GLI ELEMENTI OGGETTIVI DEL CONTRATTO
GLI ELEMENTI OGGETTIVI DEL CONTRATTO
1. La causa
1.1 Nozione
1.2 Teorie
1.3 Il giudizio causale
1.4 I motivi e la presupposizione
1.5 Negozi astratti
1.6 Contratti tipici
1.7 Collegamento negoziale
1.8 Contratti atipici
1.9 I contratti gratuiti
1.10 Il negozio indiretto
1.11 Il leasing finanziario
1.12 La causa traslativa
1.13 La causa esistenziale
1. La causa
L’ordinamento italiano, pur non contemplando il negozio giuridico, indicando all’art. 1325, n. 2)
c.c. la causa tra i requisiti del contratto, accoglie il principio causalistico, affermato dall’elaborazione della pandettistica, ossia la necessità che il consenso delle parti in ordine al programma negoziale sia sorretto da uno scopo pratico. In antitesi con l’impostazione giusnaturalistica, il nudo consenso non è sufficiente a far sorgere effetti giuridici, obbligatori o reali che siano.
Prima che su un'esigenza giuridica, l'imprescindibilità della causa nel contratto ha però radice su un argomento logico, non potendosi concepire un atto che non sia giustificato da uno scopo. Ma, posta l'inscindibilità di ogni atto umano da una causa, non ne deriva che questa debba considerarsi soltanto come elemento di fatto sul quale poggia la nozione di contratto, perché rimane sempre da vedere se la causa logicamente idonea a concretare l'atto, sia ugualmente idonea a determinare la tutela della legge. Non ogni causa logica ha il valore di causa; la distinzione riposa sulla impossibilità di porre a base della nozione giuridica di causa una concezione subiettiva, che è invece compatibile con la sua nozione logica.
Il requisito della causa ha importanza decisiva, sotto molteplici aspetti. Anzitutto ai fini del giudizio di ammissibilità del contratto, perché consente di riscontrare se essi hanno una funzione socialmente apprezzabile e lecita1, fungendo in tal modo da limite all'autonomia privata. In secondo luogo è, come visto, un criterio oggettivo di interpretazione dell’accordo, in quanto concorre a individuare su base estrinseca la direzione della volontà delle parti. In terzo luogo è uno strumento di qualificazione del contratto, utile al suo inquadramento giuridico e, quindi, all’individuazione della disciplina legale applicabile, sia nei contratti tipici che atipici. Infine, è uno strumento di adeguamento del contratto, nei casi di invalidità (conservazione del contratto nullo, annullabile, rescindibile), squilibrio originario (usura, clausola penale, ecc.), squilibrio sopravvenuto (impossibilità, eccessiva onerosità, venir meno del presupposto).
La funzione utile del negozio determina il suo contenuto e nel contempo ne integra la struttura, costituendo elemento indipendente da tutti gli altri. La causa infatti non si può confondere con l'oggetto, che consiste nella prestazione promessa o nel bene al quale si riferisce la disposizione e sta quindi al di fuori dello scopo economico obiettivo al quale la prestazione mira; non si può confondere con la volontà, che non di rado guida a scopi individuali diversi e distinti da quelli riconosciuti dalla legge; non si può infine confondere col negozio, perché concorre a costituirlo ma non ne assorbe tutti i requisiti, e piuttosto consente la individuazione del suo tipo.
Si trattano:
- nozione;
- teorie;
- il giudizio causale;
- i motivi e la presupposizione,
- negozi astratti;
- contratti tipici;
- collegamento negoziale;
- contratti atipici;
- negozio indiretto;
- leasing finanziario;
- la causa traslativa;
- la causa esistenziale.
1 Ciò anche nei contratti nominati, dove, onde evitare che il richiamo ad una causa tipica sia puramente formale, è sempre necessaria l’indagine sullo scopo che in concreto è stato preso in considerazione dalle parti, al fine di verificare se meriti tutela giuridica.
1.1 Nozione
Nell’ordinamento giuridico il vocabolo ‘causa’ non si trova solo in materia contrattuale, essendo contemplato dagli artt. 40 e 41 c.p. per designare il rapporto di causalità, che opera analogamente con riferimento all’illecito civile. Accanto alla causa del contratto vi è, dunque, la causa dell’evento illecito. Il principio di coerenza suggerisce che tra la due categorie vi sia quantomeno un nucleo comune, tanto più che il concetto di causa viene in rilievo anche nell’imputazione normativa, configurando un’entità giuridica di ordine generale2.
Volendo operare una traslazione assoluta della causalità al contratto dovremmo dire che la causa del contratto è l’accordo: l’art. 1321 c.c. definisce il contratto come l’accordo per costituire, regolare, estinguere un rapporto giuridico patrimoniale. Allora è chiaro che alla base del contratto, inteso proprio come rapporto giuridico contrattuale, c’è un fenomeno che prima è empirico e poi giuridico, ossia l’accordo fra le parti. Quando però in diritto penale si parla di causalità, oggi si adotta la teoria scientifica (sussunzione sotto leggi), che illustra bene come lo stesso concetto di causa non sarebbe definibile prescindendo dalla regola che spiega il rapporto tra l’antecedente e il conseguente. Invece, la teoria tradizionale, c.d. logico-naturalistica (teoria della condicio sine qua non pura), aveva un difetto: il procedimento logico di astrazione contro il fatto (procedimento di eliminazione mentale) non aveva una copertura, sicché era un procedimento intuitivo; questa teoria non aveva un referente parametrico per poter affermare con certezza, o neppure con probabilità statistica, che l’antecedente sotto indagine avesse avuto incidenza nella produzione dell’evento. È solo quando è stata elaborata la teoria della sussunzione sotto leggi che il concetto di causalità ha acquistato dignità scientifica, grazie alla legge di copertura, cioè la regola di funzionamento del mondo fisico, per cui si possa dire, già prima, che un certo antecedente entra nel processo di produzione di un dato conseguente.
L’accordo è, dunque, la causa del rapporto giuridico contrattuale, ma come si spiega il passaggio dall’accordo al rapporto giuridico contrattuale? Le primissime elaborazioni sul rapporto giuridico, infatti, erano avulse dalla causalità: era sufficiente, secondo la concezione giusnaturalistica, la volontà, la quale genera l’effetto giuridico in virtù di una prerogativa innata dell’individuo nella società. Ben presto si comprese che nel mondo giuridico non basta la volontà per creare l’effetto3: la
2 La causa può essere identificata in una relazione tra entità, intesa nella sua accezione materiale o di fatto, quando collega due fenomeni oggetto di studio delle scienze naturalistiche (si pensi al reato di omicidio), nella sua accezione giuridica quando collega due entità giuridiche (si pensi alla fattispecie di cui all’art. 1321 cc, come si chiarirà) o normativa quando il legislatore vuole far risalire alcuni effetti da una determinata fattispecie (art. 2043 cc), tutte accomunate, dal punto di vista logico, dal rapporto di causalità espresso dagli artt. 40-41 c.p., ritenuto punto di riferimento anche della causalità civile, come sostenuto dalle Sezioni Unite nel 2008.
3 Si ritiene che il capriccio delle parti, inteso quale manifestazione irragionevole o sconsiderata di volontà, non sia sufficiente a far sorgere un rapporto giuridico, essendo necessario, invece, che il programma negoziale tenda a realizzare un interesse rilevante dal punto di vista socio-economico e non vietato dall’ordinamento.
relazione tra l’accordo e il rapporto giuridico resterebbe, con la sola volontà, ingiustificata, arbitraria. E così si cominciò a parlare di causa, ossia ciò che giustifica il xxxxx tra l’accordo e il rapporto giuridico. La causa è ciò che spiega la produzione di effetti giuridici da parte dell’accordo contrattuale. Le leggi di natura giustificano le relazioni di fatto tra un antecedente e un conseguente, la causa giustifica le relazioni giuridiche tra un antecedente (l’accordo) e un conseguente (il rapporto giuridico contrattuale). Ecco perché il legislatore italiano chiama questo elemento ‘causa’ del contratto, ed è naturalmente una legge dell’ordinamento giuridico, così come dell’ordinamento giuridico è la relazione che lega l’accordo agli effetti giuridici.
Nell’art. 1321 c.c. la particella “per” è quella che indica la proiezione dell’accordo verso il rapporto giuridico patrimoniale: una proiezione che può essere costitutiva, estintiva o modificativa e che necessita di una giustificazione. Quando il legislatore individua questo nesso di causalità, lì pone il concetto di causa: causa è ciò che giustifica dal punto di vista dell’ordinamento giuridico il collegamento tra volontà delle parti ed effetti, assurgendo a requisito di rilevanza giuridica dell’accordo4.
In secondo luogo la causa è requisito di ammissibilità, poiché l’ordinamento riconosce solo gli accordi meritevole di tutela.
In terzo luogo è requisito di liceità dell’accordo, nel senso che lo scopo che le parti perseguono non deve contrastare con i valori superiori dell’ordinamento giuridico.
Quindi la causa è l’elemento sulla cui base l’ordinamento giuridico valuta le finalità del patto fra privati, ferma al distinzione tra la causa come categoria di qualificazione dell’accordo (la legge di copertura del contratto) e i parametri che vengono utilizzati in codesta qualificazione.
La collocazione della causa nella teoria del contratto avviene dunque sulla base di alcune disposizioni chiave del codice civile:
- l’art. 1321 individua il ruolo della causa nella cornice logica del contratto, come fondamento del rapporto di causalità giuridica tra accordo e rapporto contrattuale;
4 ‘ordinamento autorizza i privati ad obbligarsi fra loro in modo che si producano effetti simili a quelli previsti dalla legge a condizione che la causa rientri tra gli elementi di tale autorizzazione, non essendo sufficiente nell’ambito di rapporti che tocchino la sfera economica il rispetto del principio pacta servanda sunt. Tale principio, di carattere logico, basato sul principio di non contraddizione, vuole richiamare al rispetto dei patti, xxxxxxx indicare quelli che avrebbero una rilevanza giuridica. Esso non conferisce all’accordo di per sé tutela giuridica. Poiché l’ordinamento richiede ulteriore condizione espressa dalla causa intesa quale giustificazione da parte dell’ordinamento degli atti di autonomia privata, ossia la ragione per cui quella soluzione della disciplina degli interessi che i privati hanno posto in essere sia rilevante per l’ordinamento giuridico stesso, non potendo quest’ultimo accettare discipline che non siano razionali, ma solo regole che razionalizzano le relazioni fra i soggetti e fra queste le relazioni economiche. In presenza di irrazionalità le pattuizioni fra privati risultano giuridicamente irrilevanti per l’ordinamento, senza neppure vagliarle sul piano della validità e quindi sanzionarle con la loro nullità, bensì sancirne l’inesistenza.
Definizione del contratto
PREMESSA MINORE | PREMESSA MAGGIORE | CONCLUSIONE |
Accordo | Art. 1321 c.c. Causa | Effetti giuridici |
- l’art. 1325 individua il ruolo della causa nella struttura del contratto, come elemento costituivo della fattispecie, soggetta a un giudizio di meritevolezza (art. 1322) e di liceità (art. 1343).
Struttura del contratto
PREMESSA MINORE | PREMESSA MAGGIORE | CONCLUSIONE |
Accordo Causa Oggetto Forma | Art. 1325 c.c. | Contratto |
Il giudizio di meritevolezza ha per oggetto la causa e non il tipo: “Le parti possono anche concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico” (art. 1322, comma 2 c.c.). A dover essere meritevoli sono gli interessi perseguiti dalle parti, mentre il riferimento al tipo legale è fatto per riconoscere ai privati la possibilità di creare contratti che ne divergano.
Dunque la norma stabilisce che la meritevolezza della causa è un requisito del contratto atipico, non già che la meritevolezza attenga direttamente al tipo. È solo transitivamente che il giudizio di meritevolezza sulla causa diventa giudizio sul tipo. Riferire il giudizio di meritevolezza al tipo non sarebbe neppure appropriato, poiché l’accertamento dell’esistenza di una iusta causa (com’era chiamata dai giuristi intermedi) si svolge sulla funzione, non sull’involucro che la contiene.
