REGOLE E CAPRICCI
Direzione Sviluppo Organizzativo e Strumentale Settore Servizi Educativi
Servizio di Progettazione Educativa Gruppo di Progettazione Psicopedagogica
REGOLE E CAPRICCI
ZEROSEI I Quaderni Tematici del Servizio di Progettazione Educativa
Comune di Venezia
xxxxx://xxx.xxxxxx.xxxxxxx.xx/xx/xxxxxxxxxxxxxxxx
Direzione Sviluppo Organizzativo e Strumentale Settore Servizi Educativi
Servizio di Progettazione Educativa Gruppo di Progettazione Psicopedagogica
REGOLE E CAPRICCI
di Xxxxx Xxxxxxxx
pedagogista Servizio Progettazione Educativa
ZEROSEI I Quaderni Tematici della Progettazione Educativa
Premessa
Le questioni sollevate da neogenitori e genitori nel corso delle proposte di formazione e incontro del Servizio di Progettazione Educativa vengono raccolte in una collana di Quaderni tematici.
Lo scopo principale è quello di far circolare il più possibile alcune delle strategie educative in grado di facilitare la comprensione di ciò che i bambini da zero a sei anni cercano di comunicare con il loro comportamento. Infatti, nei momenti di fatica in cui il figlio potrebbe apparire agli occhi del genitore quasi come uno “sconosciuto” - oltre all’istinto, al buon senso e alla propria esperienza - possono aiutare atteggiamenti capaci di alimentare la relazione educativa genitore-figlio e promuovere ben-essere. Riflettere proprio su questi atteggiamenti per capire quali possano fare al caso nostro e a quello del nostro bambino non è semplice.
ll contesto di vita odierno, caratterizzato dalla frenesia e da una spesso complicata conciliazione lavoro- famiglia, lascia infatti ben poco spazio per sé.
Di conseguenza trovano poco “tempo buono” anche la riflessione sull’azione educativa e l’individuazione di modalità alternative per cambiare l’andamento – magari per forza di cose portato avanti ma che non soddisfa - dell’organizzazione e delle relazioni familiari.
Allora è specialmente ai genitori presi nel vortice della quotidianità ad incastri, indaffarati e acrobati, che avrebbero voglia di confrontarsi e parlare di educazione, che speriamo di fare cosa gradita e utile.
Auguro che le riflessioni fornite servano proprio a sentirsi meno soli e un po’ più sostenuti nelle competenze genitoriali.
Dott.ssa Xxxxxxx Xxxxxxx Responsabile Progettazione Educativa Comune di Venezia
Regole e Capricci
Indice
Fiumi tranquilli, torrenti in piena 17
Le 3 C: Chiarezza, Coerenza, Costanza 25
Presentazione
Il Servizio di Progettazione Educativa del Comune di Venezia in questi anni si è dato tra i suoi obiettivi quello di sostenere la genitorialità alle prese con la nascita e la crescita dei bambini.
La consapevolezza di quanto sia importante e strategico promuovere ben-essere degli adulti e, di conseguenza, dei bambini fin dai loro primi anni di vita ha dato senso all’iniziativa “Genitori in crescita”: una serie di dispositivi psico-pedagogici, diversificati strumenti per incontrare e far incontrare le famiglie parlando di educazione:
- il Tam Tam delle mamme e Genitori 06: momenti di condivisione e confronto tra genitori e con una pedagogista su questioni legate alla crescita e all’educazione dei figli;
- le Oasi dei Piccoli: opportunità di gioco e socializzazione tra genitori e figli a partire da spunti di attività creative a misura di bambini, mamme e papà negli spazi delle ludoteche comunali;
- il Topo e il Gatto con gli occhiali: possibilità di chiedere via e-mail spunti e materiali anche bibliografici con riferimento a specifiche tematiche educative 0-18 anni;
- Xxx-Xxxxxx Educativo: spazio di consulenza educativa, in presenza ma anche on line, in cui poter portare riflessioni, dubbi e fatiche della quotidianità legate al compito educativo e al ruolo genitoriale.
La volontà di mettere a disposizione quanto emerso da queste iniziative con riferimento a precise questioni educative ha portato all’idea dei “Quaderni tematici”.
In educazione non esistono “ricette” ma strade da percorrere: ciascuno si imbatte nella propria personalissima via perché ogni bambino è unico, ogni genitore è unico, ogni relazione educativa genitore-figlio è speciale.
Alcuni “spunti” però possono aiutare nei momenti di fatica a ragionare per rafforzare atteggiamenti educativi facilitanti che è opportuno mantenere e, viceversa, per dismettere modi di essere/di fare portati avanti quasi per inerzia.
I quaderni tematici avranno un “box delle idee-chiave” che “tirerà le fila” di quanto detto.
A conclusione alcuni riferimenti bibliografici per approfondire le teorie psico-pedagogiche a cui si accenna.
Questo specifico Quaderno tematico affronta il nodo critico delle regole e dei capricci ovvero ciò che segue al momento fatidico in cui il nostro piccolo, fino a pochi giorni prima tenero e dolce, si pianta di fronte a noi, con il visetto serio e corrucciato, per dirci un bel “NO!”.
Continuare ad essere lucidi non è affatto semplice quando ci si ritrova a fronteggiare un “no!” detto dal proprio piccolo a una richiesta che fino a poco tempo prima non creava nessuna difficoltà come per esempio “Dai mettiamo in ordine i giocattoli”.
Potrebbe essere davvero complicato non battere ciglio davanti a scene in cui il bambino infrange ripetutamente un divieto guardandoci con espressione beffarda e aria di sfida di chi, sotto sotto, pare pensare “Te l’ho fatta, hai visto?”. Può capitare…
Per esempio, dopo un “Non si salta dal divano perché è pericoloso”: ci giriamo e vediamo che puntualmente il piccoletto sta saltellando allegramente come un xxxxxx in barba a ciò che noi avevamo detto!
Eh sì! Quando il bambino sembra minare la nostra autorevolezza comincia anche per noi genitori ufficialmente il momento in cui iniziamo seriamente a preoccuparci o quasi.
Anche le mamme e i papà più rilassati infatti di solito vengono assaliti almeno da un dubbio: come mi devo comportare?
E poi a seguire: è arrivata l’ora di passare alle minacce?
Di metterlo in castigo?
Mentre si è in preda a pensieri di questo tipo - alla novità di una situazione che pensavamo capitasse solo agli altri e che ora dobbiamo constatare accade anche e proprio a noi - serve a poco o nulla ricordare qualche nozione di psicopedagogia o consultare internet.
Da più parti infatti (esperti come pediatri, psicologi, pedagogisti… e parenti come suocera, mamma, sorella, cognata, amiche…) è possibile ricavare rassicurazioni su come sia bene che il bambino si faccia valere e voglia perseguire i propri obiettivi: è indice che sta crescendo.
Arriviamo alla consapevolezza che va tutto bene, cioè è giusto che vada così: è normale che un bambino cominci ad acquisire una prima coscienza di sé intorno all’anno di vita dimostrando ciò anche con i “no” e poi avanti con la fase dei “terrible two” ovvero i cosiddetti “terribili due anni” (Xxxxxxxx 2009; Xxxxxxxxx 2017; Xxxxxxxxx e Xxxxxxx, 2018).
In ogni caso l’amichevole pacca sulla spalla non ci aiuta a placare certi altri interrogativi: quanto lasciar fare al bambino e quando invece intervenire?
