ne derivava il divieto di assegnazione di un secondo termine ex art. 153 c.p.c, che fa divieto al giudice di abbreviare o prorogare i termini perentori.
Avverso il suddetto provvedimento l’opponente proponeva reclamo in Corte d’Appello
affinché fosse accertata la validità della notifica eseguita e, per l’effetto, la causa fosse rimessa innanzi al giudice di prime cure per il prosieguo.
Con sentenza n. 2695/2014 del 3/11/2014 la Corte d’Appello di Bari accoglieva il reclamo, rimettendo le parti davanti al Tribunale, sulla scorta della seguente argomentazione.
3.- Motivi della decisione
3.1.- Il destinatario della notifica
Muovendo dalla riflessione sulla natura unitaria del giudizio di primo grado, la Corte d’Appello di Bari ha dichiarato nulla la notifica del ricorso in opposizione direttamente alla parte e non già al procuratore costituito.
Il dato letterale della previsione normativa impone – genericamente - la notifica all’opposto, senza null’altro precisare e senza d’altro canto legittimare una deroga alla rappresentanza del difensore costituitosi in occasione della fase sommaria.
Ed è a tal proposito che viene in rilievo l’unitarietà del procedimento.
Se trattasi di un unico procedimento – come effettivamente è – allora la rappresentanza processuale conferita dalle parti durante la prima fase vale anche per quella successiva con applicazione della disciplina prevista dall’art. 170 c.p.c. ai sensi del quale “dopo la costituzione in giudizio, tutte le notificazioni e le comunicazioni si fanno al procuratore costituito, salvo che la legge disponga altrimenti”.
Ne è conseguita la non condivisibilità della tesi prospettata dalla reclamante secondo cui l’art. 52 della L. 92/2012 contiene una deroga alla disciplina generale delle notificazioni ex art. 170 c.p.c. in favore di quella di cui all’art. 415 c.p.c. stante il suo rinvio ai requisiti del ricorso indicati nell’art. 414 c.p.c.
Tale richiamo, invero, è limitato agli elementi essenziali che il ricorso in opposizione deve contenere così da ricondurre la fase oppositiva al modello ordinario ed implicitamente affermarne la pienezza della cognizione, senza che ciò implichi l’applicazione della disciplina di cui alla successiva disposizione, che prevede la notifica al convenuto.
Peraltro, secondo la Corte, non offre alcun conforto probatorio l’analogia tra il procedimento ex art. 700 c.p.c. e la prima fase del rito Fornero nonché tra il primo grado del processo ordinario del lavoro e la seconda fase del rito Fornero prospettata dalla reclamante ma, al contrario, essa corrobora e rinforza la teoria della notifica al procuratore costituito.
Al riguardo i giudici hanno evidenziato come la giurisprudenza di legittimità sia granitica in tema di notifica nell’ambito del giudizio cautelare ante causam avendo a più riprese affermato che, se la procura rilasciata per la fase cautelare è riferibile altresì al giudizio di cognizione, allora la notifica deve considerarsi pienamente regolare se effettuata al procuratore costituito per il primo procedimento.
Seguendo il sillogismo logico suggerito dalla reclamante deve innanzitutto prendersi atto che la procura conferita nella prima fase del giudizio era stata rilasciata anche per “le fasi ed i gradi successivi d’impugnazione ed esecuzione” e, successivamente, riconoscersi che la notifica andava effettuata ai medesimi difensori.
3.2.- Rimessione in termini o rinnovazione?
La reclamante ha lamentato la mancata rilevazione d’ufficio della nullità della notifica nonché la sua mancata rinnovazione.
La Corte d’Appello ha ritenuto di dover accogliere la censura in questione ricorrendo innanzitutto alla distinzione tra notifica inesistente e notifica nulla.
La notifica è inesistente solo e soltanto in ipotesi eccezionali, tutte connesse alla insussistenza di un qualsivoglia nesso tra il luogo della notifica stessa e la persona presso cui effettuata ed il destinatario dell’atto (si pensi al caso in cui nessun atto venga consegnato all’ufficiale giudiziario).
In tutte le altre eventualità - in cui il requisito del collegamento è soddisfatto - si è in presenza di una notifica nulla, il cui vizio è sanabile mediante la costituzione ovvero l’opposizione del destinatario in ossequio al principio di conservazione degli atti processuali che comunque raggiungono lo scopo a cui sono destinati nonché tramite la sua rinnovazione.
Se questa è la premessa, allora la notifica eseguita alla parte personalmente è sicuramente erronea ma nulla, non inesistente, in quanto riconducibile al suo reale destinatario e, di tal ché, avrebbe potuto essere sanata se il giudice di prime cure ne avesse disposto la rinnovazione in osservanza del combinato disposto di cui agli artt. 160 e 162 c.p.c.
3.3.- Distinzione tra rimessione in termini e rinnovazione della notifica
Ciò posto i giudici di secondo grado hanno puntualizzato che in primo grado avrebbe dovuto essere rilevata d’ufficio la nullità della notifica e, conseguentemente, avrebbe dovuto essere disposta la sua rinnovazione.
Erroneamente, invero, il primo giudice aveva rigettato la richiesta di rimessione in termini per eseguire nuovamente la notifica in ossequio al divieto di assegnazione di un secondo termine ex art. 153 c.p.c. assumendo come punto di partenza del proprio ragionamento logico-giuridico la perentorietà di quello già concesso dopo aver preso atto della violazione del termine a difesa, senza nulla dire – e far presagire – circa la nullità della notifica stessa. Ed è a questo punto che occorre approfondire la distinzione tra remissione in termini e rinnovazione della notifica.