Il testo della disposizione, piuttosto, può far pensare che a detto giudizio siano sottratti i contratti tipici. In verità anche nei contratti tipici occorre verificare che la causa sia meritevole di tutela, ma tale accertamento viene effettuato secondo un procedimento diverso. Sul piano normativo la necessità di una valutazione intrinseca anche per i contratti tipici si ricava dall’art. 1323 c.c., il quale postula l’estensione ai singoli contratti previsti dalla legge delle disposizioni sul contratto in generale, tra cui lo stesso art. 1322. Per escludere i contratti tipici dal vaglio di meritevolezza il legislatore avrebbe dovuto utilizzare una norma a fattispecie esclusiva, mentre l’art. 1322, comma 2 c.c. si limita ad autorizzare l’autonomia privata a oltrepassare il tipo, ponendo come condizione
esplicita il perseguimento di interessi meritevoli. La circostanza che analoga condizione non sia richiesta per i contratti tipici non sta a significare che per essi non opera, bensì che il suo accertamento avviene con modalità differenti, ossia tramite un’operazione di tipo logico, e non nell’esercizio della discrezionalità giudiziale su un concetto giuridico indeterminato, qual è la meritevolezza.
Più semplice la collocazione del giudizio di liceità, atteso che l’art. 1343 c.c. plasticamente stabilisce: “La causa è illecita quando è contraria a norme imperative, all'ordine pubblico o al buon costume”. Di tale giudizio, peraltro, ci sono tracce già nell’art. 1322, comma 1 c.c., secondo cui: “Le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge e dalle norme corporative”. Infatti, nella misura in cui le determinazioni convenzionali in deroga alla disciplina tipica colorano l’interesse pratico avuto di mira dalle parti, esse arricchiscono la causa concreta del contratto.
I limiti di liceità possono essere testuali, consistendo in quelli “imposti” all’autonomia contrattuale dalle norme cogenti di legge, o virtuali, perché prescritti dai principi che compongono l'ordine pubblico e dalle regole del buon costume (cfr. art. 1343): tanto la violazione dei primi, quanto quello dei secondi apparirà esclusivamente attraverso l'indagine sulla causa concreta del singolo rapporto.
Prima di entrare nel dedalo delle molteplici teorie sulla causa, è bene fissare il ruolo che essa volge nella sistematica del contratto, che si collega all’elaborazione del negozio giuridico, attenendo al fondamentale problema del rapporto tra la volontà privata e l’ordinamento giuridico.
Alla causa può essere assegnato il compito di giustificare gli spostamenti patrimoniali, come la stessa espressione di ‘iusta causa’ sta a indicare: la volontà privata è inevitabilmente subordinata all’ordinamento e la causa esprime il punto di incontro delle rispettive curve5. Solo una trasposizione ellittica può far pensare che la «causa» si identifichi col «tipo» negoziale, il che può considerarsi legittimo solo fino a quando si rimanga sul terreno classificatorio (negozi gratuiti/onerosi, commutativi/aleatori, ecc.) Per contro la causa del contratto non è idonea ad assurgere a categoria universale dell’atto giuridico, al punto da essere impiegata indifferentemente – come pure avviene – nei negozi non patrimoniali (successione mortis causa, causa del testamento, causa del matrimonio), nell’atto illecito (causa nel senso di scopo), nel provvedimento amministrativo (causa come funzione giuridica tipica). Questo impiego è stato favorito dalla potenzialità semantica e concettuale del termine, che di volta in volta può essere inteso come ‘fondamento’, ‘origine’, ‘giustificazione’6. Dunque la causa deve essere studiata nella più
5 Con ciò non si vuol prendere posizione sulle molteplici ricostruzioni della relazione tra individuo e legge, ma rilevare la necessità che chi entra in un dominio altrui, aspirando a farne parte, deve sottostare alle sue regole.
6 Così, in diritto civile, si è parlato di «causa del possesso» «causa» della dote, «causa del credito».
circoscritta – eppure fondamentale – prospettiva di ratio dell’atto di autonomia privata, che ricopre la nuda manifestazione di volontà, permettendole di apparire nel mondo del diritto, e in tale accezione essa si snoda lungo due direttive: quella di «scopo» e quella di «funzione» del negozio.
1.2 Teorie
Le prime concezioni di matrice individualistica, basando la rilevanza giuridica del contratto sulla nuda volontà delle parti, facevano a meno del concetto di causa. Qualunque accordo cui le parti intendevano dare rilevanza nel diritto era significativo e produceva effetti con il limite della liceità. Questa visione si aggancia alle primissime intuizioni sul negozio giuridico, ben prima della elaborazione da parte della pandettistica. Si pensava che il principio pacta servanda sunt – corollario del contratto sociale – fosse di per sé sufficiente ad introdurre l’accordo nell’ordinamento giuridico.
In effetti pacta servada sunt è principio universale, atteso che consente di ravvisare quale funzione dell’ordinamento giuridico quella di pacificare e potenziare le relazioni umane. Il consenso è non solo ciò che evita il conflitto, ma il motore della civiltà. Tuttavia occorre pur sempre distinguere ciò che avviene nella realtà da ciò che l’ordinamento giuridico, invece, assume. La forza ordinatrice dell’accordo, per essere dotata della sanzione giuridica, non può limitarsi al nudo patto, perché non è scontato che l’accordo abbia i crismi della razionalità. La causa assolve in primo luogo a questa funzione: studiare l’accordo dal punto di vista della pura logica, è un’analisi formale. Solo accordi che abbiano la capacità di ordinare le relazioni umane possono acquisire rilevanza giuridica, sempre che le parti intendano assegnare a questi accordi rilevanza giuridica. Ci sono combinazioni d’interessi che hanno senso solo se collocate nell’ordine giuridico; altre invece che ben possono – o devono – esistere solo sul piano delle relazioni sociali. Un esempio: due amici si accordano per un viaggio insieme, affinché uno metta a disposizione il veicolo, l’altro contribuisca alle spese di viaggio. L’accertamento se si tratti un contratto di trasporto gratuito o di un rapporto di cortesia è in buona parte affidata allo studio della causa.
Non che i fautori delle concezioni naturalistiche non avvertissero l’esigenza di utilizzare un parametro per stabilire la giuridicità dell’accordo, tuttavia ricorrevano ad altri referenti concettuali, in particolare ai principi generali in materia di obbligazioni. Le tecniche per obbligarsi indicherebbero anche quali sono i criteri perché l’obbligazione abbia fondamento giuridico. Tutt’oggi chi aderisce a queste visioni anti-causali, o comunque chi riduce il ruolo della causa, fa riferimento a categorie di carattere procedimentale o formale.
Superata la primitiva elaborazione, l’esigenza di ‘spiegare’ l’accordo è stata avvertita costantemente nell’evoluzione del pensiero giuridico.
Inizialmente la causa non fu riferita al contratto, ma all’obbligazione, sul presupposto che i contratti producono soltanto effetti obbligatori7. È la c.d. concezione analitica della causa, di cui esistono diverse versioni: oggettive o soggettive.
Secondo la teoria oggettiva causa dell’obbligazione è la controprestazione, secondo la teoria soggettiva è lo scopo ultimo del creditore. Entrambe le teorie considerano la stessa entità, ossia il bene della vita che il contratto intende raggiungere, guardato in una prospettiva esterna o interna.
La teoria oggettiva fu messa in crisi dai contrati gratuiti, dove la controprestazione manca, e dai contratti traslativi, dove uno degli effetti tipici – il trasferimento della proprietà – si produce contestualmente al contratto. Nei negozi traslativi la teoria analitica non spiega il trasferimento del diritto, poiché l’effetto reale trova ragione non in una corrispondente obbligazione ma direttamente nel contratto. Si cercò di superare la prima obiezione configurando la causa del contratto di donazione nell’animus donandi, la seconda riferendo il concetto di causa alla prestazione, intesa quale comportamento cui una parte è tenuta, che può consistere anche nel trasferimento del diritto.
La teoria soggettiva è incompatibile con le prestazioni isolate, cioè eseguite al di fuori di un preesistente vincolo obbligatorio, ed è in sé arbitraria, perché pretende di distinguere la causa dai motivi su base cronologica, sostenendo che tra le rappresentazioni psichiche che precedono la dichiarazione di volontà è possibile individuare l’ultima, che costituisce il motivo determinante dell’azione, così incorrendo nello stesso vizio concettuale della teoria della causa efficiente.
In realtà è la concezione analitica in quanto tale ad essere inadeguata, da un lato perché interesse del creditore e causa del contratto sono concetti distinti (artt. 1174/1325 c.c.), dall’altro perché, riferendo la causa all’obbligazione, nei contratti sinallagmatici si finisce per individuare due cause, spezzando l’unitarietà del fenomeno contrattuale. Inoltre, se il contratto è la fonte dell’obbligazione, la causa non può che essere elemento del primo, non della
7 Concezione che impregnava ancora il codice civile del 1865. La definizione del contratto contenuta nell’art. 1098 faceva riferimento esclusivamente alla costituzione, regolamentazione o scioglimento di un «vincolo giuridico», ed ancora più chiaramente il codice, nel dare la nozione del contratto bilaterale, parlava di «contraenti che si obbligano reciprocamente gli uni verso gli altri» (art. 1099). D’altro canto lo stesso codice definiva la vendita come «un contratto, per cui uno si obbliga a dare una cosa e l’altro a pagarne il prezzo» (art. 1447), pur affrettandosi a soggiungere che «la proprietà si acquista di diritto dal compratore riguardo al venditore, al momento che si è convenuto sulla cosa e sul prezzo» (art. 1448).
seconda: l’assenza di causa genera un giudizio di invalidità sul contratto, l’assenza di obbligazione genera un giudizio di indebito sulla prestazione, di cui l’obbligazione è il titolo8.
Nell’ambito della concezione unitaria le teorie dell’illuminismo furono sempre di matrice soggettivistica9, trovando poi sviluppo nelle prime elaborazioni della pandettistica, che mettevano al centro della fattispecie negoziale la volontà. Definito il negozio giuridico come dichiarazione di volontà diretta a uno scopo pratico, la causa si configurava come un corollario della volontà. L’approccio soggettivistico della concezione unitaria alla causa del contratto era, in fondo, una traslazione dell’approccio soggettivistico proprio delle teorie analitiche, e quindi la causa da scopo ultimo del creditore diventa la somma degli scopi perseguiti dalle parti: se il venditore ha lo scopo di conseguire il prezzo e l’acquirente quello di avere lo cosa, la causa della vendita risiederà nei reciproci scopi di avere la cosa ed il prezzo. Questo modo di argomentare appare soddisfacente finché si considerano i negozi a prestazioni corrispettive, ma si svela inadeguato non appena si cerca d’indagare la causa dei contratti gratuiti, in particolare quelli caratterizzati da un intento di liberalità. L’animus donandi è la spiritualizzazione dell’effetto giuridico, ossia l’arricchimento dell’avente causa, sicché la causa coincide con la volontà dell’effetto giuridico, e non può esserne la giustificazione, né è configurabile una somma tra uno scopo liberale e l’arricchimento. La dottrina non tardò ad accorgersi che, al di fuori della categoria dei contratti corrispettivi, moltissimi negozi erano riconosciuti validi pur tacendo lo scopo perseguito dalla parte. Nacque così la categoria dei negozi astratti, la quale aveva il compito di accogliere tutti quegli atti validi pur senza l’expressio causae.
Al tramonto della teoria soggettivistica si accompagnò l’ascesa di quella oggettivistica, che definisce la causa non come scopo delle parti, ma come funzione economico-sociale del contratto, in Italia patrocinata da Betti.
Il codice civile vigente ha fissato la concezione unitaria della causa10 e ne ha accolto la versione astratta. Tale conclusione si ricava da svariati dati positivi: il primo di ordine storico11; il secondo di ordine sistematico12; il terzo di ordine letterale13.
8 Anche ammettendolo, il concetto di causa dell’obbligazione o dell’attribuzione non esclude quello di causa del contratto, che serve ad indicare la giustificazione della tutela giuridica del rapporto nel suo complesso, e, quando il contratto produce attribuzioni complessive, ad additare il legame che rende l’una attribuzione dipendente dell’altra, e quindi ad enunciare il vincolo sinallagmatico; la causa del contratto, determinando l’effetto economico-sociale tutelato dalla legge, opererà cioè all’esterno del rapporto, sistemandolo nel quadro dell’ordinamento giuridico, mentre la causa dell’attribuzione, in ma senso ristretto, rimarrà a produrre conseguenze nell’interno del rapporto stesso.