Per provare a ragionare assieme su questi aspetti possiamo partire da una delle “tipiche” situazioni che potrebbero scalfire la sicurezza e la calma olimpica anche del più pacifico dei genitori: il piccolo che si accinge a toccare qualcosa che non deve!
Il bambino piccolo, in esplorazione dell’ambiente, potrebbe inavvertitamente essere attratto dallo schermo “magico” della televisione o da un “simpatico” vaso… Pronti nella situazione di potenziale pericolo (per esempio, il bambino potrebbe tentare di arrampicarsi sul mobile per toccare la tv) mamma e/o papà intervengono con un secco “No! Non si fa” spiegando al bambino perché è importante che giri al largo da quell’angolo di casa.
Il bambino ascolta ciò che dice il genitore e magari ripete “No, non si fa” e scuote la testa, perciò stiamo ragionevolmente tranquilli sul fatto che ci siamo fatti capire e che la cosa non succederà di nuovo.
Tempo due secondi e ricapita la medesima spiacevole circostanza con in più il bambino che ci guarda mentre prova ad arrampicarsi sul mobile per toccare ciò che
non dovrebbe: cosa è successo? Non ha capito che è pericoloso? Non ho usato le parole giuste?
Xxxxxxx tentati di pensare a un buco spazio-temporale ma non è così: nostro figlio ha inteso sicuramente quello che abbiamo detto, ha colto che non si deve fare ma ha deciso di ripeterlo, come mai?
Viene legittimamente da pensare: forse mio figlio vuole prendermi in giro, non gli importa nulla di quello che dico…
Con più probabilità invece, come dicevamo, potrebbe essere successo che il piccolo, mentre noi parlavamo dell’importanza di evitare di toccare dove non si può, sia stato catturato dall’enfasi o dalle emozioni che, consapevolmente o meno, abbiamo immesso nella comunicazione.
Xxxx nella sua testolina potrebbe essersi materializzata la seguente idea: guarda cosa sono riuscito a scatenare… e vuoi vedere che se lo rifaccio provoco di nuovo la stessa reazione che mi ha così colpito (in positivo e/o in negativo)?
In poche parole, la nostra reazione potrebbe paradossalmente rinforzare l’atteggiamento che vogliamo estinguere, invogliare il bambino a rifare con più entusiasmo ciò che non vorremmo.
Alcuni bambini infatti si stupiscono e si compiacciono della reazione esagerata che a volte il genitore mostra di fronte ai cosiddetti “capricci”.
Inoltre, sopraggiunge il bisogno di capire il nesso “causa- effetto” della situazione: premo questo “pulsante” e l’adulto reagisce di conseguenza!
Solo spirito di scienziato dunque, non capricci!?
I
Del resto, se scomodiamo Xxxxx Xxxxxxxxxx possiamo dire con lei che i “capricci” non esistono nel senso che il “capriccio” cela sempre un “bisogno” del bambino (avere attenzione, provare le proprie forze, capire come funzionano le cose, vedere fino a che punto ci si può imporre, ecc.).
Inoltre, quando si verifica un “capriccio” ci sono almeno due livelli di lettura della relazione adulto-bambino: un livello evidente e uno nascosto.
Il livello “evidente” è ciò che viene chiesto e negato, per esempio può essere che ci si trovi al supermercato e il bambino chieda qualcosa che non vogliamo comperare. Il “qualcosa” è un pretesto perché potrebbe darsi che ottenuto ciò il bambino rivolga la sua attenzione ad altro e la situazione si ripeta…
Si ripete proprio perché sotto sotto c’è il livello “nascosto” che si rifà ad un bisogno più psicologico ed emotivo del bambino: per es. desiderare l’attenzione dell’adulto, vedere fino a che punto ci si può imporre o semplicemente cercare la sua reazione…
Ma allora, considerato che il “capriccio” è mosso da una esigenza profonda, bisogna assecondare sempre il bambino?
No.
Non significa che si dovrebbe lasciar fare o far finta di niente o che sia necessario essere sempre sorridenti e coccolosi; l’adulto non deve fare lo stoico “supereroe” o “fingere che vada tutto bene” ma essere “autentico” esprimendo ciò che pensa della situazione (cioè che il comportamento non gli piace e non va bene) ma in un modo che sia educativo, rimanendo nel ruolo-guida di genitore; quindi non ci si sfoga con il figlio come potremmo fare deliberatamente con un adulto nostro pari.
Cosa vuol dire intervenire in maniera educativa?
Significa senz’altro orientare il bambino su ciò che si fa e su ciò che non si fa mostrandogli un’alternativa positiva al suo comportamento ponendo però attenzione anche alla modalità con cui trasmettiamo questo messaggio.
Partiamo quindi dal bisogno profondo (Xxxxxxxx Xxxxxxxx, 2018) del bambino che si nasconde dietro al suo comportamento.
Nel nostro caso, prima che arrivasse la reazione del genitore, il bisogno del bambino poteva essere limitato alla volontà di scoprire il mondo circostante. Ripensiamo alla scena.
Il bambino si avvicina allo schermo del televisore forse perché sta andandosene in giro per casa anche senza una precisa meta solo per il gusto di vedere cosa ci sia qui e cosa là.
Il genitore si accorge del potenziale pericolo e interviene per allontanare il bambino e metterlo al sicuro senza enfatizzare l’intervento (es. lo prende per mano e lo allontana, lo prende in braccio e lo porta via, si frappone fisicamente tra lui e la tv se è possibile).
Il piccolo ha l’adulto che si prende cura di lui in modo da tutelarlo: il suo bisogno è quello di poter avere un ambiente che gli permetta di muoversi in libertà ed autonomia senza incorrere nei pericoli.
Il genitore “fa da specchio” (Xxxxxx, 2016) al bisogno del bambino dicendo: “Ti piace andare in giro e vedere cosa c’è”.
Offre l’alternativa a ciò che non conviene parlando al bambino con tono di voce “normale”: “Vieni che ti mostro qualcosa con cui puoi giocare. Con la tv non si gioca” (gli porge un giocattolo, un oggetto oppure si spostano assieme in un altro posto della casa, ecc.).
Così facendo comunica al bambino che ha capito che gli piace vedere e toccare ciò che lo circonda, che la tv non è un giocattolo, che si può giocare con altro e gli propone ciò con cui può giocare.
Con il ripetersi della situazione può darsi che l’adulto, in buona fede, perché vede un potenziale pericolo da scongiurare e vuole che il bambino impari subito a non mettersi nei guai, intervenga mettendo sull’attenti il piccolo: sottolinea cioè l’accaduto forse dilungandosi nel ragionamento, sforzandosi di convincere, ancora pazientemente ma un po’ più seccato, che “No, non si fa!”.
Esigere che il bambino si comporti in modo tale da “riconoscere ed evitare i pericoli” risponde più ad un bisogno del genitore di “contenere” il legittimo timore che il bambino si faccia male.
Senz’altro c’è la necessità che il bambino impari che alcune cose non si toccano o non si fanno perché sono “pericolose” ma arriverà col tempo a comprendere appieno il concetto di “pericoloso”. Per ora coglie di sicuro il fatto che una cosa si possa fare o meno e soprattutto che mamma e papà accolgono alcuni comportamenti e altri no. Senz’altro ha capito che la televisione è off-limits.