La prima, infatti, viene disposta quando la parte incorsa in decadenze per il decorso dei termini dimostri che ciò sia accaduto per cause a lei non imputabili.
Evidentemente la ratio soggiace nel principio di conservazione degli atti giuridici e in ragioni di equità che impongono di mettere il resistente/convenuto contumace nella medesima condizione in cui si sarebbe trovato se il caso fortuito o la forza maggiore non avessero impedito la corretta notificazione dell’atto.
Di contro, la rinnovazione della notifica è disciplinata dall’art. 291 c.p.c. ai sensi del quale “se il convenuto non si costituisce e il giudice istruttore rileva un vizio che importi nullità nella notificazione della citazione, fissa all’attore un termine perentorio per rinnovarla”.
Orbene nel caso di specie l’opponente era stata più propriamente rimessa in termini avendo dimostrato l’incolpevole ritardo nella notificazione del ricorso mentre il Tribunale non aveva rilevato d’ufficio la nullità della notifica per l’erronea individuazione del suo destinatario, sicché il termine perentorio disposto per la nuova notifica non poteva essere considerato inutilmente scaduto e, dunque, doveva esserne concesso altro per la rinnovazione.
4.- Conclusioni
Alla luce delle osservazioni finora esposte la Corte d’Appello ha ritenuto di dover considerare la sentenza conclusiva della fase di opposizione nulla e, pertanto, di rimettere la causa al giudice di primo grado innanzi al quale la causa doveva essere riassunta per la decisione sull’opposizione.
Conclusivamente si può affermare che la notifica del ricorso in opposizione nel rito Fornero deve essere eseguita nei confronti del procuratore già costituitosi durante la fase sommaria trattandosi di un unico giudizio quantunque distinto in due momenti processuali aventi natura e funzione differenti.
Tuttavia, quantunque la notifica del ricorso alla parte direttamente sia nulla, un granitico orientamento giurisprudenziale impone al giudice di concedere un nuovo termine per
procedere alla rinnovazione della notifica stessa, non potendo sanzionare l'opposizione con la dichiarazione di improcedibilità solo constatando la mancata comparizione delle parti all'udienza prefissata.
In particolare la Suprema Corte ha escluso che possa procedersi a tale dichiarazione senza previamente accertarsi che il decreto di fissazione udienza sia stato portato a conoscenza dell'opponente, evidentemente in un'ottica di tutela del diritto di difesa. A tal proposito in una nota sentenza ha precisato che è bisogna escludere che "le esigenze di celerità che ispirano il rito previsto dalla l. n. 92 del 2012 possano spingersi sino al punto di negare la possibilità di concedere ex art. 291 c.p.c. nuovo termine per la notifica del ricorso introduttivo del giudizio e del decreto di fissazione dell’udienza, pur se la notifica stessa risulti omessa del tutto, atteso che il principio costituzionale di ragionevole durata di cui all’art. 111 Cost., comma 2, va esaminato nell’ottica non del singolo processo, ma dei tempi complessivi necessari affinchè su un dato diritto azionato si ottenga una pronuncia di merito, nel sostanziale rispetto dell’art. 24 Cost." (Cass., Sez. Lav., sent. n. 1453/2015). Nel caso di specie, trattandosi di un vizio sanabile, il giudice avrebbe dovuto innanzitutto porre la parte nella condizione di porvi rimedio e, solo dopo l'accertamento della sua inerzia, chiudere il processo con una mera pronuncia di rito.
Avv. Laura Lieggi (con la partecipazione della dottoressa Angelica Maiorano)
La tutela prevista dal D.Lgs. n. 23/2015 per i licenziamenti collettivi illegittimi è coerente con i principi di matrice comunitaria? Il Tribunale di Milano interpella la Corte di Lussemburgo.
A cura di Manuela Samantha Misceo
Con articolata e ampiamente motivata ordinanza del 5/8/2019, il Tribunale di Milano ha rimesso alla Corte di Giustizia Europea la pronuncia sulla compatibilità con il diritto dell’Unione del Decreto Legislativo n. 23/2015, nella parte in cui regola le misure adottabili avverso i licenziamenti collettivi illegittimi, per i rapporti di lavoro rientranti nel sistema delle cd. tutele crescenti, ivi compresi quelli “stabilizzati” successivamente alla data di entrata in vigore del Decreto stesso.
In particolare, il Giudice del Lavoro di Milano, con un rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 del TFUE, ha chiesto alla Corte comunitaria di valutare la sussistenza di eventuali profili di incompatibilità fra l’attuale disciplina sanzionatoria dei licenziamenti collettivi illegittimi, sì come disciplinata dall’art. 10 del D.Lgs. n. 23/2015, anche rispetto alle trasformazioni dei rapporti a termine menzionate dal comma 2 dell’art. 1 del D.Lgs. n. 23/2015 (decreto attuativo della legge 10 dicembre 2014, n. 183 – cd. Jobs Act), con i principi di diritto fondamentali di derivazione eurounitaria.
L’attuale disciplina delineata dal legislatore del 2015 prevede, infatti, che in caso di licenziamento collettivo di cui alla Legge n. 223/1991 (artt. 4 e 24), intimato senza l'osservanza della forma scritta, si applica il regime sanzionatorio reintegratorio pieno di cui all'articolo 2 del D.Lgs. n. 23/2015 e che, nell’ipotesi di violazioni procedurali o dei criteri di scelta prescritti rispettivamente dagli artt. 4, comma 12, e 5, comma 1, della legge n. 223 del 1991, si adotta invece il regime meramente indennitario prescritto dall'art. 3, comma 1, del
D. Lgs. n. 23/2015, con corresponsione quindi di un'indennità (non assoggettata a contribuzione previdenziale) di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di
riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità.