9 Trattato di Xxxxxxx.
10 Eliminato nel nuovo codice il duplice accenno ad una causa dell’obbligazione e ad una causa del contratto, che si rinveniva negli articoli 1119 e 1120 di quello abrogato; non riprodotta nell’art. 1325 la dizione causa lecita per obbligarsi che era nell’art. 1104 del codice abrogato, l’elemento della causa come requisito del contratto è rimasto affermato in modo non equivoco. Xx è rimasto affermato anche in modo imperativo, perché non persuade l’assunto di coloro i quali, nella elencazione degli elementi del contratto fatta dal codice scorgono un’enunciazione dottrinale che
Poiché l’argomento fondamentale è quest’ultimo, occorre esaminare il rapporto tra causa e tipo secondo la teoria in questione: la causa è la funzione del contratto, il tipo è lo scheletro del contratto, la creazione legislativa – calco di quella sociale – che ne funge da modello. Il rapporto, dunque, è di continenza, perché il tipo ha – tra l’altro – una causa tipica. La confusione fra causa e tipo dipende da una circostanza: quando il legislatore descrive il tipo legale non fa riferimento a una pluralità di elementi, soggettivi e oggettivi, limitandosi ad identificarlo sulla base della causa.
Ad esempio la vendita è il contratto che ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa o il trasferimento di un altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo (art. 1470 c.c.). La causa della vendita è lo scambio di cosa contro prezzo, cioè la sintesi degli interessi delle parti (l’interesse a conseguire un bene e l’interesse a realizzare il valore di scambio di quel bene), che si fondono nella
non impegna l’interprete: contro questa opinione è decisiva la connessione esistente fra l’art. 1325 e l’art. 1418, dove si commina la nullità del contratto anche per la mancanza del requisito della causa.
11 «Se si traggono le logiche conseguenze dal principio corporativo che assoggetta la libertà del singolo all’interesse di tutti, si scorge che, in luogo del concetto individualistico di signoria della volontà, l’ordine nuovo deve accogliere quello più proprio di autonomia del volere. L’autonomia del volere non è sconfinata libertà del potere di ciascuno, non fa del contratto un docile strumento della volontà privata; ma, se legittima nei soggetti un potere di regolare il proprio interesse, nel contempo impone ad essi di operare sempre sul piano del diritto positivo, nell’orbita delle finalità che questo sanziona e secondo la logica che lo governa (art. 1322 del c.c., comma primo). Il nuovo codice, peraltro, non costringe l’autonomia privata a utilizzare soltanto i tipi di contratto regolati dal codice, ma le consente di spaziare in una più vasta orbita e di formare contratti di tipo nuovo se il risultato pratico che i soggetti si propongono con essi di perseguire sia ammesso dalla coscienza civile e politica, dall’economia nazionale, dal buon costume e dall’ordine pubblico (art. 1322 del c.c., comma secondo): l’ordine giuridico, infatti, non può apprestare protezione al mero capriccio individuale, ma a funzioni utili che abbiano una rilevanza sociale, e, come tali, meritino di essere tutelate dal diritto. Si pensi, per esempio, ad un contratto col quale alcuno consenta, dietro compenso, all’astensione da un’attività produttiva o a un’esplicazione sterile della propria attività personale o a una gestione antieconomica o distruttiva di un bene soggetto alla sua libera disposizione, senza una ragione socialmente plausibile, ma solo per soddisfare il capriccio o la vanità della controparte. Un controllo della corrispondenza obiettiva del contratto alle finalità garantite dall’ordinamento giuridico è inutile se le parti utilizzano i tipi contrattuali ,legislativamente nominati e specificatamente disciplinati: in tal caso la corrispondenza stessa è stata apprezzata e riconosciuta dalla legge col disciplinare il tipo particolare di rapporto e resta allora da indagare, come si dirà più avanti (n. 614), se per avventura la causa considerata, non esista in concreto o sia venuta meno. Quando il contratto non rientra in alcuno degli schemi tipici legislativi, essendo mancato il controllo preventivo e astratto della legge sulla rispondenza del tipo nuovo di rapporto alle finalità tutelate, si palesa invece necessaria la valutazione del rapporto da parte del giudice, diretta ad accertare se esso si adegui ai postulati dell’ordinamento giuridico» (Relazione ministeriale al codice civile, par. 603).
«Nonostante gli equivoci e le critiche a cui il requisito della causa ha dato luogo, si è stimato necessario conservarlo e anzi conferirgli massima efficienza, non solo e non tanto in omaggio alla secolare tradizione del nostro diritto comune (che ha pure il suo peso), quanto, e soprattutto, perchè un codice fascista, ispirato alle esigenze della solidarietà, non può ignorare la nozione della causa senza trascurare quello che deve essere il contenuto socialmente utile del contratto. Bisogna infatti tener fermo, contro il pregiudizio incline a identificare la causa con lo scopo pratico individuale, che la causa richiesta dal diritto non è lo scopo soggettivo, qualunque esso sia, perseguito dal contraente nel caso concreto (che allora non sarebbe ipotizzabile alcun negozio senza una causa), ma è la funzione economico-sociale che il diritto riconosce rilevante ai suoi fini e che sola giustifica la tutela dell’autonomia privata. Funzione pertanto che deve essere non soltanto conforme al precetti di legge, all’ordine pubblico e al buon costume, ma anche, per i riflessi diffusi dall’art. 1322 del c.c., secondo comma, rispondente alla necessità che il fine intrinseco del contratto sia socialmente apprezzabile e come tale meritevole della tutela giuridica (n. 603)» (Relazione ministeriale al codice civile, par. 613).
12 L’accoglimento della nozione obiettiva è dimostrato dal confronto dell’art. 1343 con l’art. 1345, in cui si indica il motivo comune alle parti come figura distinta dalla causa; il motivo che spinge le parti a contrarre è infatti la ragione che stimola il soggetto a volere, ed è spesso difforme e contrario allo scopo obiettivo la cui realizzazione l’ordinamento giuridico si propone di garantire. Ulteriore riprova è costituita della frode alla legge, che non inficia direttamente il contratto, ma solo mediatamente, perché comunica l’illiceità alla causa e la fa reputare illecita (art. 1344).
13 La previsione di un titolo dedicato ai contratti tipici, costruiti come astrazione dei più importanti modelli contrattuali in uso.
schema del do ut des, il quale rispecchia una classica funzione socio-economica. La nozione di vendita ignora gli altri elementi, che assumono rilevanza solo per individuare varianti al tipo: così la natura dell’oggetto (vendita generica, vendita di cosa futura, vendita di cosa altrui, vendita di cose mobili, vendita di titoli di credito) e la condizione (sospensiva: vendita a prova, vendita con riserva di gradimento, vendita con riserva di proprietà; risolutiva: vendita con patto di riscatto).
Questa tecnica ricorre in quasi tutti i contratti tipici, dei quali la norma di apertura del capo ad essi riservato detta una definizione funzionalistica, che descrive in termini giuridici il risultato economico che l’operazione negoziale realizza. I tipi contrattuali sono costruiti come schemi causali, ciò determinando la sovrapposizione fra causa e tipo, non perché nomi diversi della stessa entità. Se il tipo è definito solo sulla base della causa, un giudizio favorevole sulla causa comporta anche un giudizio favorevole sul tipo, per una sorta di proprietà transitiva, non perché tra i medesimi esista una relazione di astratta identità.
Numerose sono state le critiche alla teoria della causa in astratto:
- il giudizio di ammissibilità è saltato, essendo i contratti tipici meritevoli a priori;
- il giudizio di illiceità è svuotato, riducendosi ai casi di tipicità apparente14;
- il mondo dell’autonomia privata è compresso (contratto atipico e collegamento negoziale)15.
La teoria della causa astratta riduce la nullità per difetto di causa a ipotesi di scuola, in cui a mancare è il tipo, come nell’esempio dell’acquisto di cosa propria, della rendita vitalizia costituita a favore di persona defunta, della donazione di bene altrui16. Inoltre, identificare causa e tipo conduce
14 «Nonostante l’accoglimento di una concezione obiettiva della causa è rimasto negli art. 1343 del c.c. e art. 1344 del
c.c. il riferimento alla illiceità della stessa. E’ stato detto da qualcuno che causa illecita deve equivalere a causa mancante, in un sistema che eleva a causa del contratto lo scopo ritenuto degno di tutela dall’ordinamento giuridico. Ciò è vero se si ha riguardo al concetto di causa astratta e tipica di un contratto; ma in ogni singolo rapporto deve essere controllata la causa che in concreto il negozio realizza, per riscontrare non solo se essa corrisponda a quella tipica del rapporto, ma anche se la funzione in astratto ritenuta degna dall’ordinamento giuridico possa veramente attuarsi, avuto riguardo alla concreta situazione sulla quale il contratto deve operare. Tale controllo può rivelare che lo schema causale tipico non si può realizzare perché vi ostano le circostanze oggettive peculiari alla ipotesi concreta, le quali, essendo incompatibili con quello schema, rendono illecito ciò che sarebbe astrattamente lecito» (Relazione ministeriale al codice civile, par. 614).
15 La visione astratta della causa porta a ricondurre i contratti atipici a quelli legali, a negare l’inammissibilità dei contratti traslativi e dei contratti gratuiti atipici.
16Cass. sez. un., n. 5068 del 2016: «La donazione di un bene altrui, benché non espressamente vietata, deve ritenersi nulla per difetto di causa, a meno che nell’atto si affermi espressamente che il donante sia consapevole dell’attuale non appartenenza del bene al suo patrimonio. Ne consegue che la donazione, da parte del coerede, della quota di un bene indiviso compreso in una massa ereditaria è nulla, non potendosi, prima della divisione, ritenere che il singolo bene faccia parte del patrimonio del coerede donante».
In quest’ipotesi, più realistica delle precedenti, emerge come ma mancanza di uno degli elementi costitutivi del tipo si rifletta sulla causa: «Una piana lettura dell’articolo 769 codice civile, dovrebbe indurre a ritenere che l’appartenenza del bene oggetto di donazione al donante costituisca elemento essenziale del contratto di donazione, in mancanza del quale la causa tipica del contratto stesso non può realizzarsi. Recita, infatti, la citata disposizione: «La donazione è il contratto col quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa una obbligazione». Elementi costitutivi della donazione sono, quindi, l’arricchimento del terzo con correlativo depauperamento del donante e lo spirito di liberalità, il c.d. animus donandi, che connota il depauperamento del donante e l’arricchimento del donatario e che, nella giurisprudenza di questa Corte, va ravvisato
a negare la possibilità di un negozio tipico illecito, che però è smentita dall’art. 1343 c.c. e dalla presenza di ipotesi di negozi tipici illeciti17.
Ferri18 propone un nuovo concetto di tipo, che egli riferisce al corpo dello specifico contratto, non al tipo legale, che è una nozione inutile e che si riferisce alla descrizione del negozio contenuta in una norma. Elaborando la nozione di tipo con riguardo ai singoli contratti, e dunque facendo rientrare nella nozione di tipo tutti gli elementi che caratterizzano il singolo contratto (soggetti, modalità di conclusione dell’accordo, valori economici, oggetto, clausole accessorie), si può identificare la causa in concreto, cioè la funzione economico-individuale del contratto. Un medesimo tipo legale può realizzare cause diverse, e se una di queste è illecita, ecco che uno strumento negoziale solitamente lecito (che cioè è solito realizzare funzioni lecite) deve considerarsi nullo.
L’elaborazione di Xxxxx è stata a sua volta criticata, perché fa perdere alla causa il ruolo di parametro di regolazione dei patti umani e perché la formula «funzione economico-individuale» è intrinsecamente contraddittoria (non si può indagare la causa ora in posizione di terzietà, ora dal punto di vista dei contraenti nello stesso tempo)19. È da confutare l’idea stessa che un negozio pur rimanendo tipico possa talvolta perseguire scopi illeciti: tutte le volte in cui un negozio tipico fa qualcosa di illecito, ciò accade in quanto è stato o aggiunto o sottratto un effetto giuridico essenziale. Il che equivale a dire che non è più tipico.