Il bambino piccolo, a questo punto, può accogliere l’intervento del genitore e desistere o cambiare interesse; può notare l’agitazione dell’adulto e per questo lasciar perdere; il bambino può anche ritentare il suo “esperimento” per una serie di motivi (vuole ancora esplorare, lo ha colpito la reazione del genitore, ha preso il tutto come un gioco, vuole imporre la sua volontà, ecc.).
Quando il genitore nota con la coda dell’occhio che il bambino si è riposizionato ancora lì, proprio dove non deve, si pone in una nuova situazione: alla questione del far capire al bambino che “Non si fa” si viene a sommare l’obiettivo di far passare i concetti che “Si rispettano le regole!” e “Quando mamma e papà dicono una cosa si ascolta e si agisce di conseguenza”.
Quindi la circostanza si complica e non di rado a questo punto anche gli animi si scaldano…
Probabilmente l’adulto, spazientito, si dà un tono per ri- armarsi di santa pazienza e rispiega il tutto al bambino ma ormai il piccolo è più concentrato sul “livello di relazione” della comunicazione (Beltrame, 2019) che non sul contenuto!
Xxxx quello che il genitore mi dice passa in secondo piano rispetto a come lo dice e a cosa mi invia a livello di sensazioni ed emozioni. Quello che vedo (lo sguardo del genitore, il tono della voce, la postura, ecc.) mi colpisce di più di quello che sento: ecco, si è ufficialmente innescata la dinamica “pulsante”! Ovvero “Se faccio questo (metaforicamente: se premo questo pulsante) wow! Guarda cosa riesco a scatenare!
Come disinnescare questo meccanismo?
Non è semplice tornare indietro… perché implica la capacità di ri-sintonizzarsi sul bambino e non su ciò che sto provando io. Si fa fatica soprattutto se quello che l’adulto prova è un’esplosione di sentimenti e stati d’animo come per esempio frustrazione, delusione, sconforto, stanchezza.
L’adulto infatti può essere così preso dalla rabbia - quasi ne viene “sequestrato” (Xxxxxxx, 2011) - da non essere più in sé ma fuori di sé; può pensare ad es. che i no e le reazioni del figlio siano la manifestazione di un rifiuto nei suoi confronti e della sua autorevolezza, pur sapendo invece come sia necessario circoscrivere il comportamento alla singola situazione e alla necessità del bambino piccolo di provare ad affermare la propria identità/volontà.
Il bambino, di fronte allo sfogo di rabbia del genitore, spesso capita che si spaventi per ciò che vede e che sente fuori e dentro di sé.
Se, a questo punto, il piccolo grida probabilmente non grida contro il genitore ma per sfogare la tensione e magari perché può avere paura anche di ciò che sente internamente: un mix di emozioni a cui non sa dare un nome (rabbia, delusione, collera, tristezza, ecc. verso di sé e verso il genitore “minaccioso” che gli si contrappone).
Il contenuto del messaggio (non si fa, ti puoi fare male) e la regola (le regole si rispettano e quello che dicono mamma e papà è importante) sono completamente passati sullo sfondo.
In primo piano c’è la gara a chi la vince, a chi la spunta,
con il rischio di cadere in “trappole”.
Vediamone alcune.
- L’escalation cioè il gioco a chi grida più forte e si
arrabbia di più – in questo caso è meglio fermarsi e se necessario cambiare anche stanza “Adesso basta, sono troppo arrabbiato e anche tu sei arrabbiato. Ne riparliamo dopo quando ci siamo calmati”;
- le minacce/i xxxxxxx xxxxxxxxx (es. Se fai così non ti voglio più bene; Se fai così non ti porto più dai nonni/al parco). Provare invece a dire “Quando fai così non mi piace. Vorrei che tu facessi… (indicando l’alternativa)”;
- le etichette e le parolacce (violenza verbale diretta al bambino o parlando di lui con qualcun’altro e in sua presenza) per es. (con tono seccato, beffardo, sconfortato, urlando ecc.): “Ecco, sei sempre la solita peste, ti avevo detto di no e invece tu sei ancora qui, non ascolti niente, vuoi fare come ti pare”.
Non dunque “Sei disobbediente”, “Sei cattivo”, “Sei rompiscatole” piuttosto “Ti stai comportando male”, “Non va affatto bene lanciare le cose”, “Ti stai sbagliando”;
- le punizioni/le botte ovvero un conto è trattenere fisicamente il
bambino, oppure tenerlo per un braccio perché non si sporga e faccia male, tenerlo fermo perché non lanci pugni e calci, ecc. un conto è sfogare la propria rabbia con sculaccioni per poi pretendere magari che il bambino non si sfoghi con gli altri tirando manate…
Se capita di alzare le mani è necessario capire quali siano i comportamenti del figlio che ci fanno particolarmente perdere le staffe in modo da prenderne consapevolezza e cercare un modo per calmare prima di tutto se stessi. Trascendere e ricorrere alla violenza fisica e verbale fa male al genitore per primo no?
Perché si ha la netta sensazione di essere arrivati alla frutta perdendo il controllo della situazione… anche il bambino piccolo ha la netta percezione di aver fatto una cosa di una gravità assoluta – si sente impaurito e in colpa.
Per questo è necessario poi riprendere il filo del discorso quando si è calmi, parlare con il bambino rassicurandolo che può sempre rimediare a ciò che “combina”.
Anche l’adulto deve cercare di applicare quell’auto- controllo che esige dal bambino, a cui si arriva con un percorso e con allenamento che, come abbiamo capito, dura tutta la vita! Capire come evitare di arrivare al punto di “esplodere” con il bambino, trovando altre vie per imparare anche noi a “gestire la rabbia” incanalandola in maniera positiva e dando un buon esempio.
Ma allora come uscirne?
Solo se l’adulto “ritorna in sé” e riprende la bussola riassume un ruolo educativo. Questo “cambio di rotta” avviene considerando il comportamento del bambino una vera e propria “richiesta” nei confronti del genitore.
Richiesta?!
Sì, una richiesta di aiuto.
Vale a dire che il bambino con il suo comportamento chiede aiuto, chiede di stargli vicino e fargli da guida.
Come rispondere a tale richiesta?
Innanzitutto, come detto, si parte col fare “da specchio”
al bisogno del bambino esplicitandolo:
“Ho capito che hai voglia di giocare. Vedo che vorresti toccare la tv ma questa non è un gioco. Xxxx potrebbe farti male, non voglio che giochi così. Vieni che troviamo un bel gioco da fare”.
Si propone l’alternativa, ci si sposta in altra parte della
casa, si fa qualcos’altro di bello assieme, ecc.
Se il bambino non sente ragioni allora cerchiamo di rafforzare il messaggio con il tono della voce: il tono di voce alto però serve per ricordare-sottolineare la regola e non per sfogare eventuali stati d’animo negativi!
Non quindi un tono esagerato, furioso, esagitato...
Nemmeno “implorante” che accompagna parole del tipo “Su dai no… per piacere no...” ma neppure “minaccioso” “Se fai così allora…, fallo un’altra volta e vedrai”.
Ma allora che tono?!
Alzo la voce per richiamare l’attenzione, per far capire che non fa lo stesso se la regola viene rispettata o meno, che quello che sto dicendo è importante.
Tono fermo e deciso “No! Xxxxxxx detto che si gioca da un’altra parte” oppure “Non si mettono lì le mani. Le mani servono per fare altro...”.