Come è noto, la tutela indennitaria dell’art. 3 del D.Lgs. n. 23/2015 è stata rimodulata, rispetto all’originaria previsione dai contenuti più stringenti quanto alla quantificazione dell’indennizzo erogabile, dalla novella introdotta dal D.L. n. 87/2018 (il cd. Decreto Dignità) che ha elevato la soglia minima e massima dell’indennizzo de quo e dalla pronuncia di incostituzionalità dell’art. 3 comma 1 del D.Lgs. n. 23/2015, intervenuta con sentenza della Corte Costituzionale dell’8/11/2018, n. 194, con cui è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale del meccanismo rigido e predeterminato di quantificazione ancorato alla sola anzianità di servizio.
Il Decreto n. 23/2015 si applica, ex art. 1, comma 1, ai rapporti di lavoro instaurati a decorrere dalla data di sua entrata in vigore (7/3/2015), nonché anche ai casi di conversione, successiva all'entrata in vigore del Decreto, dei contratti a tempo determinato (o di apprendistato) in contratti a tempo indeterminato (comma 2 art. 1), con la conseguenza che, ove operante il predetto criterio temporale, in caso di risoluzione datoriale anche per tali rapporti di lavoro valgono le regole delle tutele crescenti.
In tale ambito di disciplina, ove i rimedi applicabili ai licenziamenti collettivi illegittimi vengono determinati (anche) dalla data di assunzione (o conversione del rapporto) si colloca la fattispecie oggetto della pronuncia qui in esame.
Il caso esaminato dal Tribunale di Milano (in procedura di opposizione ex lege 92/2012), infatti, riguarda una procedura di licenziamento collettivo, impugnata in particolar modo per la violazione dei criteri legali di scelta, nell’ambito della quale il datore di lavoro ha risolto il rapporto di lavoro di 350 dipendenti, con la particolarità che, fra essi lavoratori, esclusivamente la ricorrente era soggetta, in ragione della data di assunzione (meglio: di conversione del rapporto da tempo determinato in tempo indeterminato, avvenuta post 7/3/2015), al regime di tutela di cui all’art. 1 comma 2, e art. 10 del D.Lgs. 23/2015, ossia alla disciplina dei contratti a cd. tutele crescenti, liddove invece i suoi colleghi beneficiavano del rimedio reintegratorio.
Ravvisando gli estremi della disparità di trattamento e profilando la violazione del diritto comunitario, la lavoratrice ha pertanto adito il Tribunale milanese.
Ora, nell’ordinanza del 5/8/2019 il Giudice, procedendo ad analitica indagine circa la normativa applicabile al caso esaminato, ha dato atto che all’impugnato licenziamento doveva applicarsi, ratione temporis, il regime sanzionatorio esclusivamente indennitario, oggettivamente differente da quello previsto dalla Legge n. 223/91 (art. 5 co. 3, nel testo novellato dalla L. 92/2012, cd. Legge Fornero), e osservato che tale soluzione determinava, di fatto, l’applicazione di un trattamento peggiorativo, con sottrazione delle garanzie reintegratorie e risarcitorie invece disciplinate dalla normativa pregressa.
Da tale discrasia, e quindi dalla coesistenza di due differenti regimi normativi, pur in presenza di licenziamenti analoghi, il Giudice ha rilevato la necessità di un vaglio di conformità rispetto al diritto eurounitario delle previsioni di tutela meramente indennitaria, riservate alle tipologie di contratti stipulati (o “stabilizzati”) con le cd. tutele crescenti.
A sostegno della necessità di tale indagine di coerenza con il diritto comunitario, il Tribunale ha evidenziato plurimi profili di contrasto, tanto in ordine al principio di adeguatezza ed effettività della tutela per il lavoratore licenziato rispetto al danno della perdita del lavoro, quanto in relazione alla ragionevolezza della “concorrenza” (se non “convivenza”) di un duplice regime sanzionatorio rispetto ai precetti costituzionali e comunitari, la cui
discordanza, ove ritenuta sussistente, dovrebbe implicare una modifica della normativa attualmente applicabile.
In particolare, il Tribunale milanese, riconducendo la disciplina dei licenziamenti collettivi nell’ambito di applicazione del diritto comunitario - formalizzata tramite l’attuazione, con la Legge n. 223/91, della Direttiva 98/59/CE - e, da qui, sottolineando che l’art. 10 del D. Lgs.
n. 23/2015 (in uno all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, novellato dalla Legge n. 92/2012) rappresenta norma di realizzazione di quest’ultimo, ha evidenziato come l’intervento normativo del 2015 abbia introdotto una disciplina concorrente rispetto a quella comunitaria.
Pertanto, proseguendo nell’iter argomentativo, l’Estensore ha precisato, quanto al provvedimento legislativo riformatore, che la normativa interna (nella specie, quella di regolamentazione dei licenziamenti collettivi) deve rispondere ed essere compatibile con i precetti fondamentali dell’Unione Europea (in virtù del dettato specifico dell’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che traccia un limite esterno alla potestà normativa nazionale, limitandone l’autonomia in ragione del vincolo costituito dalla conformità delle norme interne dei licenziamenti al diritto dell’UE) ed, in particolare, soddisfare i canoni di effettività, adeguatezza e deterrenza della sanzione sanciti dalla CDFUE.
Altresì ha evidenziato la necessità del rispetto dei principi di uguaglianza e non discriminazione fissati dagli artt. 20 e 21 della stessa Carta, cui pure deve conformarsi la normativa nazionale dello Stato membro, trovando anche in questi un limite alla sua potestà prescrittiva.