"nella consapevolezza dell’uno di attribuire all’altro un vantaggio patrimoniale in assenza di qualsivoglia costrizione, giuridica o morale" (Cass. n. 8018 del 2012; Cass. n. 12325 del 1998; Cass. n. 1411 del 1997; Cass. n. 3621 del 1980). Appare evidente che, in disparte il caso della donazione effettuata mediante assunzione di una obbligazione, nella quale oggetto dell’obbligazione del donante sia il trasferimento al donatario di un bene della cui appartenenza ad un terzo le parti siano consapevoli, l’esistenza nel patrimonio del donante del bene che questi intende donare rappresenti elemento costitutivo del contratto; e la consustanzialità di tale appartenenza alla donazione è delineata in modo chiaro ed efficace dalla citata disposizione attraverso il riferimento all’oggetto della disposizione, individuato in un diritto del donante (“un suo diritto”). La non ricorrenza di tale situazione - certamente nel caso in cui né il donante né il donatario ne siano consapevoli, nel qual caso potrebbe aversi un’efficacia obbligatoria della donazione - comporta la non riconducibilità della donazione di cosa altrui allo schema negoziale della donazione, di cui all’articolo 769 codice civile. In altri termini, prima ancora che per la possibile riconducibilità del bene altrui nella categoria dei beni futuri, di cui all’articolo 771 codice civile, comma 1, la altruità del bene incide sulla possibilità stessa di ricondurre il trasferimento di un bene non appartenente al donante nello schema della donazione dispositiva e quindi sulla possibilità di realizzare la causa del contratto (incremento del patrimonio altrui, con depauperamento del proprio). Pertanto, posto che l’articolo 1325 codice civile, individua tra i requisiti del contratto “la causa”; che, ai sensi dell’articolo 1418 codice civile, comma 2, la mancanza di uno dei requisiti indicati dall’articolo 1325 codice civile, produce la nullità del contratto; e che l’altruità del bene non consente di ritenere integrata la causa del contratto di donazione, deve concludersi che la donazione di un bene altrui è nulla. Alle medesime conclusioni deve pervenirsi per il caso in cui, come nella specie, oggetto della donazione sia un bene solo in parte altrui, perché appartenente pro indiviso a più comproprietari per quote differenti e donato per la sua quota da uno dei coeredi. Non è, Infatti, dato comprendere quale effettiva differenza corra tra i “beni altrui” e quelli “eventualmente altrui”, trattandosi, nell’uno e nell’altro caso, di beni non presenti, nella loro oggettività, nel patrimonio del donante al momento dell’atto, l’unico rilevante al fine di valutarne la conformità all’ordinamento».
17 In realtà il negozio tipico illecito è tipizzato dal legislatore come illecito; altra questione è, invece, se un negozio tipico possa essere illecito.
18 G.B. XXXXX, Causa e tipo nella teoria generale del negozio giuridico, Milano, 1966.
19 Come si può formare un giudizio sulla base di una prospettiva individuale? La causa è l’elemento che consente all’osservatore di formulare un giudizio sul negozio, ma se la causa resta recintata nel singolo negozio, viene a mancare una legge di copertura sulla cui base valutare il contratto.
Caso emblematico di questa dicotomia tra causa astratta e causa concreta è la vendita a prezzo vile. Ad esempio il trasferimento di un immobile del valore di 1 milione per un prezzo di 50 mila euro, che non è una vendita a prezzo simbolico, essendo il corrispettivo pattuito dotato di intrinseca consistenza, ma marcatamente sproporzionato. Esclusa l’ipotesi di simulazione del prezzo o di liberalità, applicando la teoria della causa in astratto questo contratto integra una vendita, ricalcando lo schema dello scambio di cosa contro prezzo. La causa della vendita a prezzo vile sembra sussumibile nel tipo legale della vendita, atteso che la descrizione legislativa della vendita non contiene alcun riferimento al rapporto economico tra le attribuzioni patrimoniali, ma fa riferimento solo al rapporto giuridico, cioè alla corrispettività. Dunque, è irrilevante il valore economico del bene rapportato al prezzo pattuito. Ma ragioniamo secondo Xxxxx: il tipo concreto, il corpo del contratto di cessione immobiliare a prezzo vile, ha come elemento essenziale il valore del bene rapportato al prezzo, sicché la causa concreta deve tenere conto di questo elemento. La differenza tra causa concreta e causa astratta è nella diversa base di giudizio: la causa astratta tiene conto solo degli aspetti contemplati dal tipo legale, ossia il nesso di corrispettività tecnico-giuridica; la causa concreta considera il rapporto di congruità economica. Applicando la teoria della causa in concreto, i valori economici dell’operazione assumono rilievo e portano ad escludere che essa realizzi una funzione di scambio, la quale postula se non l’equivalenza la proporzionalità dei valori scambiati.
Proprio questo esempio dimostra, però, che l’antinomia tra la teoria della causa in astratto e la teoria della causa in concreto è fuorviante, trattandosi di concetti che descrivono entità diverse, che coesistono. La causa in astratto si trova nel tipo legale, cioè nella norma; la causa concreta si trova nel singolo contratto, cioè nella realtà. Quando l’art. 1325 c.c. fa riferimento alla causa come elemento del contratto, fa riferimento sia al contratto in generale, come istituto giuridico, sia ai contratti posti in essere nella realtà, come fatti economici.
Con la tipizzazione, alla nozione di causa astratta in generale si sostituisce una nozione di causa astratta in particolare, la causa dei singoli tipi legali. La causa in concreto deve confrontarsi non solo con il concetto di causa in generale, ma anche con il concetto di causa del tipo legale, cioè una specifica causa. Quando la causa in concreto è sussumibile nella causa in astratto, il contratto è tipico. Sussunzione non significa coincidenza: la causa concreta non è necessariamente lo specchio nella realtà della causa astratta, anzi il più delle volte presenta elementi di distinzione, tuttavia è in essa contenuta, quindi suscettibile di venirne inquadrata. Dall’illustrazione che sarà fatta nel prossimo paragrafo si evince come nei contratti tipici la causa concreta si ponga all’intersezione tra il contenuto e il tipo, nel senso che è data da variazioni del contenuto legale che non alterano il tipo (art. 1322, comma 1 c.c.).
Contratto tipico
PREMESSA MINORE | PREMESSA MAGGIORE | CONCLUSIONE |
Tipo Variazioni di contenuto | Art. 1322, comma 1 c.c. | Causa concreta Causa tipica |
Quando invece le variazioni incidono non sul contenuto, ma sulla definizione del tipo (art. 1322, comma 2 c.c.), il contratto è atipico.
Contratto atipico
PREMESSA MINORE | PREMESSA MAGGIORE | CONCLUSIONE |
Tipo Variazioni di schema | Art. 1322, comma 2 c.c. | Causa concreta Causa atipica |
Se la causa tipica del contratto di vendita fosse lo scambio in senso sostanziale, la cessione di un bene immobile a prezzo vile non sarebbe vendita, perché la causa concreta non sarebbe sussumibile nel modello legale della vendita: l’interprete dovrà accertare se esiste un’altra causa idonea a sorreggere il trasferimento, altrimenti dichiarare la nullità dell’atto che lo dispone. Se la causa tipica del contratto di vendita fosse lo scambio in senso formale, allora la cessione di immobile a prezzo vile sarebbe vendita, perché la causa concreta sarebbe sussumibile nel modello legale della vendita: l’interprete dovrebbe verificare la rilevanza del difetto di proporzionalità tra le prestazioni all’interno della disciplina della vendita.
La soluzione, dunque, non dipende tanto dall’opzione in favore di una delle teorie causali, atteso che anche in epoca recente, pur avendo la giurisprudenza aderito alla teoria della causa concreta, ha affermato che la vendita a prezzo vile può essere valida e la sua qualificazione come fattispecie di scambio o altro è una questione di accertamento della volontà delle parti, quindi di causa in concreto20.
Piuttosto la classificazione della vendita a prezzo vile presuppone l’interpretazione dell’art. 1470 c.c., dovendosi stabilire se, pur in assenza di riferimenti alla cifra economica dello scambio, il rapporto di proporzionalità tra le prestazioni è o meno un elemento della vendita.
Si può prescindere da una scelta sui metodi dell’ermeneutica, essendo sufficiente classificare la disposizione in base al suo ambito concettuale, che è quello delle leggi economiche, dunque come
20 Cass. sez. II, n. 9640 del 2013: «Solo l’indicazione di un prezzo assolutamente privo di valore, meramente apparente e simbolico, può determinare la nullità della vendita per difetto di uno dei suoi requisiti essenziali, mentre la pattuizione di un prezzo notevolmente inferiore al valore di mercato della cosa venduta, ma non del tutto privo di valore, pone solo un problema concernente l’adeguatezza e la corrispettività delle prestazioni ed afferisce, quindi, all’interpretazione della volontà dei contraenti ed all’eventuale configurabilità di una causa diversa del contratto».
norma del secondo tipo. L’art. 1470 c.c. impiega elementi valutativi, poiché la formula “trasferimento della proprietà di una cosa verso il corrispettivo di un prezzo” contiene concetti tecnici, di ordine giuridico (proprietà) o economico (prezzo). Peraltro, poiché il fenomeno che ne forma oggetto è squisitamente economico, è la scienza economica a costituire la legge di copertura. Questa legge postula che, in un sistema di libero mercato, lo scambio debba avvenire sulla base di una relazione tra beni scambiati che, pur non necessariamente di equivalenza, è di proporzionalità, per cui la cessione di un bene a prezzo vile non rispecchia questa legge. Se manca uno scambio in senso economico, l’operazione non è sussumibile nel tipo disegnato dall’art. 1470 c.c., per assenza dell’elemento di corrispettività.
Parallela alla dialettica tra causa astratta e causa concreta, sempre sul versante delle teorie oggettive, è la tesi di Pugliatti, minoritaria in dottrina e poco seguita dalla giurisprudenza21, secondo cui la causa è la sintesi degli effetti giuridici tipici. Questa impostazione sottolinea la necessità di cogliere innanzi tutto quali beni della vita le parti vogliono conseguire: i negozi sono la proiezione giuridica dell’intento di conseguire determinati beni secondo certe modalità, proiezione che si determina quando l’intento è espresso secondo una configurazione adeguata per l’ordinamento. Se ognuno dei contraenti esprime all’altro le proprie aspirazioni, sicché le parti si dichiarano reciprocamente disposte allo scambio, l’ordinamento crea un negozio conforme il cui compito è di dare tutela al conseguimento dei beni ed alla loro conservazione. Gli effetti di questo negozio sono la causa del negozio stesso. Nella compravendita, ad esempio, sono il trasferimento di un diritto in cambio della costituzione di un’obbligazione per il prezzo. Passando dalla funzione empirica a quella giuridica la teoria ha il merito di rendere la nozione di causa più coerente con la dottrina normativistica del negozio giuridico, ma rischia di dissolvere lo stesso requisito, proponendo di sostituire il concetto di causa con la descrizione degli effetti negoziali.
A tale risultato giungevano le teorie anticausalistiche, le quali, muovendo dalla critica tanto alla concezione soggettiva quanto a quella oggettiva astratta, evidenziavano come tanto il tentativo di identificazione della causa nell’interesse-motivo alla controprestazione, inscritto nella sfera della rappresentazione intellettuale e della determinazione volitiva dell’agente, quanto il suo ravvisarsi nel difforme paradigma dell’interesse-funzione sociale, eterodeterminato ed autoritariamente prefato, portassero all’identica conclusione: elidere, contraddittoriamente, l’autonomia della causa
21 Cass. sez. III, n 10004 del 2003: «In tema di contratti, anche dopo l’entrata in vigore della legge 21 febbraio 1991, n. 52 sulla cessione dei crediti di impresa, il “factoring” rimane un contratto atipico il cui nucleo essenziale è l’obbligo assunto da un imprenditore (cedente o fornitore) di cedere ad altro imprenditore (“factor”) la titolarità dei crediti derivati o derivandi dall’esercizio della sua impresa, con le possibili varianti del finanziamento in favore dell’impresa stessa e dell’assunzione del rischio dell’insolvenza del debitore. Ne consegue che, ai fini della qualificazione del contratto - che dipende dagli effetti giuridici e non da quelli pratico economici - il giudice deve fare riferimento all’intento negoziale delle parti che renda palese il risultato concreto perseguito, valutando in particolare se esse abbiano optato per la causa “vendendi”, per quella “mandati” o per altra ancora».
quale entità giuridica, intrinsecamente avvinta al dinamismo delle relazioni sociali e dei traffici intersoggettivi, per asserirne la coincidenza, rispettivamente, con lo stesso consenso, atteso che la causa esprimerebbe la propensione delle parti alla conclusione dell’affare, ovvero con lo stesso atto di autonomia privata, nella sua dimensione tipica, avulsa da qualsiasi profilo di riconducibilità soggettiva allo scopo realmente perseguito.