Sì, ma i vissuti “negativi” dell’adulto dove vanno a finire?
Fiumi tranquilli, torrenti in piena
Gli stati d’animo “negativi” che rimangono è bene
vengano metabolizzati dall’adulto.
Tale operazione non è da fare con il bambino presente ma in separata sede trovando una valvola di sfogo che ci consenta di ritrovare la serenità liberandoci dalle tensioni e dai cattivi pensieri: sport, interessi, momenti di riposo, ecc.
Al bambino si fa presente che determinati comportamenti ci fanno venire il nervoso e non ci piacciono, si prospettano le alternative positive, si dice che non è possibile fare sempre quello che si vuole, si mostra come anche noi riusciamo a gestire “positivamente” le emozioni “negative” (conta fino a tre, siediti qui un attimo, ecc.).
A questo proposito, è importante che il “litigio” a seguito del “capriccio” esaurisca la sua parabola: discussione – scontro - riappacificazione. Il bambino infatti deve poter far pace con l’adulto avendo avuto l’opportunità di rimediare: il messaggio da passare è quello che dopo ogni litigio si fa pace.
Se si fa pace non si rinfacciano poi i comportamenti o si torna sulle stesse situazioni: si guarda al futuro, alla prossima volta.
Se lo stato d’animo è particolarmente difficile da risollevare serve parlarne con qualcuno di cui abbiamo fiducia e/o pensiamo possa aiutarci a leggere con altri occhi la situazione.
A queste persone (l’altro genitore, amici, parenti, esperti, ecc.) possiamo dire – anche senza filtro - come ci siamo sentiti, cosa abbiamo provato, come abbiamo inteso le reazioni del bambino.
Se rimanessimo “pieni” del nostro bisogno di sfogare le ansie, i timori, i dubbi, la frustrazione, la delusione, la rabbia…, come potremmo “fare spazio” a quelli del bambino? E sostenere anche i “momenti di piena” dei figli?
Con Xxxx Xxxxxxx infatti possiamo utilizzare la metafora del “bambino- fiume” per dire che i figli possono essere paragonati a dei corsi d’acqua (Marcoli, 2018): alcuni scorrono per
tutta la loro vita tranquilli e senza esondare (aderiscono e continuano ad assecondare senza reazioni eclatanti le richieste dei genitori), altri a volte devono affrontare percorsi tortuosi (battute d’arresto o crisi nel corso della crescita).
Il fiume scorre nel suo letto, effettua il suo percorso, rimane bene o male entro gli argini, tranne nei casi in cui le piogge o le circostanze lo inducono a straripare, a diventare “incontenibile”.
Chi di volta in volta aiuta il fiume, che ha rotto gli argini, a recuperarli e a tornare a scorrere?
Spetta all’adulto il compito di infondere
sicurezza, contenere le “piene” ponendo
degli “argini” al fiume, talora dei paletti talvolta “una diga”!
Una tappa fondamentale per la crescita del bambino è arrivare a rendersi conto gradatamente che la sua libertà finisce dove inizia quella dell’altro, che non può fare tutto quello che vuole, che se intende giocare non può buttarsi giù dalla finestra, che se è arrabbiato/in ansia non può dimostrarlo rompendo tutto, mordendo, tirando calci, sputando, lanciando oggetti, dicendo parolacce, ecc.
I limiti-argini rappresentano delle salutari frustrazioni per il bambino che servono soprattutto nei momenti “di piena”: i cancelli lo proteggono e lo fanno sentire al sicuro (Xxxxxxxx, 2002).
Il genitore che dice sempre sì, pensando di risparmiare al figlio una sofferenza, in realtà lo espone al pericolo di “piena”, privandolo dell'opportunità di sviluppare gli strumenti per far fronte alle avversità.
Un bambino senza limiti al suo senso di onnipotenza e che ha la sensazione di “dominare” anche l’adulto perché non trova “confini” si trova in una posizione molto inquietante: se all'età di due, tre, sei anni vi sentiste più potenti di chi si prende cura di voi, come potreste pensare all’altro come a qualcuno in grado di proteggervi in caso di necessità?
Se il genitore lascia decidere al bambino il da farsi e lo espone a prendersi delle responsabilità che competono invece all’adulto, può il piccolo sentirsi al sicuro perché qualcuno sa dove “la nave” deve andare e come va governata?
È prerogativa dell’adulto scegliere, prendere decisioni, organizzare la giornata, stabilire i tempi e gli orari e doversi, di conseguenza, assumere poi la responsabilità di colui che manovra il “timone”.
Evitiamo di chiedere al bambino “Ora cosa facciamo? Cosa vuoi fare?”, “Mettiamo le scarpe per uscire?” “Cosa vuoi mangiare?” ecc. ecc.
A volte i “capricci” sorgono in situazioni in cui il bambino non vuole, a ragione, o non sa scegliere, decidere, come comportarsi: “Avevi detto che volevi la maglietta gialla e ora non vuoi indossarla?” “Insomma prima mi dici che vuoi il latte e adesso vuoi mangiare la pasta!?”.
Altre volte il bambino piccolo si esprime con “capricci” quando è posto di fronte a troppi stimoli (tante attività da fare, tanti giocattoli sparsi in giro, tante persone che lo guardano e gli rivolgono domande, contesti nuovi e rumorosi).
Altre volte ancora il bisogno che sta dietro al capriccio è un bisogno primario: necessità di riposare, di dormire, di mangiare, di coccole, ecc.
Anche il “fattore tempo” incide sull’insorgere del litigio e sul grado di conflittualità: tempo a disposizione, fretta, tempo percepito, età del bambino, fase del ciclo di vita famigliare (nascita di un fratellino, situazione lavorativa dei genitori, ecc.) e… momento della giornata: es. alla sera noi adulti siamo stanchi, figuriamoci un bambino piccolo!
Sì, ok, pare che certi bambini non abbiamo mai batterie scariche ma quei bambini che non vorrebbero mai chiudere occhio di solito non paiono tranquilli e rilassati ai genitori ma agitati, mai fermi, appunto “capricciosi”: non ammetteranno mai “Ho sonno” ma non serve che lo facciano a parole perché capiamo che hanno bisogno di riposare!
Può essere pure che un “capriccio” nasca come sfogo di tensioni accumulate (per es. al nido, a scuola, con gli amici, a nuoto, ecc.) o per eventi straordinari (nascita di un fratellino, trasloco, ansia da separazione, cambio di scuola, ecc.).
Se diciamo “Il mio bambino non mi fa andare a letto prima di mezzanotte” confidiamo di aver ceduto le redini di quel momento della giornata al figlio che decide se dormire e, di conseguenza, far andare a letto il genitore...
Non spetta al bambino decidere quando è l’ora di andare a letto e il genitore non può pretendere che il piccolo prenda questa decisione.
Potrebbe coinvolgerlo con l’aiuto di un “rituale” di passaggio da un’attività (il gioco) all’altra (il riposo) ma è comunque sua la scelta di organizzare in un certo modo quel preciso momento.