Con un’analisi ad ampio spettro, allora, il Giudice ha voluto individuare, nelle previsioni comunitarie, il nucleo dei diritti fondamentali di derivazione sovranazionale e del “diritto alla tutela” dell’UE, all’uopo richiamando le Spiegazioni allegate alla Carta, elevate a “chiave di lettura” di tali diritti fondamentali e parametro di validità e coerenza con il corpo normativo europeo delle leggi degli Stati membri, nonchè a presidio di una corretta esegesi ed attuazione interna del corpo normativo europeo.
Da qui, e dal richiamo operato dalle Spiegazioni all’art. 24 della Carta Sociale europea - quest’ultimo articolo da intendersi non quale norma programmatica, bensì come disposizione precettiva - il Giudicante ha ricavato che il principio ispiratore del corpus normativo della Carta dei diritti fondamentali europei deve ravvisarsi nella necessaria garanzia, per il lavoratore, del conseguimento di un congruo indennizzo o di altra adeguata misura rispetto alla perdita del posto di lavoro e che essa garanzia deve indirizzare l’interprete chiamato ad applicare la normativa (interna) di tutela avverso i licenziamenti collettivi illegittimi.
Pertanto, secondo il Giudice, la sanzione per un licenziamento collettivo illegittimo, nell’accezione ricavabile dall’art. 24 della Carta, deve comportare il ripristino del rapporto di lavoro (così concretizzando il dettame dell’adeguata riparazione) o comunque far conseguire al lavoratore un beneficio economico adeguato al danno subito per la perdita del lavoro (quindi indennizzandolo congruamente).
A tal riguardo, non manca il Tribunale di procedere ad analisi comparata - attraverso la lente delle decisioni rese dal Comitato europeo dei diritti sociali rispetto alla conformità delle leggi di alcuni stati membri con le disposizioni contenute nella Carta Sociale europea - fra gli impianti sanzionatori adottati da altre nazioni (Finlandia e Bulgaria), per rendere atto di come il rimedio esclusivamente indennitario ed ancorato a limiti quantitativi predeterminati (minimi e massimi) sia stato ritenuto insufficiente e comunque violativo del
dettato dell’art. 24 della Carta, così pervenendo esso Tribunale alla conclusione che il diritto europeo porta ad elevare la tutela reintegratoria a regola generale (la norma), e a relegare la tutela indennitaria nella “casella” della eccezione.
Con il rilievo aggiuntivo che, stando alle conclusioni del Comitato, la tutela indennitaria dovrà essere tale da garantire un ristoro pressoché integrale del pregiudizio economico patito, per potersi ritenere “adeguata”.
I presidii comunitari - compendiati negli artt. 30 e 24 della Carta dei Diritti Fondamentali e 24 della Carta Sociale, oltre che nella Direttiva 98/59/CE - impongono allora, secondo il Giudice milanese, la coerenza del sistema sanzionatorio con i canoni della effettività, adeguatezza e deterrenza della sanzione; canoni, questi, che il Tribunale prende a riferimento per il vaglio delle attuali disposizioni di regolamentazione dei licenziamenti collettivi illegittimi.
Analoga indagine e raffronto dovrà poi operarsi, secondo il Giudice rimettente, rispetto al precetto europeo di uguaglianza e parità di trattamento (cristallizzato nell’art. 20 della CDFU) che, nel pensiero dell’Estensore, è compromesso se situazioni sostanzialmente analoghe ricevono differente tutela in ragione dell’elemento temporale; il che determina, stante la concorrente e differente regolamentazione, una tutela depotenziata a seconda della data di assunzione (o meglio: conversione del rapporto) del lavoratore.
Incentrando quindi la dissertazione sull’aspetto specifico della tipologia contrattuale esaminata (ovvero, un contratto convertito successivamente alla data di entrata in vigore del Decreto n. 23), il Giudicante ha ravvisato gli estremi della incoerenza con il precetto comunitario di non discriminazione contenuto nell’art. 21 della CDFU di un sistema che diversifichi la tutela a seconda della data di assunzione, integrando così una discriminazione indiretta, e che di fatto, differenziando le tutele in base all’assunzione (stabile o precaria) ed alla data di inizio del rapporto lavorativo, si pone in antitesi anche con il canone di parità di trattamento fra lavoratori a tempo indeterminato e lavoratori a termine previsto dalla clausola 4 della Direttiva 99/70/CE (che così cristallizza il principio di non discriminazione: “Per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive”), con la conseguenza che la natura “precaria” del rapporto e la non adeguata valutazione della anzianità di servizio pregressa alla stabilizzazione determinano una tutela attenuata pur in presenza di sostanziale omogeneità dei rapporti esaminati.
All’esito di tale articolata esegesi normativa, il Tribunale di Milano, ritenendo necessaria e pregiudiziale l’indagine sulla compatibilità del sistema sanzionatorio nazionale con le norme dell’Unione, ha pertanto delineato le questioni rilevanti ai fini del vaglio comparativo, focalizzandone i tratti principali.
Per primo, ritenendo che nel caso esaminato la tutela reintegratoria sia inibita esclusivamente dalla scelta del Legislatore di ancorare al mero dato temporale (assunzione, o trasformazione, ante o post 7/3/2015) il sopravvenire delle norme di minor garanzia, ha individuato, quale elemento di contrasto, la difformità delle disposizioni degli artt. 1 comma 1 e 10 del D.Lgs. 23/2015 rispetto ai precetti della Clausola 4 del Consiglio dell'unione europea del 28 giugno 1999 relativa all'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato e degli artt. 20 e 21 della CDFU, in ragione della circostanza che la normativa interna, per come strutturata rispetto ai contratti a termine, conduce ad una
illegittima svalutazione del periodo di lavoro antecedente alla stabilizzazione del rapporto di lavoro.