Alle teorie funzionalistiche astratte è stato rimproverato un disinteresse per la realizzazione dei concreti interessi delle parti. In realtà sia Xxxxx sia Xxxxxxxxx danno importanza all’interpretazione dell’atto. Entrambi sostengono che l’interprete deve procedere, innanzi tutto, dall’individuazione dei beni che le parti intendono conseguire e delle modalità di conseguimento. Xxxxx, però, si arresta su questa soglia affermando che la causa descrive la funzione empirica che l’atto realizza, precisando ulteriormente che tale funzione empirica (che egli chiama economica), deve anche essere socialmente utile. Xxxxxxxxx, al contrario, prosegue ed afferma che interpretato l’atto, individuati i beni che le parti intendono conseguire, l’interprete deve cercare quali sono gli effetti conformi che l’ordinamento ha prodotto per dare tutela all’intento pratico manifestato dalle parti. Gli effetti, dunque, non sono causati dall’atto, ma traducono l’atto sul piano giuridico.
La connessione con l’elaborazione pandettistica è evidente: l’intento pratico è un elemento del negozio, rappresentando la direzione della volontà; l’ordinamento autorizza il negozio a produrre gli effetti giuridici conformi. La causa, impostata come funzione economico-sociale o come funzione giuridica resta al di fuori della geometria, ma ad essa saldata, trovando in ambo i casi il presupposto nella funzione empirica della volontà.
La giurisprudenza ha lungamente aderito alla teoria classica22, ritenendo che essa non escluda la possibilità che la causa sia illecita23.
22 Cass. sez. I, n. 3646 del 2009: «L’assunzione a carico di ciascuna delle parti di contrapposte obbligazioni non solo esclude la gratuità del negozio ma rende palese la sussistenza della causa di cui agli artt. 1325 e 1343 cod. civ., la quale si identifica con la funzione economico sociale che il negozio obiettivamente persegue e che il diritto riconosce come rilevante ai fini della tutela apprestata, rimanendo ontologicamente distinta rispetto allo scopo particolare che ciascuna delle parti si propone di realizzare».
Cass. sez. III, n. 7844 del 1993: «La causa o ragione del negozio si identifica con la funzione economico-sociale dell’atto di autonomia privata nella sintesi dei suoi elementi essenziali e l’accertamento da parte del giudice di merito degli elementi costitutivi del negozio giuridico fa presumere, di regola, l’esistenza della corrispondente causa tipica, salva la prova di un diverso intento pratico delle parti».
Cass. sez. unite, n. 4135 del 18 dicembre 1975: «Al fine della qualificazione giuridica di un contratto, ha rilievo l’indagine sulla causa, oggettivamente intesa come funzione essenziale e caratterizzante del contratto medesimo, in relazione al risultato immediatamente perseguito dalle parti; e non anche la ricerca degli ulteriori fini soggettivi che abbiano spinto i contraenti a negoziare, ancorché inseriti in clausole accessorie dell’atto».
Cass. sez. III, n. 3300 del 1975: «Requisito essenziale del contratto è la causa (art. 1325 c.c.), la quale si identifica nella funzione economico-sociale che esso obiettivamente persegue e che il diritto riconosce rilevante ai suoi fini. Tale requisito inerisce unitariamente al contratto globalmente considerato, e si estende, quindi, a tutti i suoi elementi ed alle sue clausole. Pertanto, le varie pattuizioni, che possono rinvenirsi in un contratto, non hanno ciascuna una causa propria, distinta ed autonoma da quella del contratto medesimo, ma hanno la sua stessa causa, che ad esse si comunica. Allo stesso modo un patto stipulato successivamente alla conclusione di un contratto e rivolto a regolamentarne l’esecuzione non ha una causa propria, ma ha quella del contratto, che si proietta su di esso».
La giurisprudenza più recente aderisce alla teoria della causa in concreto: «causa del contratto è la sintesi degli interessi reali che esso, al di là del modello anche tipico utilizzato, è diretto a realizzare. Causa, dunque, ancora iscritta nell’orbita della dimensione funzionale dell’atto, ma, questa volta, funzione individuale del singolo, specifico contratto posto in essere, a prescindere dal relativo stereotipo astratto, seguendo un iter evolutivo del concetto di funzione economico-sociale del negozio che, muovendo dalla cristallizzazione normativa dei vari tipi contrattuali, si volga alfine a cogliere l’uso che di ciascuno di essi hanno inteso compiere i contraenti adottando quella determinata, specifica (a suo modo unica) convenzione negoziale»24
Pochi anni dopo è giunto il sigillo delle Sezioni Unite: «ai sensi dell’articolo 64 della legge fallimentare, la valutazione di gratuità od onerosità di un negozio va compiuta con esclusivo riguardo alla causa concreta, costituita dallo scopo pratico del negozio, e cioè dalla sintesi degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là del modello astratto utilizzato; per cui la relativa classificazione non può più fondarsi sulla esistenza o meno di un rapporto sinallagmatico e corrispettivo tra le prestazioni sul piano tipico ed astratto, ma dipende necessariamente dall’appezzamento dell’interesse sotteso all’intera operazione da parte del solvens, quale emerge dall’entità dell’attribuzione, dalla durata del rapporto, dalla qualità dei soggetti e soprattutto dalla
23 Cass. sez. II, n. 1244 del 1983: «La causa del contratto si identifica con la funzione economico-sociale che il negozio obiettivamente persegue e il diritto riconosce rilevante ai fini della tutela apprestata. Essa è ontologicamente distinta dallo scopo particolare che ciascuna delle parti persegue, rappresentando lo scopo obiettivo del negozio. Da ciò deriva che l’illiceità della causa – sia nell’ipotesi di contrarietà della stessa a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume (art. 1343 c.c.) sia nell’ipotesi di utilizzazione dello strumento negoziale per frodare la legge (art. 1344 c.c.) – deve essere inerente alla funzione obiettiva che intenzionalmente entrambe le parti attribuiscono al negozio per il raggiungimento di una comune finalità contraria alla legge e che non può essere ravvisata nell’approfittamento da parte di uno dei contraenti dello stato di errore in cui versa l’altro contraente circa una qualità dell’oggetto, che integra invece un’ipotesi di vizio del consenso sanzionabile con i diversi rimedi dell’annullabilità della convenzione».
Cass. sez. un., n. 63 del 1973: «La causa, come funzione economico-sociale del negozio, va intesa, nei contratti tipici, come funzione concreta obiettiva, che corrisponde ad una delle funzioni tipiche ed astratte determinate dalla legge. Pertanto anche nei contratti tipici, avendo riguardo a detta funzione concreta, è concepibile una causa illecita, che si ha quando le parti, con l’uso di uno schema negoziale tipico, abbiano direttamente perseguito uno scopo contrario ai principi giuridici ed etici fondamentali dell’ordinamento».
Cass. sez. III, n. 2420 del 1972: «La causa del negozio si manifesta nel momento stesso del nascere di questo, ricollegandosi essa allo scambio delle obbligazioni; con la conseguenza che, se la causa è illecita perché contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume (art. 1343 c.c.), la illiceità, in quanto connaturata al negozio sin dal suo sorgere, ne determina immediatamente la nullità (art. 118, secondo comma, c.c.). Da qui la conseguenza che l’eventuale accertamento della illiceità della causa perché contraria al buon costume esclude non solo la possibilità di pretendere l’esecuzione del contratto, ma anche di chiedere la rimozione di quanto, in offesa al buon costume, si fosse fatto per eseguirlo, in particolare la ripetizione di quanto eventualmente già corrisposto (art. 2035 c.c.)».
24 Cass. sez. III, n. 10490 del 2006.
La suprema Corte conferma la pronunzia di nullità per mancanza di causa di un contratto di consulenza avente ad oggetto la valutazione di progetti industriali e di acquisizione di azienda stipulato tra una società di capitali e l’amministratore di una società in accomandita semplice, che in realtà agiva a titolo personale essendogli riconosciuto da separata convenzioni per dette prestazioni un compenso di lire 240.000.000. Tali prestazioni erano identiche ai compiti svolti dal medesimo quale componente del consiglio di amministrazione della società di capitali, il cui oggetto sociale coincideva con quello del contratto di consulenza.
prospettiva di subire un depauperamento collegato o non collegato ad un sia pur indiretto guadagno o a un risparmio di spesa»25.
Tale affermazione è stata agevolata dall’essere la pronuncia resa su un caso di adempimento del terzo, negozio che – come molte altre fattispecie nominate in materia di obbligazioni – è sprovvisto di una tipica funzione economico-sociale, configurandosi come uno schema giuridico idoneo a realizzare più interessi pratici26. La giurisprudenza successiva ha in modo quasi unanime applicato questo orientamento ai contratti tipici.
In tema di simulazione del canone di locazione indicato nel contratto registrato, realizzata tramite una controdichiarazione occulta:
- l’ordinanza di rimessione: «In considerazione dello scopo pratico dalle parti (e in particolare ad una di esse, il locatore) con tale stipulazione appunto perseguito, e pertanto della relativa causa concreta (causa concreta che come questa Corte ha già avuto modo di affermare si sostanzia nell’interesse o scopo pratico anche tacitamente obiettivato che la specifica operazione contrattuale posta in essere dalle parti è funzionalmente diretta a soddisfare: per l’accoglimento della teoria della causa concreta, con superamento del tradizionale orientamento che ravvisava nella causa l’astratta funzione economico sociale del contratto, x. Xxxx., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26973; Cass., 7 ottobre 2008, n. 24769; Cass., 24 aprile 2008, n. 10651; Cass., 20
25 Cass. sez. un., n. 6538 del 2010.
26 «Molte disposizioni civilistiche (ad esempio, articoli 627, 651, 1197, 1260, 1268, 1706, 2034 e 2058 del Cc), configurano ipotesi di prestazioni isolate (garanzie proprie e improprie, delegazioni, estromissioni, accolli, cessioni del credito, rinunce, remissioni del debito, cessioni del contratto, e, ancora, surrogazioni, atti di liberalità, avalli, mandati di credito e via discorrendo), unificate dall’ossequio del criterio misuratore della meritevolezza dell’interesse perseguito. Secondo una prima ricostruzione (Cassazione 6918/2005, 11093/2004, 5264/98, 6909/97, 5616/92 e 6929/83), il pagamento del debito altrui rappresenterebbe, per antonomasia, per colui che paghi, un atto a titolo gratuito, data l’estraneità del terzo al rapporto negoziale originario, cioè al rapporto che abbia dato luogo al credito e al corrispettivo debito. Diversamente, una seconda frangia concettuale (Cassazione 889/2006, 15515/2001, 9560/91, 3265/89 e 5548/83) ha seguito la soluzione opposta, obiettando che la gratuità dell’atto potrebbe essere affermata unicamente avuto riguardo al debitore, ma non al creditore, avendo, rispetto a quest’ultimo, l’adempimento del terzo carattere sicuramente oneroso. In medio, si colloca Cassazione 6739/2008, che, muovendo dal rilievo che l’adempimento è il comportamento tenuto da chiunque sia obbligato all’esecuzione della prestazione rispetto al beneficiario (come vuole l’articolo 1218 del Cc), ha sostenuto, abbracciando una tesi mediana, che l’atto estintivo del debito potrebbe assumere, nei confronti del fallito, sembianze di onerosità o di gratuità, a seconda dello sviluppo dei rapporti sottostanti, soprattutto quelli tra terzo e creditore.
La causa concreta, però, è molto più difficile da carpire, perché più complessa è la penetrazione dell’interprete nell’indagare il contenuto della volontà delle parti, ergo l’esatta individuazione dei margini e degli intrecci del rapporto trilaterale debitore-creditore-terzo. Bisogna ben calibrare il ruolo svolto dal solvens, anche in considerazione dell’utilità da questi ricevibile dall’accipiens. Il discorso si complica ancor più (Cassazione 10490/2006) al cospetto di contratti collegati o misti ovvero di contratti combinati o atipici e la tematica è multiforme, essendo stata presa in considerazione anche dalle celeberrime sentenze emesse dalla corte regolatrice della legittimità in ambito di riconoscibilità della categoria autonoma del danno esistenziale (Cassazione 26972/2008). La ratio dell’articolo 64 della legge fallimentare è che l’atto gratuito viene posto in essere quasi sempre per frodare qualcuno, atteso che il consociato medio non si sognerebbe mai e poi mai, se non ricorrano circostanze particolari, di fare l’elemosina al proprio prossimo né di contraddistinguersi per eccessive doti caritatevoli (pure in funzione dell’antico adagio secondo il quale la generosità si ha solo quando il portafogli sia quello degli altri). Ne consegue, allora, che chi agisca in revocatoria potrà, invocando la negozialità del rapporto costituito, allegare il fatto costitutivo della propria pretesa patrimonialistica (id est: la gratuità dell’atto), dovendo essere l’opposto contraddittore a dimostrare l’insorgenza di fatti opposti (l’onerosità dell’atto), onde evitare la scure della declaratoria di inefficacia del ricevuto pagamento».
dicembre 2007, n. 26958; Cass., 11 giugno 0000, x. 00000; Cass., 22/8/2007, n. 17844; Cass., 24
luglio 2007, n. 16315; Cass., 27 luglio 2006, n. 17145; Cass., 8 maggio 2006, n. 10490; Cass., 14
novembre 2005, n. 22932; Cass., 26 ottobre 2005, n. 20816; Cass., 21 ottobre 0000, x. 00000. V.
altresi’ Cass., 7 maggio 1998, n. 4612; Cass., 16 ottobre 1995, n. 10805; Cass., 6 agosto 1997, n.