Forse per “sopravvivere” in certe giornate (alla sera si arriva stremati e non si ha voglia di ingaggiare una lagnosa battaglia sul fatto che è ora di andare a dormire) si preferisce venire tutti tramortiti dai cartoni animati finché il piccolo non prende sonno sul divano…
Anche a noi piace stare alzati e condividere del tempo con il nostro bambino visto che tutto il giorno siamo fuori casa e ci pare di dovergli dedicare più vicinanza e attenzione…
Potrebbe essere che sotto sotto ci rendiamo conto che vorremmo fosse lui a dirci “portami a letto” e speriamo questo succeda prima o poi…
Potrebbe darsi che tardiamo a portarlo in camera da letto perché abbiamo il pensiero che finisca come al solito con noi che stiamo un tot di tempo sdraiati vicino a lui fino a che ci si sveglia assieme il xxxxxxx dopo…
Le nostre serate potrebbero vedere anche tutte le opzioni precedenti finché una sera non tolleriamo più di sentirci “prigionieri” di questo “meccanismo” e, perdendo la pazienza, addossiamo la responsabilità al bambino del fatto che “non ci sono regole”.
In effetti le regole, poche e condivise in famiglia, valgono dove coesistono le 3 C: chiarezza, coerenza e costanza. La regola è tale se risulta chiara e comprensibile al bambino, se non cambia veste, se vige e viene rispettata ogni giorno.
In caso contrario non è più regola ma “pretesa”.
Le 3 C: Chiarezza, Coerenza, Costanza
La regola come tale esige quindi
3 C: “chiarezza”, “coerenza” e “costanza”.
Facciamo alcuni esempi. Potrebbe darsi che in una
famiglia vi sia la regola del “si
mangia senza tv o tablet”.
Ora, il primo giorno in cui spieghiamo tal regola a nostro figlio teniamo il punto e la facciamo rispettare.
Potrebbe darsi però che uno dei giorni successivi, purché il bambino mangi, gli facciamo vedere i cartoni sul tablet (oppure per altri motivi: es. per comodità, perché vogliamo mangiare per conto nostro, piace anche a noi mangiare con la tv accesa, facciamo fatica a tollerare il visetto che dice: “Sei cattiva/o, non mangio, non mi vuoi bene se non mi accendi i cartoni!” “Mammina cara/papino caro ti prego solo un piccolo cartone”).
Siamo consapevoli che, a questo punto, non potremo lamentarci del fatto che nostro figlio anche in seguito vorrà mangiare con i cartoni: ha capito che se si impunta ottiene perché la regola non è poi sempre così regola!
“Eh sì però non si mangia con i cartoni animati accesi...” e “Dovevi mangiare senza i cartoni, ma quanti cartoni guardi in una giornata!?”.
Xxxxxx evitare frasi di questo tipo perché non è responsabilità del bambino se la tv o il tablet sono accesi…
Inoltre, il bambino coglie quando e con chi può insistere per ottenere ciò che vuole: si può comportare in maniera differente infatti nella medesima situazione a seconda che sia con mamma, papà, nonni, fratelli, insegnanti, ecc.
Non è semplice per un genitore sopportare la reazione del figlio alle frustrazioni, d’istinto vorremmo far finire la situazione al più presto per difenderci dalla circostanza che ci crea disagio: la “corda” dell’adulto che il bambino “pizzica” con i suoi “capricci” è quella sotto sotto del timore di non essere “un bravo genitore che si prende cura”.
Invece è proprio il contrario.
Proprio ponendo dei limiti e facendoli rispettare dimostro di “volermi prendere cura”: “Ti piace mangiare con i cartoni davanti. Mangiare con i cartoni davanti non fa bene. Vediamo il cartone che ti piace dopo cena. Ora mangiamo e ti racconto come è andata la giornata...”.
Proviamo a considerare un altro esempio: sull’altalena,
al parco giochi.
Il bambino sta spensieratamente andando su e giù sull’altalena e arriva l’ora di andare a casa; abbiamo infatti guardato l’orologio ed è tardi, dobbiamo anche fare la spesa, andare a prendere l’altro figlio, cucinare la cena, fare il bagnetto, ecc. Noi abbiamo in mente tutte queste incombenze, il bambino no: è preso dal gioco e le nostre priorità non sono le sue priorità.
Perciò quando diciamo: “Xxx che è ora di scendere” è molto probabile che non avverta così importante il fatto di farlo subito perché semplicemente si sta divertendo.
Come faccio a farlo scendere?
Possiamo usare la tecnica del conto fino a tre… ma arrivati al dieci ci fermiamo… possiamo usare la minaccia “Scendi subito sennò non ti porto più la prossima volta” ben sapendo però che andare al parco fa bene al bambino e anche a noi per svagarci un po’…
… puntare sul “ricatto affettivo” “Ciao ciao io vado” allontanandoci e facendo finta che non importi che venga o meno… remando contro però all’idea di un genitore presente, che si prende cura, su cui si può contare perché si rende responsabile (non spetta infatti al bambino decidere quando è ora di venire via…).
Vista la poca voglia del bambino di andarsene possiamo rimanere un altro po’ “Vabbè dai ancora cinque minuti”. Intanto il tempo passa sperando che poi si decida a scendere da solo…
Infine, urliamo e lo tiriamo giù di peso… ce ne andiamo via dal parco probabilmente strepitando entrambi…
Quale alternativa?
Alcuni atteggiamenti forse possono aiutare:
- preparare prima e avvisare: “Guarda che andremo al parco e quando mamma/papà dirà stop allora sarà il momento di scendere” (quando suonerà la suoneria del cellulare oppure concordiamo una parola d’ordine come se fossimo degli indiani, degli agenti segreti, ecc.);
- esprimersi con un messaggio-io: non tanto “Dovresti scendere subito” ma “Io mi aspetto di vederti scendere quando senti il segnale che dice che è ora” oppure “Mi piace vedere che scendi quando ti chiamo come siamo d’accordo”;
- utilizzare il linguaggio non verbale: cerco di non urlare da lontano ma di avvicinarmi (il messaggio è: sono qui con te), uso un tono di voce convinto, fermo e deciso non arrabbiato, deluso, supplichevole;
- esplicitare il bisogno – dire no – dare l’alternativa positiva: facciamo capire a nostro figlio che ci pare di aver compreso il suo bisogno profondo: “Xxxxx che vorresti ancora andare sull’altalena (oppure: che ti piace/che ti stai divertendo). Ora non è più possibile (oppure: non è più il momento di giocare/si deve andare/è suonata la sveglia/ti ho dato il segnale). Possiamo andare sull’altalena dopo cena (oppure dopo la scuola, ecc.).
Il bambino, nonostante questi atteggiamenti, non intende scendere: può capitare.
In questo caso si può pensare che l’altalena sia un pretesto, che nasconda un bisogno più profondo del bambino di “attirare su di sé” lo sguardo del genitore.
Forse il bambino ha preso come gioco il fatto di non scendere proprio perché così può “stare un po’ di più a giocare con l’adulto” (vedi dinamica pulsante).
Da pensare se sia il caso di dedicare una dose maggiore di tempo, di attenzione e di coccole ritagliandosi degli spazi con lui in altri momenti per condividere, giocare, ridere in modo da fargli capire che “Ci siamo per lui e stiamo bene assieme”.
Con riguardo alla situazione facciamo presente che abbiamo colto: “Stop! (frenare l’altalena e sguardo convinto, voce anche alta). La cosa ti fa divertire ma io non mi diverto: si scende e si va via come avevamo detto” (lo si aiuta a scendere senza drammi e senza urlare, stando in silenzio).