Circostanza, questa, che secondo il pensiero dell’estensore dell’Ordinanza integra irragionevole discriminazione, contraria alla Clausola 4 dell’Accordo Quadro, che invece detta la regola dell’uniformità di trattamento fra lavoratori stabili e precari.
E, per giungere a tale approdo, il Giudice si sofferma sull’ermeneusi delle “condizioni di impiego” che la norma comunitaria individua quale parametro per l’equanime trattamento del lavoro a termine con quello a tempo indeterminato, che deve essere garantito e può essere compresso solo in presenza di ragioni di oggettiva diversificazione del contratto e del rapporto stesso, per giungere ad identificare come condizione di impiego deteriore quella cui è soggetto il lavoratore a tempo determinato cui si applichi l’art. 1 comma 2 del D. Lgs. n. 23/2015, il quale, pur in presenza di uno stesso complessivo periodo lavorativo, di una sostanziale omogeneità di funzioni e di un’unica procedura di riduzione collettiva di personale, subisce - per effetto della novella legislativa - un’ingiustificata diversificazione di trattamento (concretizzata dalla irrilevanza, ai fini della tutela applicabile, del periodo di lavoro antecedente alla conversione del rapporto e dalla inaccessibilità al regime reintegratorio pieno, ove detta conversione intervenga post 7/3/2015), per il semplice fluire del tempo.
Vale poi sottolineare come, rispetto a tale profilo di criticità, il Tribunale di Milano non tralasci il richiamo all’intervento della Consulta del 2018 (sentenza n. 194/2018) - che rispetto alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 comma 1 del D.Lgs. 23/2015, ha escluso la sussistenza di estremi di disparità di trattamento a causa appunto del passare del tempo -, ma ne evidenzi la diversità della fattispecie esaminata (nella sentenza della Corte Costituzionale, un licenziamento individuale; nell’ordinanza del 5/8/2019, un licenziamento collettivo), altresì rimarcando la particolarità di quest’ultima, ove la tipologia stessa del licenziamento (collettivo appunto) ha determinato l’applicazione di trattamenti diversificati - rimedio reintegratorio piuttosto che indennitario - a situazioni sostanzialmente analoghe, giustificando pertanto il rinvio alla corte comunitaria per la verifica sulla coerenza della disposizione interna con il diritto dell’UE.
La disparità di trattamento in ragione del decorso del tempo, operata dal D. Lgs. n. 23/2015, deve infatti essere scrutinata, a parere del Giudicante, secondo il canone della ragionevolezza e della proporzionalità, che applicato al caso concreto impone la verifica sull’adeguatezza del mezzo scelto dalla norma (nel caso di specie, la riduzione delle tutele per i lavoratori) con il fine che essa norma si prefigge (l’aumento occupazionale attraverso il contenimento degli oneri a carico del datore); e tale valutazione di adeguatezza, secondo il Tribunale, porta a una conclusione - raggiunta all’esito di un articolato iter motivazionale, con rimandi a dati statistici e risultati di analisi istituzionali - di disallineamento della previsione normativa de qua.
L’ulteriore motivo di rinvio pregiudiziale è poi rappresentato dalla questione di compatibilità del regime introdotto dall’art. 10 del D. Lgs. n. 23/2015 con le norme euro unitarie, nella parte in cui introduce un sistema normativo di tutele concorrente per licenziamenti intimati all’interno della stessa procedura a lavoratori analoghi, rilevando come tale scelta legislativa imponga il vaglio interpretativo di rispondenza al principio di parità di trattamento (art. 20 CDFU) e al principio di tutela avverso i licenziamenti ingiustificati (art. 30 CDFU).
Ritiene infatti il Tribunale ambrosiano che tale riforma porti, nella sua applicazione pratica, ad un ingiustificato ampliamento della discrezionalità datoriale, a detrimento del lavoratore
con minor anzianità di servizio, per tale motivo maggiormente esposto alla scelta di estromissione dall’azienda, perché meno onerosa.
Quanto poi alla quantificazione dell’indennità risarcitoria, il Giudice nuovamente richiama la sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018, dando atto che dall’intervento del Giudice delle Leggi la variabile dell’anzianità di servizio costituisce un primo fattore da considerare ai fini del calcolo, cui si sommano gli ulteriori fattori indicati, con la conseguenza che il risultato finale per i “nuovi assunti” è pari ad una somma in ogni caso oggettivamente inferiore rispetto al trattamento reintegratorio riservato ai “vecchi assunti” e che tale effetto, nell’ambito di un’unica procedura di licenziamento collettivo, integra irragionevole disparità di trattamento, palesemente contraria, secondo il Magistrato del Lavoro adito, al diritto sovranazionale.
Va infine evidenziato come nell’ordinanza in commento sia stato scrutinato anche l’aspetto procedurale propedeutico al rinvio pregiudiziale alla Corte dell’Unione, valutato nelle sue componenti di necessità ed inevitabilità, atteso che in caso di contrasto insanabile (di cui si ravvisano gli estremi, secondo l’Estensore) del diritto interno con i fondamenti comunitari l’interprete è chiamato a sollevare questione di legittimità costituzionale, o praticare il rinvio pregiudiziale alla CGUE.