7266; Cass., 3 giugno 1993, n. 3800. Piu’ recentemente x. Xxxx., 00 febbraio 2009, n. 4501; Cass.,
12 novembre 2009, n. 23941; Cass., Sez. Un., 18 febbraio 2010, n. 3947; Cass., 18 marzo 2010, n.
6538; Cass., 1 aprile 2011, n. 7557. E, da ultimo, Cass., 3 aprile 2013, n. 8100), essa si rivela pertanto come imprescindibilmente connotata dalla vietata finalità di elusione fiscale, e, pertanto, conseguentemente affetta da invalidità»27;
- la sentenza delle Sezioni Unite: «9.4. La corretta evocazione, compiuta dal collegio remittente con l'ordinanza interlocutoria, dell'istituto della causa negoziale sì come rivisitato da questa Corte con la sentenza 10490/2006, predicativa del carattere c.d. "concreto" dell'elemento causale, consente di affermare che lo scopo del procedimento simulatorio è indiscutibilmente quello dell'occultamento al fisco della differenza tra la somma indicata nel contratto registrato e quella effettivamente percepita dal locatore. […] 13.4 Lo scopo tout cort dissuasivo dell'intento di elusione fiscale, di cui la legge del 1998 costituisce indiscutibile ratio … sarebbe difatti fortemente attenuata, se non del tutto vanificata, dal riconoscimento di una qualsivoglia efficacia sanante alla registrazione tardiva: il legislatore, sanzionando di nullità ogni patto volto alla previsione di un maggior canone, aveva inteso, in via principale, contrastare proprio il fenomeno del c.d. mercato sommerso degli affitti, perseguendo incondizionatamente l'emersione del fenomeno delle locazioni c.d. "in nero". La causa concreta di tale patto, ricostruita alla luce del precedente procedimento simulatorio, si rivela, pertanto, come ineluttabilmente caratterizzata dalla vietata finalità di elusione fiscale, e conseguentemente affetta dalla medesima nullità che la caratterizzava all'interno del detto procedimento»28.
In tema di comodato immobiliare ad uso abitativo senza termine: «Non di questo si discute qui, ma della ipotesi in cui il comodante concede al figlio, o a persona che egli intende beneficiare, un'abitazione da destinare a casa familiare, senza porre in alcun modo limiti temporali. Ed in questi casi, al di là delle nozioni giuridiche possedute dal comodante, di cui tuttavia vanno indagate le intenzioni obbietti va mente risultanti, rilevano la innegabile stabilità della destinazione abitativa, la finalità solidaristica che fa venire in risalto i bisogni della prole del comodatario, in definitiva la stessa causa del negozio, che è quella di attribuire il godimento di un bene, cioè di realizzare l'interesse del comodatario. È stato scritto che questo interesse permea e orienta il rapporto contrattuale di comodato. Questa affermazione si concretizza nell'assecondare la
27 Cass. sez. III, n. 37 del 2014.
28 Cass. sez. un., n. 18213 del 2015.
attuazione dell'iniziale programma negoziale e non nell'interpretare l'istituto al fine di facilitare reazioni ritorsive alle vicende esistenziali del beneficiario. È comprensibile che la novità recata dalla parziale dissoluzione del nucleo familiare (che nella sua composizione residua continua ad occupare l'abitazione familiare, mantenendone la destinazione) porti ad interrogarsi sulla ragionevolezza del permanere della destinazione, nonostante l'intendimento sopravvenuto di ritrattare la concessione. La risposta, per tutte le ragioni manifestate qui e da SU 13603/04, non può che essere nel segno di rispettare il potere di disposizione del bene, quale esercitato al sorgere del contratto. Se il contratto ancorava la durata del comodato alla famiglia del comodatario, corrisponde a diritto che esso perduri fino al venir meno delle esigenze della famiglia»29.
In tema di interpretazione funzionale del contratto: «Pur assumendo l’elemento letterale funzione fondamentale nella ricerca della volontà della reale o effettiva volontà delle parti, il giudice deve in proposito fare invero applicazione anche agli ulteriori criteri di interpretazione, e in particolare a quelli dell’interpretazione funzionale ex art. 1369 c.c. e dell’interpretazione secondo buona fede o correttezza ex art. 1366 c.c. Tali criteri debbono essere infatti correttamente intesi quali primari criteri d’interpretazione soggettiva, e non già oggettiva, del contratto (x. Xxxx., 27/6/2011, n. 14079; Cass., 00/0/0000, x. 00000; Cass., 19/5/2011, n. 10998), avendo riguardo allo scopo pratico perseguito dalle parti con la stipulazione del contratto e quindi alla relativa causa concreta (cfr. Cass., 23/5/2011, n. 11295). Il primo di tali criteri (art. 1369 c.c.) consente di accertare il significato dell’accordo in coerenza appunto con la relativa ragione pratica o causa concreta»30.
In tema di liberalità indiretta: «La liberalità non donativa può essere realizzata con un contratto a favore di terzo, ossia in virtù di un accordo tra disponente - stipulante e promittente con il quale al terzo beneficiario è attribuito un diritto, senza che quest'ultimo paghi alcun corrispettivo e senza prospettiva di vantaggio economico per lo stipulante. Il contratto a favore di terzo può bensì importare una liberalità a favore del medesimo, ma costituendo detta liberalità solo la conseguenza non diretta nè principale del negozio giuridico avente una causa diversa, si tratta di una donazione indiretta, la quale, se pure è sottoposta alle norme di carattere sostanziale che regolano le donazioni, non sottostà invece alle norme riguardanti la forma di queste (Cass., Sez. 1, 29 luglio 1968, n. 2727)»31.
L’evoluzione della nozione di causa rispecchia la contrapposizione tra la funzionalizzazione del diritto, teleologicamente votata alla sublimazione del dirigismo statale, che si stagliava su di un piano di intellegibilità socio-economico, idoneo ad instaurare una piena e perfetta corrispondenza tra ratio fondante l’atto negoziale e schema tipologico profilato dalla legge ai fini della peculiare
29 Cass. sez. un., n. 20448 del 2014.
30 Cass. sez. III, n. 22343 del 2014.
31 Cass. sez. un., n. 18725 del 2017.
produzione effettuale richiamata, e l’antica concezione individualista e liberale che, antropocentricamente (sulla scorta delle universali leggi di natura e non dei valori culturali affermati nella Costituzione), ergeva l’autonomia privata ad esclusiva forza creatrice ed esplicativa della realtà normata, imponendole l’unico limite esterno della liceità.
In questo percorso l’approdo alla nozione concreta ma pur sempre oggettiva rappresenta un punto di equilibrio, con la precisazione che il concetto di funzione economica viene progressivamente messo in ombra, fermo il suo riferimento al singolo contratto, in chiave di recupero del profilo soggettivo, più coerente con la tradizione teorica del negozio giuridico. La ragione pratica che guida i contraenti, infatti, viene oggi apprezzata al di là del suo contenuto patrimoniale, per la capacità di conservare e sviluppare la persona umana. Si tratta di un orientamento che rilancia il giudizio di meritevolezza della causa.
1.3 Il giudizio causale
Muovendo dalla premessa che la causa concreta affianca quella tipica, il processo interpretativo mira a coglierle entrambe, ripartendosi in fasi:
a) accertamento della causa concreta in via di interpretazione sistematica e teleologica dell’intero contenuto contrattuale;
b) accertamento della causa astratta in via di interpretazione letterale dell’accordo contrattuale;
c) qualificazione del contratto tramite un’operazione di raffronto tra causa concreta e causa astratta;
d) giudizio di meritevolezza e liceità della causa.
La differenza tra le operazioni indicate ai punti a) e b) risiede nella diversa base del procedimento ermeneutico, poiché la causa in astratto si accerta considerando non l’intero contenuto negoziale, comprensivo di clausole accessorie, ma solo gli elementi essenziali, che concorrono a delineare il tipo legale. Se gli elementi del contratto non considerati dalla norma non impediscono che il contratto sia qualificato come tipico, allora questi elementi non rilevano ai fini del giudizio di tipicità, altrimenti il contratto che ne diverge non sarà sussumibile nel tipo.
Nell’esempio prima fatto, se si ritiene che la causa della vendita sia lo scambio in senso puramente giuridico, la vendita a prezzo vile vi rientra, ancorché causa concreta e causa astratta non coincidano. Essa è vendita perché la causa concreta è sussumibile nella causa astratta, sebbene non coincidano; tutti gli altri elementi non hanno nessuna rilevanza. Tra la vendita e la vendita a prezzo vile vi è un rapporto di specialità, sicché, mancando una norma che regoli la vendita a prezzo vile, essa ricade nella vendita.
Tesi tradizionale
PREMESSA MINORE | PREMESSA MAGGIORE | CONCLUSIONE |
Vendita a prezzo vile (scambio di cosa contro prezzo irrisorio) | Art. 1470 c.c. (vendita = scambio di cosa contro prezzo) | Vendita a prezzo vile = vendita |
Tale fenomeno è diretta conseguenza del potere del legislatore di selezionare gli elementi rilevanti ai fini della individuazione del tipo. Ciò non implica che gli altri elementi non abbiano influenza nella pattuizione, potendo anzi concorrere a modificare la disciplina derogabile del tipo (art. 1322, comma 1 c.c.).
Per converso, se tra il contratto concretamente stipulato e il tipo legale il rapporto è di incompatibilità, perché gli elementi aggiuntivi o specificativi del primo sono in conflitto con il profilo causale del secondo, allora la causa concreta non è riconducibile a quella astratta e il contratto è atipico. Così, se si ritiene che la causa della vendita sia lo scambio in senso economico, la vendita a prezzo vile non vi rientra, perché la causa concreta non è sussumibile nella causa astratta.
Tesi più recente
PREMESSA MINORE | PREMESSA MAGGIORE | CONCLUSIONE |
Vendita a prezzo vile (scambio di cosa contro prezzo irrisorio) | Art. 1470 c.c. (vendita = scambio di cosa contro prezzo non irrisorio) | Vendita a prezzo vile = non vendita |
Chiarito il procedimento di qualificazione del contratto, può passarsi all’illustrazione del giudizio causale.
L’art. 1322 c.c. stabilisce nei suoi due commi: “Le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge. Le parti possono anche concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico”.
Nel determinare il contenuto del contratto i privati hanno due opzioni: creare un contenuto che sia riconducibile ad un tipo legale, ovvero ne sia divergente. A tale alternativa corrisponda la distinzione tra comma 1 e comma 2. Il primo comma si riferisce ai contratti tipici e riguarda l’atipicità di contenuto, che non determina una fuoriuscita del contratto dal tipo legale; il secondo comma si riferisce ai contratti atipici. Prevedendo che le parti possano “anche” concludere contratti
xxxxxxx, il secondo comma fa riferimento alla seconda opzione, la quale presuppone che il regolamento di interessi ecceda il contenuto tipico di un contratto.
Nella prassi i privati hanno in mente uno schema di interessi e cercano di organizzarlo in modo che rientri in un tipo legale, perché offre garanzie maggiori; sul tipo operano le variazioni idonee a soddisfare gli specifici interessi che perseguono. L’art. 1322, comma 1 riflette questa prassi, mentre l’art. 1322, comma 2 contempla l’ipotesi in cui il contenuto dell’accordo presenti elementi irriducibili a un tipo.
In tal caso ultimo è espressamente previsto che il giudice valuti gli interessi perseguiti, e tale valutazione, essendo di merito, postula un sindacato intrinseco sull’atto, teso ad accertare se la sua finalità – id est il risultato perseguito – sia meritevole di tutela giuridica.