Generalmente di fronte alle crisi di collera del bambino pare più produttivo infatti non parlare o dare spiegazioni, solo contenerlo fisicamente.
Si possono suggerire strategie per calmarsi (come ad esempio: conta fino a tre, fai un bel respiro, siediti un momento) ed è opportuno ritornare sulla situazione quando il bambino si è calmato, se possibile.
Una volta in macchina, a casa, ecc., quando genitore e figlio sono entrambi più tranquilli, è utile tornare sull’argomento “Proprio non mi è piaciuto quello che ho visto e cioè che ti chiamo per scendere e non scendi come abbiamo detto. Ricordati la prossima volta. Quando si dice “stop” si scende (anche con tono alzato ma senza eccessi, per sottolineare e ricordare la regola)”.
Poi è bene non fissarsi su ciò che è stato ma parlare di
altro…
Molto meglio “rinforzare positivamente” il bambino: “Ti ricordi quando siamo andati dalla nonna, ho detto che era ora di andare e siamo andati via?”.
“Vediamo se la prossima volta riesci a fare come quando
ti chiamo per andare in edicola e arrivi subito”.
Se il bambino viene per abbracciarci, ci chiede scusa, piange, ecc. non infieriamo.
Accogliamo il suo modo di farsi perdonare ricordandoci che non è il bambino l’interlocutore a cui e verso cui sfogare le tensioni accumulate…
Possiamo abbracciarlo dicendo “Anche io ti voglio bene. Ti voglio bene anche quando sono arrabbiata/o”, “Vorrei la prossima volta che tu mi ascoltassi quando parlo”.
L’amore incondizionato infatti del genitore è un punto su cui il bambino deve poter essere rassicurato cioè anche quando capita di sbagliare, di comportarci male, non viene meno l’amore del genitore.
L’adulto non tollera un mio preciso comportamento in
una data situazione, non me!
Un conto infatti è sentirsi dire: “Hai fatto una cosa veramente brutta!” un altro conto è sentirsi dire “Sei brutto quando fai così”.
Diamo il buon esempio: si può perdonare se l’altro dimostra di essersi pentito, si può trovare il modo per rimediare, ci si riconcilia, si chiede scusa.
Chiedere scusa non è una punizione ma un modo per riparare ad un torto, al guaio es. “adesso prendi la scopa e sistema”, “prendi la gomma e cancella il segno”, “puoi farti perdonare chiedendo scusa a tua sorella”, “prova a pensare il modo di sistemare”, ecc.
Di per sè quindi i momenti di conflitto non sono negativi ma possono potenzialmente costituire delle vere e proprie opportunità di crescita sia del rapporto genitore- figlio (ci si conosce meglio) sia delle competenze emotive e sociali.
Ciò accade quando “si litiga bene”! (Novara, 2013)
Quando si “litiga bene”?
Se la lite non è esasperata
e/o non sfocia in freddi silenzi, si torna ad essere
“sereni”:
- vengono esplicitati i bisogni del bambino;
- vengono esplicitati i bisogni dell’adulto;
- si cerca, per quanto è possibile, di trovare una soluzione che risponda, subito o in un secondo momento, ai bisogni di bambino e adulto.
Facciamo un esempio tornando alla situazione del parco.
Quale bisogno ha il bambino?
Il bisogno del bambino forse è quello di andare
sull’altalena.
Quale bisogno ha l’adulto?
Il bisogno del genitore forse è quello di fare tutto quello che ha in programma.
Cerchiamo, per quanto è possibile, di renderli evidenti:
“Ho capito che avresti voluto stare di più sull’altalena, io ho bisogno di andare via ora. Facciamo così: visto che ti piace tanto veniamo un po’ prima domani così ti dondoli di più”.
Non tutti i bisogni possono essere soddisfatti subito, anche il bambino a poco a poco capisce che non sempre si può avere tutto subito, esistono i miei bisogni e anche quelli degli altri. Aiutiamo nostro figlio, che sta crescendo, a capire che gli altri hanno dei bisogni; proviamo a “chiamare per nome” ciò che sente. Potrebbe infatti sentire dentro di sè una grande confusione e temere di non riuscire a gestirla in modo opportuno.
Per sostenerlo diamo noi per primi un nome ai nostri vissuti (aspettative, emozioni, stati d’animo, ecc.) e indichiamo anche le modalità che abbiamo trovato per imparare a gestirli, per “xxxxxxxxxxxx” (Xxxxx, 2015).
“Quando ho visto che non sei sceso come avevamo detto mi sono sentito arrabbiato. Ora che ne abbiamo parlato però mi è passata la rabbia”.
“Quando ti ho visto andare in giro per la strada mi sono molto preoccupato. La prossima volta ci teniamo per mano”.
“Quando vedo che la tua sedia è piena di vestiti mi viene il nervoso perché vorrei che riuscissi a tenere in ordine la tua camera. Vediamo se riesci a mettere le magliette da lavare nel cesto della biancheria”.
“Mi spiace vedere che alle sette di sera siamo ancora qui sui libri perché vorrei avessi del tempo per giocare e io per cucinare. Vediamo se domani riusciamo a stare più concentrati e a finire prima”.
Xxxxxxxx potrebbe obiettare che a volte pare che il figlio non sia interessato a ciò che viene
detto, non ascolti, si metta a piangere, a ridere, a gironzolare per casa, in un angolo, ecc. e non senta ragioni.
Potrebbe darsi ma non perché la sua sia indifferenza ma
per una sorta di “strategia di difesa”.
Ognuno di noi funziona a proprio modo e così anche i bambini (Xxxxx, Xxxxxx, 2008): ci sono quelli che piangono, che diventano tutti rossi, che si nascondono dietro tende e divani, che strillano, che picchiano, che lanciano oggetti, che si buttano per terra…
Molto spesso i bambini reagiscono “sempre allo stesso modo” ovvero con la propria modalità cioè quella che viene più spontanea: conoscono infatti quella e la ripropongono in modo “automatico” non hanno quell’auto-controllo che invece l’adulto vorrebbe che dimostrassero.
ZEROSEI I Quaderni Tematici del Servizio di Progettazione Educativa
Xxxxxxx mamma e qualche papà riportano che il figlio non alza gli occhi e non guarda in viso il genitore quando gli vengono chieste spiegazioni: potrebbe essere un modo per “difendersi” perché non per tutti i bambini è facile sostenere lo sguardo del genitore soprattutto nei momenti di disapprovazione in cui mi percepisco in difficoltà, sotto accusa.
Potrebbe essere che il bambino non ascolti o si distragga a causa dei no motivati che degenerano in “verbosi” cioè infarciti di spiegazioni molto lunghe in relazione alla capacità di concentrazione del bambino.
Riflettere sulle volte in cui abbiamo visto il bambino particolarmente coinvolto e attento a ciò che dicevamo può senz’altro aiutare a farci comprendere quali potrebbero essere le “chiavi” per metterci in relazione autentica con lui, le cifre della sua password emotiva.
Ciascuno di noi ha infatti degli atteggiamenti che lo indispongono e altri che lo rendono più accogliente nei confronti dell’altro: qualcuno apprezza il contatto fisico altri si divincolano, certi prediligono le parole altri detestano che gli si parli quando sono arrabbiati perché devono aver modo per “sbollire”.
Osservando le reazioni di nostro figlio – ma anche le nostre – possiamo cercare di trovare il modo perché il conflitto sia il più costruttivo possibile: avere
delle accortezze non significa evitare di dire i “no” ma imparare a “litigare bene”.