Opzione decisionale sulla doppia pregiudizialità risolta dal Tribunale lombardo con l’applicazione dell’art. 267 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, quindi con la scelta - suffragata da richiami ai recenti approdi della CGUE e della Corte Costituzionale (sent. CGUE 20/12/2017, causa C-322/16, Global Starned Ltd; sent. C. Cost. 14/12/2017, n. 269; sent. CGUE 24/10/2018, causa C-234/17) - di rimessione alla Corte comunitaria del giudizio preliminare de quo, per cui ha formulato i seguenti quesiti:
1)“Se i principi di parità di trattamento e di non discriminazione contenuti nella clausola 4 della direttiva 99/70/CE sulle condizioni di impiego ostino alle previsioni normative dell’art. 1, secondo comma e dell’art. 10 del D.lgs. 23/15 che, con riferimento ai licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta, contengono un duplice regime differenziato di tutela in forza del quale viene assicurata nella medesima procedura una tutela adeguata, effettiva e dissuasiva ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato costituiti in data antecedente al 7 marzo 2015, per i quali sono previsti i rimedi della reintegrazione ed il pagamento dei contributi a carico del datore di lavoro e introduce, viceversa, una tutela meramente indennitaria nell’ambito di un limite minimo ed un limite massimo di minore effettività ed inferiore capacità dissuasiva per i rapporti di lavoro a tempo determinato aventi una pari anzianità lavorativa, in quanto costituiti precedentemente a tale data, ma convertiti a tempo indeterminato successivamente al 7 marzo 2015”;
2) “Se le previsioni contenute negli artt. 20 e 30 della Carta dei diritti e nella direttiva 98/59/CE ostino ad una disposizione normativa come quella di cui all’art. 10 del D.lgs. 23/15 che introduce per i soli lavoratori assunti (ovvero con rapporto a termine trasformato) a tempo indeterminato a decorrere dal 7 marzo 2015, una disposizione secondo cui, in caso di licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta,
diversamente dagli altri analoghi rapporti di lavoro costituiti in precedenza e coinvolti nella medesima procedura, la reintegrazione nel posto di lavoro e che introduce, viceversa, un concorrente sistema di tutela meramente indennitario, inadeguato a ristorare le conseguenze economiche derivanti dalla perdita del posto di lavoro e deteriore rispetto all’altro modello coesistente, applicato ad altri lavoratori i cui rapporti hanno le medesime caratteristiche con la sola eccezione della data di conversione o costituzione”.
Manuela Samantha Misceo
Latitudini e longitudini- il diritto senza frontiere
A cura di Roberto Positano
Ricevo un ragazzo di origini pachistane. Mi racconta la sua storia: lavora in provincia di Bari da diversi anni per una società cinese, conosce e sposa in Italia una ragazza marocchina. La famiglia si allarga con l’arrivo di un bimbo nato in Italia. Sin qui ci sono tutti gli elementi per un principio di partita a Risiko visto il coinvolgimento dei diversi continenti.
La moglie richiede tempestivamente all’Inps la corresponsione dell’indennità di maternità di base, ritenendo di essere in possesso dei prescritti requisiti socio economici, di cui si dirà in seguito.
La domanda viene respinta poiché la donna è in possesso di un permesso di soggiorno non di lungo periodo.
Tralascio il dubbio iniziale, tutto mio, che possa avere inteso male quanto appreso dall’impiegato dell’Ufficio Comunale competente (trattasi di prestazione che necessità della positiva valutazione in prima battuta del Comune di residenza), specie alla luce del fatto che il ragazzo pachistano parla e comprende l’italiano, oltre a conoscere l’inglese e il cinese. Quanto a lingue, ne sa più di me.
Detta così nulla quaestio, la norma di riferimento ovvero l’art. 74 D.Lgs. 151/2001 pone una specifica preclusione per i cittadini extracomunitari “Per ogni figlio nato dal 1 gennaio 2001, o per ogni minore in affidamento preadottivo o in adozione senza affidamento dalla stessa data, alle donne residenti, cittadine italiane o comunitarie o in possesso di carta di soggiorno ai sensi dell'articolo 9 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 [n.d.r. anzianità di possesso di permesso di soggiorno pari o superiore a 5 anni], che non beneficiano dell'indennità di cui agli articoli 22, 66 e 70 del presente testo unico , è concesso un assegno di maternità pari a complessivi euro 1.291,14.”
Ma il caso richiede alcune opportune verifiche, poiché la formulazione della norma nei termini sopra riportati trapela dubbi di violazione di diversi principi costituzionali.
La questione va quindi rivalutata alla luce della “non manifestamente infondata questione di legittimità costituzionale dell’art. 74 D.Lgs. 151/2001 in relazione agli artt. 3, 31 e 117, primo comma, della Cost. nonché degli artt. 20, 21, 24, 31 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”; questa è la conclusione a cui giunge la Corte di Cassazione con ordinanza di remissione del 17.06.2019 n. 16167/19.
Con questa determinazione la Corte in chiave, sempre più, transnazionale e nell’impossibilità materiale di richiamare a sé la direttiva 2011/98 (segnatamente l’art. 12, primo comma, lett. E, per inapplicabilità ratione temporis del principio di non discriminazione dei lavoratori dei paesi terzi rispetto ai cittadini degli Stati aderenti all’Unione in determinati settori tra cui quello della sicurezza sociale – lett. e cit.) ravvisa condivisibili dubbi di legittimità costituzionale rispetto agli artt. della Carta Costituzionale e Carta Fond. dei Dir. Dell’Uomo richiamati.
Relativamente all’art. 3, il giudice di legittimità evidenzia la discriminazione sussistente a carico dei cittadini stranieri legalmente soggiornanti in Italia rispetto ai cittadini italiani, poiché la norma richiede a carico dei primi l’ulteriore requisito del possesso del permesso di soggiorno c.d. di lungo periodo (ultra quinquennale) con rinvio all’art. 9 del T.U. delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero D.Lgs. 286/98.