Nel noto caso di scuola della locazione di un balcone per assistere ad un corteo, l’interesse pratico sotteso al godimento è ininfluente nella qualificazione del contratto, e però può essere valorizzato deducendo lo svolgimento del corteo come condizione sospensiva, ovvero come presupposto del contratto. Tale specificazione è valutabile ai sensi dell’art. 1322, comma 1 c.c. e non già comma 2, perché il contratto rimane di locazione. Ogni qualvolta tra il contratto concretamente concluso e il modello legale vi è un rapporto di specialità, per aggiunta o specificazione, salvo che la legge preveda una norma speciale, il contratto ricade nella norma generale. Il codice civile, regolando numerosi contratti tipici, costruiti su schemi piuttosto ampi, ha dato la possibilità ai privati di creare molteplici regolamenti negoziali, che sono riconducibili al tipo pur presentando importanti specificità.
Per i contratti atipici il giudizio di meritevolezza è direttamente prescritto dal legislatore, per i contratti tipici sembra assorbito dal procedimento di qualificazione, nel senso che, valutando la rispondenza del contratto al tipo legale, si compie questo giudizio, perché se il contenuto negoziale è sussumibile nello schema legale, significa che gli elementi concreti che lo connotano non elidono la valutazione di meritevolezza compiuta a priori dal legislatore.
Recentemente, però, si sta affermando un orientamento secondo cui al giudizio di meritevolezza in astratto, compiuto nell’ambito del procedimento di qualificazione, si unisce un giudizio di meritevolezza in concreto: il primo ha per oggetto il tipo, o, più correttamente, la causa tipica, il secondo la causa concreta, peraltro apprezzata nella sua valenza ‘umanistica’, non in quella economica. Di questo orientamento si è già trattato, con analisi di due casi32. Tale orientamento recupera la valutazione degli elementi particolari contenuti nello specifico contratto stipulato, onde verificare la loro compatibilità con i principi che guidano il giudizio di meritevolezza. La perplessità di tale approccio interpretativo è costituita dal fatto che l’art. 1322 c.c. distingue
32 Cap. VII, § 2.2. e 3.1, rispettivamente concernenti l’assicurazione della responsabilità civile con xxxxxxxx claims made
e i derivati finanziari.
chiaramente tra il giudizio sul contenuto e quello sul tipo: il primo di liceità, il secondo di meritevolezza. Ciò dovrebbe comportare che, se il contratto ricade nel tipo, gli elementi che lo eccedono debbono essere valutati, ma sotto il profilo della liceità.
La scelta del legislatore di riconoscere e disciplinare taluni modelli, lasciando ai privati la libertà di modificarne il contenuto tipico fino al punto in cui le modifiche non alterino il modello e sottoponendo tali modifiche a un controllo di liceità, suggerisce la seguente soluzione.
Il giudizio di meritevolezza dei contratti tipici è ancorato al criterio dell’utilità sociale e si compie tramite il procedimento di qualificazione, con la precisazione che nel procedimento logico di sussunzione della causa concreta in quella astratta si dovrà tener conto degli elementi che, pur non esplicitati nel tipo legale, connotano il tipo reale. In tal modo sono soddisfatte le esigenze cui rispettivamente le due teorie rispondono: l’individualizzazione del giudizio causale, commisurato allo specifico patto posto in essere dai privati; l’ancoraggio a un paradigma generale, capace di fornire un criterio di valutazione ordinamentale a contratti che aspirano al pieno riconoscimento. La causa dei contratti tipici è la funzione socio-economica, la causa del singolo contratto è la sintesi degli interessi reali delle parti: quando lo schema cui corrispondono tali interessi è sussumibile nella funzione socio-economica, allora il contratto è meritevole. L’adozione di un criterio più restrittivo, qual è l’utilità sociale, è ragionevole, perché la tipizzazione conferisce al contratto una patente di validità e una disciplina dispositiva, che semplifica il rapporto tra le parti, ferma la possibilità di derogarvi. Il sindacato del giudice dinanzi a un contratto tipico è più limitato, e questo rappresenta una garanzia di certezza per i privati.
Il giudizio di meritevolezza nei contratti atipici è previsto ma non specificato. La giurisprudenza adotta il metodo tipologico, qualificando il contratto atipico alla luce di uno o più contratti tipici. L’assimilazione a un tipo non sempre è possibile e, comunque, fornisce soltanto un indizio di meritevolezza, poiché l’autonomia privata non può essere costretta entro una forzata tipizzazione. Respinta la tesi secondo cui il giudizio di meritevolezza si esaurisce in quello di non illiceità, perché contrastante con il chiaro disposto della legge, il parametro di valutazione può essere ricavato dal sistema, ma nel rispetto dell’art. 41 comma e Cost., il quale, nel fissare i limiti alla libertà di iniziativa economica privata, stabilisce che “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla liberta, alla dignità umana”. All’interno di questa disposizione si possono distinguere i limiti esterni (libertà, sicurezza, dignità) dai limiti interni. (utilità sociale). Il limite interno rileva in senso non assoluto, ma relativo, poiché la norma non richiede che i privati perseguano l’utilità sociale (come, invece, fa il comma 3 dello stesso articolo), bensì che la loro attività non sia in contrasto con essa. Ne consegue che i contratti sono ammessi purché compatibili con l’utilità sociale, non essendo invece necessario che siano
socialmente utili. La compatibilità con l’utilità sociale vincola il legislatore a disconoscere contratti socialmente dannosi, non a riconoscere i contratti socialmente non dannosi, restando il legislatore libero di fissare come requisito di ammissibilità quello dell’utilità sociale, cioè contratti provvisti di una funzione socio-economica.
Tornando all’esempio della vendita a prezzo vile, qualora si escluda che esso integri il contratto di vendita, occorre valutarne l’ammissibilità come contratto atipico, dunque sottoporlo al giudizio di meritevolezza in concreto, cioè sulla base del raffronto con i principi della struttura socio- economica, senza la mediazione dei modelli legislativi di contratto.
In tale operazione si deve muovere dalla ricerca degli interessi perseguiti dalle parti. A giustificare una cessione immobiliare a prezzo irrisorio difficilmente possono esservi interessi patrimoniali, come quelli legati al risparmio dei costi di gestione o ad altri rapporti che esistono tra le parti, ma ciò è possibile. Si immagini che il cedente sia socio della società acquirente e la cessione abbia lo scopo di un conferimento o comunque di un aiuto all’attività di impresa, come nei casi di immobile strumentale. Più verosimilmente, il trasferimento sarà sorretto da interessi non patrimoniali: al di là dell’ipotesi della liberalità, che risolve il problema della qualificazione dell’atto a monte, è ipotizzabile una causa solidaristica, che oramai si è venuta affrancando dalla donazione, acquistando autonomia nel diritto dei privati. In queste ipotesi, trattandosi di funzioni legalmente o socialmente tipiche non vi sono dubbi sull’esito positivo del giudizio di compatibilità con l’utilità sociale.
Più interessante l’ipotesi in cui l’interesse non patrimoniale non sia rintracciabile nell’ordinamento giuridico o sociale, come potrebbe essere un interesse legato a una fede religiosa non riconosciuta. Così quando il cedente sia persuaso che sull’immobile gravi una maledizione, da cui si possa e liberare solo vendendo l’immobile, sul presupposto che solo un acquisto oneroso possa realizzare il passaggio a un altro soggetto dell’incantesimo nefasto. La sporadicità dell’interesse può anzitutto portare a classificarlo come motivo, piuttosto che come causa. La teoria della causa in concreto, infatti, ha ridotto ma non eliminato la distanza tra causa e motivo. Adottando come criterio quello dell’ingresso o meno nel contenuto negoziale, l’interesse para-religioso connota il profilo causale se inserito nell’accordo, oggettivandosi. Valutarne la compatibilità con l’utilità sociale è più complesso. Nel mercato immobiliare le cessioni sottocosto prive di una giustificazione comunemente accettata sono guardate con sfavore. Dismissioni di beni immobili per ragioni futili, capricciose, del tutto soggettive, alterano la dinamica del mercato dal lato dell’offerta. Non è tuttavia scontato che l’interesse sia futile o arbitrario, quindi nemico del progresso della comunità. L’ordine giuridico è legittimato a impedire le contrattazioni irrazionali, sicché se l’interesse individuale è il prodotto di percorsi mentali deviati, di una rappresentazione immaginaria, o di
convincimenti assurdi, esso non è meritevole di tutela. Viceversa, se il bene della vita perseguito (liberarsi dalla maledizione) è il frutto di un credo – ancorché esoterico – che abbia un riconoscimento nella società, il suo perseguimento non può essere impedito in forza di una valutazione difforme. Ad esempio il fenomeno delle possessioni demoniache dell’esorcismo, ancorché non riconosciuto dalla scienza, è parte integrante della religione cattolica, e gli interessi dei credenti che vi si ricollegano non possono essere qualificati come socialmente dannosi.
Rammentato che la causa ‘copre’ il rapporto causale tra accordo ed effetti giuridici, qualunque interesse pratico deve essere esaminato alla luce della legge di funzionamento del mondo cui afferisce. Allora se c’è un sapere che offre una spiegazione valida per una certa comunità, ancorché si tratti di una spiegazione metafisica, l’interesse non è capriccioso. Se c’è un credo religioso, c’è comunque un sistema di pensiero, e l’ordinamento giuridico non può rifiutarlo a priori. Diversamente, se la finalità che anima l’operazione sia puramente personale e priva di qualsiasi riconoscimento nella comunità di appartenenza.
Meno complicato è il giudizio di illiceità.
L’art. 1343 c.c. stabilisce che “La causa è illecita quando è contraria a norme imperative, all'ordine pubblico o al buon costume”.
L’illiceità della causa è conseguenza dell’applicazione di norme giuridiche che escludono tutela allo scopo di un atto, ivi comprese quelle del buon costume, che tali diventano a per effetto della recezione fatta nell'art. 1343.
L'illiceità della causa è un concetto elastico, dato che si può riportare, oltre che a una proibizione della legge, anche a un divieto prodotto dalla morale e dall'ordine pubblico. Lo sviluppo morale del popolo è sempre in evoluzione, l'ordine pubblico è altrettanto mutevole in relazione ai mutamenti che può subire l'ordinamento giuridico del complesso sociale; il concetto di causa illecita perciò si espande e si comprime in rapporto alla mobilità dei presupposti che lo determinano.
Comunque, nel riferimento alla morale e all'ordine pubblico, esso ha una base d'indeterminatezza che costringe ad una cauta opera di determinazione dei principi direttivi e di analisi della fattispecie concreta per la sua qualificazione. Il riferimento al divieto fatto da norme imperative rende più preciso l’art. 1343 in confronto del vecchio art. 1122 del codice abrogato che richiamava solo il divieto della legge; ma anche l’art. 1343 merita sul punto qualche chiarimento, perché non tutte le violazioni di norme cogenti adducono alla causa illecita. La forma imperativa della norma può essere un estremo da tener presente; ma non è il solo, perché essa si accompagna, ad esempio, anche alle norme penali, di polizia o finanziaria, che, non di rado, esauriscono le loro sanzioni in una pena o in una multa, senza toccare la validità del negozio. La causa illecita deriverà invece dal carattere perfetto della proibizione legislativa o dallo scopo d'interesse generale che la legge ha inteso
perseguire mediante la proibizione. Il contrario potrebbe risultare dall'art. 1343 che non distingue fra le diverse norme imperative; una distinzione si trae invece dall'art. 1418 ove, ai due primi commi, il concetto di causa illecita è tenuto separato da quella di violazione di norme imperative.
Anche per il giudizio di illiceità si pone la questione se esso riguardi i contratti tipici. Poiché, però, tale giudizio si fonda sui limiti esterni, è più agevole configurare lo spazio in cui la funzione del contratto, pur legalmente riconosciuta, possa assumere in concreto natura illecita.
Si pensi ai reati-contratto, cioè a tutte quelle ipotesi in cui il contratto costituisce reato in sé (corruzione, cessione di sostanze stupefacenti, vendita illegale di armi, commercio di schiavi, prostituzione minorile, ecc.). Si tratta di ipotesi che ricalcano schemi tipici, che per le caratteristiche dei soggetti (pubblici ufficiali, minori) o dell’oggetto (armi, droga, persone umane) assumono funzione criminosa.
Tanto sulla premessa che l’illiceità penale non alteri il tipo, facendo fuoriuscire la causa concreta dal modello legale. Infatti, se si accetta l’idea che la qualificazione si faccia sulla base della parziale e non totale coincidenza tra causa concreta e causa astratta, allora è ben possibile che ad essere tipico sia un contratto penalmente illecito.