Riflettere sull'intervento educativo ovvero su cosa sia accaduto inoltre permette di prendere maggiore consapevolezza delle cosiddette “teorie educative implicite” cioè “automatismi” che a volte inconsapevolmente ci governano.
In special modo nelle situazioni di conflitto, che vengono percepite solitamente dall’adulto come “emergenza”, può capitare che, presi dai nostri vissuti, perdiamo la proverbiale calma e ricorriamo alla prima modalità di intervento che ci viene spontanea.
Vi è mai capitato di ritrovarvi a pensare o dire: mai avrei voluto reagire in quel modo come certi adulti facevano con me quando ero bambino?
A volte ci compiacciamo nel constatare che siamo riusciti a far passare un messaggio per noi importante che già i nostri genitori o nonni o insegnanti ci avevano tramesso.
Xxxx, in caso vi fosse successo, sappiate che siete stati vostro malgrado “vittima” di teorie pedagogiche implicite (Pourtois e Xxxxxx, 2005) ovvero di quella “pedagogia” che ognuno di noi si porta dietro perché rappresenta il bagaglio di esperienze educative vissute – positive e negative.
Anche l’adulto quindi procede più facilmente per “automatismi”!
Aiutare il bambino nel suo percorso di auto-regolazione emotiva significa parallelamente lavorare su se stessi come adulti per poter arrivare a dare il prezioso “buon esempio” imparando a “darsi una regolata”.
Di fronte ai “capricci” dei bambini, lo
si ribadisce, non è semplice rimanere lucidi e assumere il ruolo di guida; è ancora più complicato per un genitore che si ritrovasse con le “pile scariche”.
In che senso?
Nel senso che un adulto “scarico” rischia maggiormente di ritrovarsi in un “sequestro emotivo”, “in tilt”, “intrappolato nei suoi automatismi”.
Come fare?
Bisognerebbe riuscire a trovare del tempo per “prendersi cura” di sé.
Cosa?!
Mamme e papà (Xxxxxxxxx, Xxxxxxx, 2014) alle prese con un bambino piccolo o più di un figlio a questo punto avranno senz’altro buttato questo opuscolo dalla finestra pensando: ma quali spazi per me? Come faccio se sono assorbita/o da lavoro, casa, figli, ecc.?
In effetti è davvero impegnativo trovare del tempo da dedicare a sé, alla coppia… (Rosci, 2010) ma in realtà è necessario.
Soprattutto in una fase della vita familiare nella quale si è così tanto presi dalla cura e dall’educazione dei figli e, contemporaneamente, da una ristrutturazione dell’identità personale (Stern, 2017).
Questo “tempo buono” (Milani, 2018) è il “caricabatterie” che dona nuove energie per affrontare con maggiore serenità anche i momenti “no”.
A volte basta poco per ricaricare le pile scariche: una doccia in tranquillità (e per una mamma che ha un bimbo piccolo si sa quanto sia difficile anche stare cinque minuti in bagno da sola!), fare la spesa… dormire!
Quando si è 24 ore su 24 con il proprio bambino senza avere riposo o poter contare sull’aiuto di qualcuno che se ne prenda cura assieme a noi – fosse anche il più adorabile dei bambini – in alcuni momenti diviene davvero un’impresa sostenere la fatica fisica, psicologica, emotiva.
L’educazione non sopporta la solitudine (Milani, 2008) e invece molto spesso si è soli: nonni lontani, amiche indaffarate, babysitter costose, scuole chiuse, partner al lavoro o non più presente...
Xxx Xxxxxx affermava (1989):
“(…) nonostante pareri contrari, occuparsi di neonati e di bambini non è un lavoro per una persona singola. Se il lavoro deve essere fatto bene e se si vuole che la persona che primariamente si occupa del bambino non sia troppo esausta, chi riceve le cure deve a sua volta ricevere molta assistenza.
Varie persone potranno offrire questo aiuto: in genere è l’altro genitore; in molte società, compresa la nostra, l’aiuto proviene da una nonna. […] Nella maggior parte delle società di tutto il mondo questi fatti sono dati per scontati e la società si è organizzata di conseguenza. Paradossalmente ci sono volute le società più ricche del mondo per ignorare questi fatti fondamentali.
Le forze dell’uomo e della donna impegnati nella produzione dei beni materiali contano come attivo in tutti i nostri indici economici.
Le forze dell’uomo e della donna dedicati alla produzione, nella propria casa, di bambini sani, felici e fiduciosi in se stessi, non contano affatto. Abbiamo creato un mondo a rovescio”.
È importante a questo punto che anche il tempo trascorso con il nostro bambino divenga occasione per caricare le batterie: proponiamo attività che coinvolgano, appassionino e divertano entrambi.
Chiediamoci: quando sono contento di stare con mio figlio? Quando mi sento bene con lui? Quando ci capita di ridere assieme? Quali esperienze ci fanno vivere in un clima rilassato, piacevole, di ricarica?
Forse stiamo cercando il modo per condividere delle cose belle con lui, per conoscere i suoi lati positivi, per apprezzarne i pregi.
Potremmo magari modificare quello che si può: non ci piace quando giochiamo con le macchinette tutto il tempo perché ci annoiamo a morte?
Cambiamo!?
Proponiamo una valida alternativa che coinvolga noi per primi
(passeggiata, libro, nascondino, ecc.).
Vorremmo tornare a fare qualcosina di ciò che ci piace? Tipo: vedere gli amici, stare con il partner, usare il cellulare, leggere un libro, ascoltare musica ecc. Potremmo magari iniziare alzandoci un po’ prima al mattino per dedicarci del tempo… bastano anche pochi minuti!
Dedicare questa cura a se stessi (Mortari, 2019) infatti vorrà dire tornare con più carica e senza sentirsi mortificati quando ci metteremo in relazione con l’altro.
Proviamo a cambiare le situazioni che non vanno più bene. Quando ripensiamo a momenti che ci infastidiscono e affaticano chiediamoci: vanno sempre a finire più o meno allo stesso modo?
Se così fosse con probabilità ormai le situazioni potrebbero aver assunto le caratteristiche di “schemi o copioni” (Xxxxx, 2013), cioè meccanismi che scattano indipendentemente dalla nostra volontà: notiamo sempre lo stesso modo di rivolgerci al figlio? Tendiamo ad assumere con gli altri sempre lo stesso “ruolo”?
Sembra di seguire una specie di “canovaccio teatrale” per cui il figlio risulta sempre “rompiscatole”, io “brontolona”, il papà “buono”, la sorella “criticona” o “complice” ecc.
In poche parole, le persone non si sentono più libere di esprimersi e si danno o ricevono una “etichetta”.
Come fare per “rompere gli schemi”?
Difficile ma non impossibile se l’adulto, da solo o con un aiuto, riconosce la dinamica, la circoscrive, si dà degli obiettivi e un metodo per cercare di scardinarla, arriva alla consapevolezza di poter fare diversamente.
A questo proposito, alcune tecniche della “comunicazione efficace” possono aiutare a trovare altre modalità d’intervento.
Infatti, i “copioni” potrebbero generarsi da dinamiche comunicative che è possibile tentare di modificare facendo attenzione ad alcuni aspetti, mettendo in atto strategie che saranno esemplificate anche negli altri Quaderni tematici
… buona continuazione!