Ma, come correttamente rilevato dalla Corte, il requisito del possesso del requisito temporale di lungo periodo operato, svilisce gravemente la funzione propria dell’indennità in commento: “sostengo economico volto a soddisfare bisogni immediati e indifferibili, a fronteggiare esigenze primarie legate alla nascita di un bambino … poco influenzati dalla sussistenza o meno del radicamento nel territorio dello Stato” (pag. 7 sent. in commento).
Manca inoltre, sempre a parere della Corte, quel necessario coordinamento con altra disposizione del cit. T.U. ossia l’art. 41 “Gli stranieri titolari della carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno, nonché i minori iscritti nella loro carta di soggiorno o nel loro permesso di soggiorno, sono equiparati ai cittadini italiani ai fini della fruizione delle provvidenze e delle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale, incluse quelle previste per coloro che sono affetti da morbo di Hansen o da tubercolosi, per i sordomuti, per i ciechi civili, per gli invalidi civili e per gli indigenti”. Il limite annuale indicato scongiura il timore di erogazione dell’assegno in favore di stranieri in transito temporaneo in Italia.
Degne di nota sono anche le considerazioni poste in riferimento ad altro pronunciamento della Consulta di segno apparentemente contrario al thema decidendum. La pronuncia richiamata è la 50/2019 con la quale vengono rigettate le medesime censure mosse verso l’art. 74 D.Lgs 151/2001 al altro provvedimento l’art. 80, comma 19, della L. 388/2000 nella parte in cui viene subordinato il diritto a percepire l’assegno sociale per gli stranieri extracomunitari alla titolarità del permesso di lungo soggiorno.
In tale circostanza la Consulta evidenzia la diversa finalità della prestazione in commento (assegno sociale) “corrispettivo solidaristico per quanto doverosamente offerto al progresso materiale e spirituale della società”. (sent. cit.) Ragion per cui è doveroso richiedere all’avente diritto prova della durata del suo inserimento nella società, quantificabile in ragione della durata della residenza sul territorio italiano.
Piuttosto la Corte Costituzionale non manca di rimarcare come il Legislatore debba operare sempre più in chiava universalistica senza incorrere in distinzioni di sorta: “La Costituzione impone di perseverare l’uguaglianza nell’accesso all’assistenza sociale tra cittadini italiani e comunitari da un lato e cittadini extracomunitari dall’altro”.
Non deve trascurarsi inoltre che la maternità, così come la famiglia, sono valori di rango costituzionale (art. 31 Cost.)
Sul punto la Corte di Cassazione, nella pronuncia in commento, statuisce: “La maternità, in quanto oggetto di specifica tutela costituzionale, non può restare priva di ogni forma di tutela come avverrebbe per le ipotesi a cui si riferisce l’art. 74 in esame, da inserirsi nel quadro dei diritti fondamentali della persona”.
Il Giudice di legittimità solleva altresì censure sulla potenziale violazione degli artt. 20, 21, 24, 33 e 34 della Carta dei Dir. Fond. volti alla tutela dell’uguaglianza e del divieto di discriminazioni anche per cittadinanza, riconoscendo il diritto dei bambini alla protezione e alle cure necessario per il loro benessere.
In attesa di una presa di posizione della Consulta non può sottacersi qualche dubbio sulla tecnica di remissione operata.
La stessa Consulta con la sentenza n. 63/19 ha evidenziato “il potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e - ricorrendone i presupposti - di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta”.
Un vaglio di questo tipo è quanto mai auspicabile al fine di ridurre repentinamente i confini giuridici nazionali in favore di quelli sovranazionali, così da poter concertare in chiave universalistica la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo.
Roberto Positano
Normativa e documentazione nazionale
-D. L. 3/09/2019, n. 101, misure urgenti per la tutela del lavoro e la risoluzione di crisi aziendali.
- D.L 28/01/2019, n. 4, disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni.
- D.L. 03/09/2019, n. 101, disposizioni urgenti per la tutela del lavoro e per la risoluzione di crisi aziendali.
- Dlgs 81/15 e ss.mm., introdotto dal D.L. 29 giugno 2019 n. 59, convertito con modificazioni con Legge 8 agosto 2019, n. 81.
- D.L. 29/06/2019 n. 59, ad opera della legge 8 agosto 2019, n 81, disciplina speciale dei rapporti a termine alle dipendenze delle Fondazioni Lirico Sinfoniche.
Osservatorio della giurisprudenza
Cassazione Sez. Lav., sent. n. 14063/2019
Le tipizzazioni delle fattispecie previste dal contratto collettivo nella individuazione delle condotte costituenti giusta causa di recesso non sono vincolanti per il giudice, ma la scala valoriale formulata dalle parti sociali deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola dell’art. 2119 c.c.”.
Cass. civ. Sez. lavoro Sent.n. 20520/2019,
In tema di trasferimento del lavoratore, per unità produttiva dalla quale il prestatore non può essere trasferito, se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, va intesa quella che costituisce articolazione autonoma dell'impresa, con idoneità a produrre beni e servizi dell'azienda, sicchè, quanto ai piazzisti, la stessa va individuata in relazione all'itinerario da compiere, alla zona da visitare o all'ambito territoriale assegnato.
Cass. civ. Sez. lav. n. 21287/2019
La responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., non è limitata alla violazione di norme di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma va estesa alla cura del lavoratore attraverso l'adozione di tutte quelle misure e delle cautele che, in funzione della diffusione e della conoscibilità delle conoscenze, pur valutata in concreto, si rivelino idonee, secondo l'id quod plerumque accidit, a tutelare l'integrità psicofisica del prestatore. Consegue a quanto innanzi che la responsabilità datoriale non è configurabile solo nell'ipotesi in cui il nesso causale tra l'uso di una sostanza e la patologia professionale non fosse configurabile
allo stato delle conoscenze scientifiche dell'epoca del fatto, sicché non poteva essere prospettata l'adozione di adeguate misure precauzionali.