Si potrebbe obiettare che un contratto costituente reato prima che illecito è immeritevole, ma si tratterebbe di un’impropria sovrapposizione dei giudizi. La meritevolezza attiene allo schema causale tipico, approvato dall’ordinamento poiché normalmente impiegato per scopi forieri del progresso socio-economico ovvero con essi non confliggenti. Tale distinzione si riflette sui parametri di giudizio: lo scrutinio di merito attiene alla conformità della funzione negoziale alle leggi economiche, il giudizio di liceità è condotto alla stregua della legge giuridica. Anche i contratti reato possono essere meritevoli, tanto più che non sempre sono colpiti da un’illiceità assoluta, come nell’ipotesi di corruzione posta in essere dall’agente infiltrato, o dalla cessione di stupefacenti autorizzata per scopi medici.
Altra ipotesi di illiceità è costituita dalla frode alla legge; l’art. 1344 c.c. stabilisce che “La causa si reputa altresì illecita quando il contratto costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa”.
L’interpretazione di questa disposizione è molto discussa, risentendo proprio della diversa nozione di causa cui si aderisce.
Per la teoria della causa astratta questa è la vera ipotesi di illiceità, potendosi realizzare anche per i contratti tipici, quando i contraenti utilizzano uno schema contrattuale tipico per conseguire un risultato economico diverso da quello proprio del contratto concluso, che persegue finalità e produce effetti vietati dalla legge. Il contratto, quindi, mira ad eludere
l'applicazione di una norma imperativa, che vieta il conseguimento di un certo risultato 33. Esso è classificabile non contra legem, bensì in fraudem legis, poiché la legge è violata in via indiretta.
Con l’avvento della teoria della causa concreta l’autonomia della figura è stata negata, trattandosi di ipotesi un cui un contratto tipico viene utilizzato dalle parti per il raggiungimento di uno scopo concreto vietato dalla legge, inquadrabile nell’art. 1343. Quest’ultimo trova applicazione rispetto non alla causa tipica, in sé lecita, ma a quella concreta, allorquando l’operazione economica sia preordinata, nei suoi risvolti sostanziali, dinamici e reali, ad un risultato vietato dalla legge. L’ipotesi di cui all’art. 1344 c.c. è assorbita, poiché il giudice è comunque chiamato a valutare la ragione pratica dell’affare, perdendo di significato la differenza tra violazione della legge diretta od indiretta. A questa conclusione si replica che la distinzione tra le due fattispecie risiede nel meccanismo negoziale illecito, che nell’art. 1344
c.c. consiste in un negozio indiretto, approntato mediante clausole accessorie o il collegamento contrattuale. Si tratta di un manovra di aggiramento, mercé un contratto formalmente lecito ma sostanzialmente illecito, in quanto diretto alla produzione di effetti ulteriori o addirittura diversi da quelli tipici dello schema adoperato.
A questa contrapposizione sul piano dell’inquadramento corrisponde una divergenza sul piano della ricostruzione strutturale.
Una parte della dottrina e della giurisprudenza ritiene che sia sufficiente l’elemento oggettivo, ossia l’elusione del divieto normativo. A tal proposito si distingue tra norme materiali e norme formali. Le prime vietano il raggiungimento di un risultato con un determinato mezzo, lasciando libere le parti di raggiungerlo con un mezzo diverso; le seconde vietano il raggiungimento di un risultato con qualunque mezzo, a prescindere da quello espressamente stigmatizzato dalla norma. Soltanto con riferimento alle seconde è possibile configurare l’elusione, quando le parti realizzano il medesimo risultato, ma con un mezzo diverso da quello testualmente vietato, per cui il contratto è formalmente rispettoso della legge, ma sostanzialmente contrario al suo spirito. Il risultato deve essere identico e non analogo, poiché tutte le norme che limitano l’autonomia privata devono ritenersi eccezionali e, dunque, di stretta interpretazione. Il fondamento della fattispecie è dunque, nello ‘snaturamento’ della causa, la quale, nonostante il nome contrattuale prescelto, sia stata piegata all’ottenimento di risultati economici che non le sono propri e che, anzi, risultano vietati dall’ordinamento. Sono due le reazioni a questa tesi. L'obiezione più risalente e tradizionale osserva che non vi sarebbe allora alcuna differenza tra il contratto in frode alla legge di cui all'art. 1344 c.c. e i l contratto
33 Questo mascheramento funzionale, dietro lo stratagemma della ineccepibilità formale, diverge dalla simulazione che abbia causa illecita, ove la finzione di apparenza, in realtà, sostanzia un occultamento delle confluenti finalità.
con causa illecita di cui al precedente art. 1343 c.c., e questo apparirebbe quanto meno irragionevole. Secondo, invece, la ricostruzione dottrinale più recente, tutto ciò avrebbe assolutamente senso, al punto da doversi effettivamente ritenere che l'art. 1344 c.c. sia, nella sostanza, una norma ripetitiva di un concetto già espresso nell'art. 1343 c.c., e ciò soprattutto ove si abbracci la teoria della causa in concreto.
In base a quest’ultima impostazione non sarebbe più necessaria la ricostruzione dell’istituto in chiave soggettiva per dare rilievo ai motivi dei contraenti. La concezione soggettiva ritiene necessario, perché si possa parlare di frode alla legge, che all'elemento oggettivo si accompagni anche la volontà delle parti di eludere l'applicazione della norma imperativa ed è seguita dalla giurisprudenza più remota34. In tal modo, peraltro, si finisce sostanzialmente per ricondurre la fattispecie nell'alveo della illiceità del motivo (che ovviamente, a questo punto, occorre pretendere che sia comune ad entrambe i contraenti, non potendo altrimenti assumere rilievo). Ma nella visione della causa del contratto come causa concreta, il comune motivo dei contraenti, ovvero lo scopo concreto cui tende il negozio, non è altro che la causa stessa del contratto. A questa tesi aderisce la giurisprudenza più recente 35.
La questione va risolta considerando il doppio profilo causale dei contratti tipici.
Illiceità diretta
PREMESSA MINORE | PREMESSA MAGGIORE | CONCLUSIONE |
Causa tipica legale Causa concreta illegale (norme imperative, ordine pubblico, buon costume) | Art. 1343 c.c. | Causa illecita |
34 Cass. sez. II, n. 3568 del 1971: «Il contratto in frode alla legge è caratterizzato dalla consapevole divergenza tra la causa tipica del contratto prescelto e la determinazione causale delle parti indirizzate all’elusione di una norma imperativa».
35 Cass. sez. II, n. 1523 del 2010: «La peculiarità del contratto in frode alla legge, di cui all’art. 1344 c.c., consiste nel fatto che gli stipulanti raggiungono, attraverso gli accordi contrattuali, il medesimo risultato vietato dalla legge, con la conseguenza che, nonostante il mezzo impiegato sia lecito, è illecito il risultato che attraverso l’abuso del mezzo e la distorsione della sua funzione ordinaria si vuole in concreto realizzare».
Cass. sez. I, n. 8600 del 2003: «Il negozio in frode alla legge è quello che persegue una finalità vietata in assoluto dall’ordinamento in quanto contraria a norma imperativa o ai principi dell’ordine pubblico o del buon costume ovvero perché diretta ad eludere una norma imperativa. L’intento di recare pregiudizio ad altri soggetti non rientra di per sé nella descritta fattispecie, sia perché il negozio in frode alla legge è ipotesi del tutto distinta da quella del negozio in frode ai terzi, sia perché non si rinviene nell’ordinamento una norma che stabilisca in via generale, come per il primo tipo di contratto, l’invalidità del contratto stipulato in frode ai terzi, ai quali ultimi, invece, l’ordinamento accorda rimedi specifici, correlati alle varie ipotesi di pregiudizio che essi possano risentire dall’altrui attività negoziale».
Frode alla legge
PREMESSA MINORE | PREMESSA MAGGIORE | CONCLUSIONE |
Causa tipica legale Causa concreta legale, ma elusiva (norme imperative) | Art. 1344 c.c. | Causa = illecita |
Il più delle volte la frode alla legge viene realizzata tramite operazioni complesse, inquadrabili nella figura del collegamento negoziale36.
L’ipotesi di frode alla legge più famosa è l’elusione del divieto di patto commissorio, che può realizzarsi sia tramite negozio indiretto, che tramite collegamento negoziale.
Di recente, ha assunto rilevanza il fenomeno dell’elusione fiscale, essendo spesso il negozio indiretto e il collegamento negoziale utilizzati per conseguire risparmi d’imposta. L’elusione fiscale rileva come abuso del diritto, definito dall’art. 10-bis dello Statuto del contribuente37.
Sul rapporto esistente tra negozio atipico o collegamento negoziale da un lato e abuso del diritto osserva la giurisprudenza che «Il fenomeno abusivo deve iscriversi nell’ambito delle sole condotte lecite (id est: non violative di prescrizioni normative) e non occulte (essendo realmente diretta la volontà dei contraenti abusivi alla produzione degli effetti giuridici previsti dalla legge) che consentono di perseguire legalmente il risultato finale previsto, ad esempio attraverso l’uso indiretto del negozio od il collegamento negoziale od anche eventuali deroghe negoziali allo schema tipico dei contratti o commistioni tra discipline negoziali differenti (che collocano il rapporto nella sfera dei negozi atipici o misti rimessi all’esercizio della autonomia privata) od ancora il frazionamento, in autonomi contatti, di prestazioni unitariamente riconducibili ad un medesimo schema negoziale tipico, dovendo inoltre ravvisarsi il connotato della abusività della condotta, nel risultato finale – da valutarsi secondo un criterio oggettivo – elusivo della imposizione fiscale, ottenuto all’esito dell’operazione negoziale, risultato che viene raggiunto dalle parti costruendo la operazione economica in modo da destrutturare il fatto giuridicamente rilevante altrimenti integrante il presupposto d’imposta previsto dalla norma impositiva. Gli indici sintomatici ai quali occorre attingere per la dimostrazione della abusività della condotta debbono essere ricercati nel limite imposto dalla convenienza economica della operazione, nel senso che,
36 Nella prassi si segnalano:
- interposizioni reali, atte ad eludere un divieto di acquisto, mediante intermediazione di un mandatario senza rappresentanza, che prima compri e poi ritrasferisca il bene al mandante;
- il licenziamento seguito da una immediata riassunzione, volti a frazionare il rapporto di lavoro in modo da comprimere il TFR, che va computato in relazione alla complessiva durata dello stesso, eludendo l’applicazione dell’art. 2120 c.c.;
- l’esercizio del diritto di prelazione legale, seguito immediatamente da un atto dispositivo del bene acquistato, volta a eludere l’obbligo di esercitare il diritto per lo scopo riconosciuto dalla legge a suo fondamento (lo sfruttamento del bene).
37 Cap. II, sez. III, § 4.
data la peculiare situazione economico-patrimoniale ed il tipo di organizzazione aziendale o societaria del soggetto – così come rilevate ex ante rispetto alla operazione economica da compiere – detto limite è rispettato se una modifica della situazione come sopra rilevata appare rispondente a logiche di mercato ed in ultima analisi ai prìncipi di economicità della gestione: ove tali requisiti di economicità della gestione (che possono essere individuati anche in modifiche di tipo organizzativo od aziendale in quanto volte a realizzare miglioramenti netta efficienza della attività od a rendere maggiormente competitiva la impresa) non siano, invece, rinvenibili nella operazione realizzata, e la fattispecie negoziale posta in essere consenta, comunque, di realizzare, mediante una diversa allocazione delle risorse economico-patrimoniali preesistenti, un trattamento fiscale più favorevole, allora la duplice combinazione di tali elementi (carente giustificazione economica della operazione; realizzazione di un risparmio fiscale) consente di pervenire a qualificare la operazione come abuso di diritto, in quanto diretta esclusivamente ad impedire la verificazione del presupposto d’imposta»38.
Se e quale sia la sanzione civilistica del contratto elusivo di norme tributarie è questione trattata nell’ambito delle nullità. Il difetto di causa, l’illiceità della causa, la frode alla legge sono tutte situazioni che rendono il contratto nullo, ma in virtù di tecniche differenti. Il contratto privo di causa è affetto da nullità strutturale (artt. 1325 n. 2 e 1418, comma 2 c.c.), il contratto con causa illecita e in frode alla legge è affetto da nullità funzionale, diretta (artt. 1343 e 1418, comma 2 c.c.) o indiretta (artt. 1344 e 1418, comma 2 c.c.).
38 Cass. sez. tributaria, n. 26060 del 2015.