BOX DELLE IDEE-CHIAVE Regole e Capricci
NO E CAPRICCI
I bambini iniziano a pronunciare i “no” per affermare la loro volontà e l’indipendenza dagli adulti (o anche solo per vedere l’effetto che fa (vedi effetto pulsante).
Le “obiezioni” rappresentano, quindi, un richiamo all’autonomia e il
desiderio di sperimentare la propria libertà.
I “no”, le opposizioni e le apparenti sfide racchiudono anche le paure e le insicurezze del piccolo “Sto crescendo, voglio fare da solo” ma anche “Ho ancora bisogno della tua guida e della tua vicinanza”.
Diciamo di no al “capriccio”, poniamo dei “limiti” al “faccio quello che voglio sempre e comunque” del bambino ma prima è necessario “sintonizzarsi” sul suo “bisogno profondo”.
LE REGOLE E LA GUIDA EDUCATIVA
Il bambino si allenerà per imparare a gestire la frustrazione e a
controllare la rabbia grazie all’esperienza degli “argini” - limiti.
I momenti di contrapposizione con l’adulto forniscono l’opportunità per crescere a patto che il genitore si ponga come “guida educativa”, contenendo il bambino con costanza, con regole poche ma chiare e coerenti (le 3 C), indicando come alternativa strategie di comportamento socialmente accettabili.
IMPARARE A LITIGARE BENE
Occhio alle “trappole” (escalation, ricatti affettivi, rispondere per le rime, copioni, sequestro emotivo, ecc.).
Infatti, quando il “no” è vissuto non come “richiesta di aiuto” bensì come un affronto personale, una presa in giro, una sfida ecc. siamo meno disposti ad ascoltare perché temiamo che il nostro ruolo autorevole sia in pericolo: forse siamo stati “toccati” in un nostro “punto debole”.
Per “litigare bene” è necessario esplicitare i bisogni, del bambino e nostri, intervenendo senza arrivare a sfogare a nostra volta vissuti di rabbia, delusione, ecc.
L’adulto fornisce gli esempi di comportamento che, crescendo, i
bambini potranno “ripescare” (pedagogia implicita).
Spesso i bambini non hanno realmente bisogno che i loro desideri vengano soddisfatti, vogliono solo che vengano riconosciuti e rispettati. Aiutiamoli a dare un nome alle emozioni (tristezza, rabbia, felicità, ansia, ecc.) e quando le loro richieste non possono essere esaudite, comprendiamo il loro stato d’animo (legittimo) e suggeriamo l’alternativa al comportamento che non va.
Di fronte alle crisi di collera puntiamo prima alla “password emotiva”, cioè ci avviciniamo al bambino con l’atteggiamento che vediamo che lo aiuta a tranquillizzarsi (abbraccio, parole, concentrarsi su un compito, ecc.): solo una volta calmati, sia l’adulto sia il bambino, sarà il caso di riprendere i discorsi per chiarirsi e fare pace, guardando al futuro.
“RICARICARE LE PILE” E PRENDERSI CURA
Gli adulti, presi nel vortice della conciliazione lavoro-famiglia, faticano a trovare “spazi buoni” per “ricaricare le pile” e recuperare energie positive.
È necessario però organizzare la vita quotidiana prevedendo delle “valvole di sfogo” (attività, interlocutori che non siano il bambino, interessi, ecc.) al fine di stemperare le tensioni, le ansie, le fatiche. Queste attività piacevoli potrebbero essere momenti da vivere da soli ma anche da condividere con il figlio in modo da “ricaricarci” anche con la sua presenza.
Quindi, se possibile, bisognerebbe rivedere la giornata riservando lo spazio a proposte che piacciano a entrambi e prima di tutto a noi; magari all’aria aperta ma anche in casa. L’ambiente deve poter essere “vissuto”: è possibile giocare, esplorare, sperimentare senza esagerare certo ma soprattutto… in sicurezza!
Spesso, alle prese con un bambino 0-6 anni, “buona educazione” corrisponde a “buona organizzazione” dei momenti di routine quali pasto, igiene, gioco, sonno in modo da creare ben-essere (stare bene e far stare bene). Così si possono prevenire i “capricci” dettati da bisogni primari quali stanchezza, fame, sonno, desiderio di coccole, pensando a orari e rituali della giornata che rispondano alle esigenze del corpo e della mente di un bambino piccolo.
Per saperne di più
Beltrame A., Invece di dire… Prova a dire… Le parole per educare I bambini con amorevole fermezza, Mondadori, 2019.
Xxxxx E., A che gioco giochiamo?, Bompiano, 2013.
Xxxxxxxxx X., Xxxxxxx S., Manuale di sopravvivenza del padre contemporaneo, Guanda, 2014.
Xxxxxx J., Una base sicura, Cortina, 1989.
Xxxxxxxxx T.B., Xxxxxxx J.D., Il bambino da 0 a 3 anni. Guida allo sviluppo fisico, emotivo e comportamentale del bambino, Rizzoli, Milano, 2017.
Xxxxxxxxx T.B., Xxxxxxx J.D., Il bambino da 3 a 6 anni. Guida alle tappe cruciali dello
sviluppo dall’età prescolare al primo anno di scuola, Xxxxxxx, Xxxxxx, 0000.
Chess S., Xxxxxx X., Conosci tuo figlio. Un’autorevole guida per i genitori di oggi, Giunti, 2008.
Xxxxx X.X., Le paure segrete dei bambini. Come capire e aiutare i bambini ansiosi e agitati, Feltrinelli, 2015.
Xxxxxxx D., Intelligenza emotiva. Che cos’è e perché può renderci felici, Rizzoli, 2011.
Xxxxxxx Xxxx, Il fiume incontenibile in: II bambino perduto e ritrovato, Mondadori, 2018.
Xxxxxx X., Educazione e famiglie. Ricerche e nuove pratiche per la genitorialità, Xxxxxxx, 2018.
Regole e Capricci
Xxxxxx X., Co-educare I bambini, Pensa Multimedia, 2008. Montessori X., Il bambino in famiglia, Garzanti 2018 Montessori M., La mente del bambino, Garzanti 2017 Mortari L., Aver cura di sé, Cortina, 2019.
Xxxxxx Xxxxxxx, Litigare fa bene. Insegnare ai propri figli a gestire i conflitti per crescerli più sicuri e felici, Rizzoli, 2013
Xxxxxxxx Xxxxxxxx A., Conta su di me. Relazioni per crescere, Giunti, Milano, 2018. Xxxxxx A., L’educazione emotiva. Come educare al meglio i bambini grazie alle neuroscienze, Xxxxxx, 2016.
Xxxxxxxx A., I no che aiutano a crescere, Feltrinelli, 2002.
Pourtois J.P., Xxxxxx H., L’educazione implicita. Socializzazione e costruzione
dell’identità, Xxx Xxxxx, 2005.
Xxxxx E., Xxxxx acrobate: in equilibrio sul filo della vita senza rinunciare alla felicità, Rizzoli, 2010.
Stern D.N., Bruschweiler Stern N., Freeland A., Nascita di una madre. Come
l’esperienza della maternità cambia una donna, Mondadori, 2017.
Vianello R., Da zero a sei anni. Psicologia dello sviluppo con approfondimenti di
psicologia dell’educazione, Junior, Bergamo, 2009.
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e vorresti portare alcuni dubbi
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