Cass. civ. Sez. lavoro Ord. n. 18568/2019
In tema di contribuzione per malattia, per effetto dell'entrata in vigore dell'art. 20, comma 1, del d.l. n. 112 del 2008, conv. dalla l. n. 133 del 2008, di interpretazione autentica dell'art. 6, comma 2, della l. n. 138 del 1943, non è più dovuto dai datori di lavoro il versamento della contribuzione INPS per il trattamento economico di malattia, senza che - a seguito della sentenza della Corte cost. n. 82 del 2013, che ha dichiarato l'illegittimità della norma per violazione del principio di uguaglianza, nonché, in via conseguenziale ed ai sensi dell'art. 27 della l. n. 87 del 1953, dell'art. 16, lett. b), del d.l. n. 98 del 2011, conv. dalla l. n. 111 del 2011, che ha differito al 30 aprile 2011 il termine finale del periodo di tempo al quale si riferivano i contributi i cui versamenti erano comunque acquisiti all'INPS - operi la regola dell'irripetibilità delle contribuzioni anteriormente versate che non restano, pertanto, acquisite alla gestione previdenziale.
Cass. civ. Sez. Lav.Ord. n. 22367/2019
A fronte dell'impugnazione del licenziamento, grava sul datore di lavoro, ai sensi dell'art. 5, della legge n. 604 del 1966, l'onere di allegare e provare i fatti costitutivi del legittimo esercizio del potere di recesso; fatti che indubbiamente comprendono, ad esempio, l'intervenuto superamento del periodo di comporto, nei sensi definiti dalla contrattazione collettiva di settore.
Cass. civ. Sez. lav. Sent. n. 21416/2019
In tema di permessi retribuiti ex art. 33, comma 3, della l. n. 104 del 1992, la condizione - cui è assoggettato il relativo diritto - che la persona da assistere, affetta da handicap grave, non sia ricoverata a tempo pieno, non può che intendersi riferita al ricovero presso strutture ospedaliere o simili (pubbliche o private) che assicurino assistenza sanitaria continuativa, in coerenza con la "ratio" dell'istituto, che è quella di garantire al portatore di handicap grave tutte le prestazioni sanitarie necessarie e richieste dal suo "status", così da rendere superfluo, o comunque non indispensabile, l'intervento del familiare.
Eventi:
Eventi sul Territorio
- Tavola rotonda Sindacato e Sud "Lavoro tra passato, presente e futuro: viaggio virtuale nella storia della Cgil Basilicata"
Lecce, 28 Settembre 2019 ore 10.30, presso la Biblioteca Provinciale Nicola Bernardini Sabato
- Conferenza pubblica “Lavoro, soggettivazione, azione collettiva: la fine di un'epoca?”
Lecce, 27 Settembre 2019, ore 17.00 presso le Officine Culturali Ergot
- “Discriminazione e ritorsione nel rapporto di lavoro: i trasferimenti del lavoratore”
Bari, 11 Novembre 2019, ore 12.00-14.00, Sala Consiliare Ordine Avvocati - Bari, VI piano Palazzo di Giustizia
- "Licenziamento disciplinare e nuove possibilità di reintegra alla luce della sentenza Cass. 12174/19"
Bari, 23 Gennaio 2020, ore 12:00- 14:00, Sala Consiliare Ordine Avvocati - Bari, VI piano Palazzo di Giustizia
- "La C.T.U. nel procedimento per accertamento tecnico preventivo in materia di invalidità: requisiti, incompatibilità, preclusioni, soccombenza"
Bari, 17 Febbraio 2020, ore 12:00-14:00, Sala Consiliare Ordine Avvocati - Bari, VI piano Palazzo di Giustizia
- "Disabilità e lavoro: normativa nazionale e sovranazionale. Le prassi” Bari, 12 Marzo 2020, ore 12:00-14:00, Sala Consiliare Ordine Avvocati - Bari, VI piano Palazzo di Giustizia
Eventi nazionali:
- Dialoghi di diritto del lavoro Terzo incontro Organizzazione del lavoro e sicurezza: nuovi spunti di discussione
Trento, 28 Novembre, 2019 - 16:00, sala conferenze del Palazzo di Giurisprudenza Via Verdi n. 53
- Convegno “I licenziamenti per motivi oggettivi e soggettivi.
La ridefinizione del sindacato giurisprudenziale alla luce delle
riforme legislative e dei più recenti orientamenti di legittimità” Milano, 14 Ottobre, 2019- 09:00 aula magna Emilio Alessandrini – Guido Galli,
Palazzo di Giustizia di Milano
- Convegno nazionale AGI – Lavoro 4.0- Innovazione digitale: categorie giuridiche alla prova
Bologna, 25 – 27 Ottobre 2018, Palazzo Re Enzo
- Seminario “La libertà sindacale nel mondo contemporaneo”
Roma 31, Ottobre, 2019, ore 10.30- Piazza S. Agostino, 20/A
- Seminario: “La responsabilità civile nel rapporto di lavoro- danno patrimoniale e danno non patrimoniale- applicazioni giurisprudenziali e quesiti risolutivi”
S.Maria C.V, 11 Ottobre 2019 - ore 15.00/17.0, presso Fest Scuola di Formazione Forense- Via Lussemburgo
- Convegno “Lavoro, legalità e sviluppo del mezzogiorno”
Matera, 27 Settembre, 2019, ore 09.30/17.00, presso Cava del sole
Commissione Lavoro Bari
Coordinatrice Serena Triggiani
Il Notiziario del Lavoro è diretto da Pierfrancesco Zecca
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